La Stampa 9.6.17
La libertà del cecchino
di Mattia Feltri
La
sarabanda di ieri non contribuirà a migliorare la reputazione dei
franchi tiratori. E in effetti l’espressione viene dal gergo militare:
il franco tiratore è un cecchino, uno che coglie di sorpresa, e se può
spara alle spalle. È curioso quanta distanza ci sia tra l’opinione
(diffusa) che si ha del franco tiratore e le (rare) difese che se ne
fanno, accademiche e nobili. Ma è che di accademico e di nobile si
coglie poco nelle imboscate di ieri, è difficile persino capire chi
abbia raggirato chi, è difficile capire se fossero franchi tiratori
quelli del Movimento cinque stelle, che credendo in un voto segreto
hanno votato quasi tutti contro la legge elettorale appena concordata, o
erano franchi tiratori al quadrato i pochi cinque stelle che invece
hanno votato a favore, proprio perché erano contrari.
Se il
concetto non vi è chiaro, siete in larga compagnia: questa è politica
quantistica. Di sicuro c’erano franchi tiratori nel Pd, pure nella Lega e
in Forza Italia, franchi tiratori ovunque in una sparatoria da saloon,
al termine della quale lo sceriffo li impiccherebbe tutti, e fortuna
loro che qui non è ancora Far West. A questo punto viene complicato
restituire la dignità alla figura del franco tiratore, che tecnicamente,
nella teoria politologica più insigne, sarebbe il parlamentare che
approfitta del voto segreto per votare contro le disposