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nasce in fabbrica
la nuova poesia cinese
Rime | Il suicidio di un giovane operaio nello stabilimento che produce iPhone
porta all’attenzione del grande pubblico il fenomeno letterario della Cina del XXI secolo:
i versi dei lavoratori migranti, «sismografo spirituale delle vite vissute dal basso»
di CECILIA ATTANASIO GHEZZI
Fabbrica, catena di montaggio,
altoparlante, cartellino,
straordinari, salario… / Sono
stato addestrato / Non so urlare
né ribellarmi / Non so denunciare,
né recriminare / Solo sopportare
la stanchezza in silenzio /
Quando sono entrato qui dentro
/ Volevo solo una busta paga grigia,
il dieci di ogni mese.
Il 30 settembre 2014, a soli24 anni, l’autore di questi versi si è suicidato. Xu Lizhi lavorava alla Foxconn. L’azienda taiwanese a cui Apple appalta l’assemblaggio degli iPhone divenuta tristemente famosa nel 2010, quando una serie di suicidi tra i suoi operai la portò sulle cronache dei giornali di tutto il mondo. «Morire è l’unico modo per testimoniare che abbiamo vissuto», aveva scritto all’epoca un blogger che lavorava nella stessa fabbrica. Foxconn recintò i tetti dei suoi capannoni con le reti, ma questo non impedì al giovane Lizhi di saltare dal diciassettesimo piano quattro anni più tardi. E di scombinare le carte in tavola, quello che non gli era riuscito da vivo. Tramite la sua morte si è parlato delle sue poesie. E non solo delle sue. Mentre i suoi versi colpivano al cuore i consumatori di mezzo mondo, i suoi concittadini hanno cominciato a esplorare un nuovo genere letterario.
• Poesia operaia e migrante
È la poesia degli operai migranti, dagong shige in cinese, nata con gli smartphone e la Cina “fabbrica del mondo”. I critici l’hanno definita «il sismografo spirituale delle vite vissute dal basso». Si è diffusa principalmente su internet: blog, microblog, ma soprattutto gruppi pubblici e privati sulle chat. Gli autori sono tanti: una recente antologia cinese a cura del critico letterario Qin Xiaoyu, Wode shipian (“Le mie poesie”, Zuojia Chubanshe, 2015), ne mette insieme più di un centinaio. E non sono più i gongren, operai di quella classe sociale che nella retorica maoista avrebbe guidato la rivoluzione, ma dagongren: giovani manovali che si vendono a basso costo, in fuga dalle campagne e diretti ovunque c’è lavoro. Sono esponenti delle generazioni nate negli anni Ottanta e Novanta, quelli che non sono cresciuti con l’ideale del comunismo, ma con il disatteso «arricchirsi è glorioso». Sono i figli unici per legge che non hanno visto altra Cina che quella del miracolo economico, troppo giovani per ricordarsi delle manifestazioni di piazza Tian’anmen. Ragazzi che per sfuggire alla povertà dei paesi natali si concentrano nei poli produttivi del sudest cinese trasformando villaggi in metropoli e riempiendo i dormitori dei capannoni delle anonime periferie industriali. Tirano avanti sopravvivendo a licenziamenti, fallimenti, assenza di famiglia, di privacy e di tempo libero.
• Ingranaggi del XXI secolo
«È sorprendente che scrivano, molti di loro non hanno finito neppure la scuola dell’obbligo eppure le loro poesie non hanno nulla da invidiare a quelle dei letterati di professione», commenta a pagina99 Eleonor Goodman, che ha curato la traduzione in inglese delle loro poesie in un’antologia e un documentario omonimi: Iron Moon (Paperback, 2017; Festival internazionale di Shanghai 2015, miglior documentario). «Sono autodidatti, ma la loro opera è ciò che più segna la letteratura cinese del XXI secolo. Il lessico è potente, come l’identificazione del poeta con un ingranaggio dei macchinari di cui è schiavo. Sono giovani, ma hanno la consapevolezza di produrre merce che non potranno mai permettersi». C’è un oggetto che li accomuna, lo smartphone. Al telefono connesso a internet è affidata la loro identità, la loro espressione, la loro rete sociale e la loro finestra sul mondo. Sono centinaia di milioni, 282 secondo le statistiche ufficiali.
• L’estetica del ferro
«Nel delta del fiume delle Perle, ogni anno finiscono più di quarantamila dita. Spesso ho pensato: se venissero allineate, quanto sarebbe lunga la fila che andrebbero a formare? Una fila che continua a crescere ininterrottamente (…). Non possiamo cambiar nulla di questa realtà, ma ne siamo testimoni. Penso sia un dovere raccontarla». Con questo discorso Zheng Xiaoqiong aveva accolto un premio letterario prestigioso. Lei, classe 1980, ha iniziato a scrivere quando, per inesperienza e stanchezza, aveva perso la falange di un dito modellando pesanti lastre di ferro. Un momento che, come racconta Serena Zuccheri, la sinologa e ricercatrice dell’Università di Bologna che l’ha tradotta in italiano, «è insieme l’iniziazione al dolore fisico, la fine della sua giovinezza e l’inizio della sua vena poetica». E infatti proprio quella notte, in ospedale, Xiaoqiong comincia a scrivere. «Scrivo nell’oscurità della notte di operaie in una fabbrica di abbigliamento e della tosse cui sono destinate / Scrivo nell’oscurità della notte di fornaci in una fabbrica di metalli e di un dito inghiottito da un macchinario». Racconta che quando è entrata in fabbrica il numero 245 ha sostituito il suo nome. Niente identità, niente famiglia. Descrive la sua vita e quella delle sue colleghe. Turni dalle 12 alle 15 ore al giorno, riso bianco e cavolo bollito a mensa, camerate da 30 persone e libera uscita appena tre volte alla settimana. La sua poesia è stata definita «l’epica dell’era industriale» e «l’estetica del ferro». Di fatto è considerata uno dei primi e più squisiti esempi di poesia degli operai migranti. Ferro, plastica, fornaci, macchinari. Oggetti freddi e inerti che diventano il simbolo di uomini e donne che perdono l’anima nella ripetizione meccanica dei gesti e delle giornate. Ragazzi che pensavano che il lavoro li avrebbe resi liberi. E invece.
• Il lavoro (non) rende liberi
«Uno spazio di una decina di metri quadrati, angusto e umido / La luce del sole non entra neanche un giorno all’anno / Qui mangio, dormo, cago e penso / Tossisco, ho mal di testa, invecchio. Mi ammalo, ma non muoio». Così scriveva Xu Lizhi prima di togliersi la vita. Che era un poeta, i suoi genitori l’hanno scoperto solo dopo il gesto estremo. La sua strofa più famosa, «ho ingoiato una luna di ferro», ha dato il nome al sopracitato Iron Moon. Insieme a lui c’è Wu Niaoniao che ha già due figli e cerca lavoro in una di quelle gigantesche fiere che animano le metropoli del sud della Cina. Gli offrono di fare il guidatore di muletto o di camion, il minatore, il muratore, l’assemblaggio di componenti elettrici. Non ha neanche il diploma superiore, ma scrive. «Una fabbrica di neve nel cielo, meccanica / angeli alla catena di montaggio, notte e giorno in piedi in una luce fluorescente / senza espressione producono meravigliosi fiocchi di neve / il sovraccarico di lavoro li fa schiumare dalla bocca / mentre le macchine continuano a tuonare». Vorrebbe fare il poeta, ma tornerà in fabbrica. Probabilmente finirà come Wu Xia, una delle rare poetesse. Ha 35 anni e per più della metà della sua vita, 21 lunghissimi anni, si è trascinata da una fabbrica all’altra. La sua vita è miseria e affetti lontani. Nelle sue strofe immagina con affetto l’utilizzatore finale dei prodotti del suo lavoro. Una vita borghese, quella che non le riuscirà mai di vivere.
• Guerrieri di terracotta
Destino simile a quello di Guo Jinnu, che si concentra con nostalgia sui cambiamenti del suo villaggio natale. «Un blocco di cemento dopo l’altro. Siamo ancora sulla terra? / Lo sanno i semi / Il fiume dove scolano gli agenti chimici, è ancora un fiume? / Lo sanno i pesci». Vite, preoccupazioni, desiderio di emergere, identità negata in un Paese in continua trasformazione. Mentre i lavori di queste persone arrivano finalmente al grande pubblico e ricevono apprezzamenti e premi, il mondo di cui parlano sta già scomparendo. L’economia della “fabbrica del mondo” si sta evolvendo in una moderna società dei servizi. Per gli operai migranti il lavoro è sempre meno. Forse gli esponenti della prossima corrente poetica saranno i fattorini. O, addirittura, quei robot che li stanno sostituendo. Ma ancora al richiamo della sirena sono tutti uguali. Sulla linea di assemblaggio. Xu Lizhi li paragona ai guerrieri di terracotta, quelli dell’antica dinastia dei Qin, III secolo a. C., morti senza sapere che il loro lavoro aveva reso eterna la memoria del primo impero cinese.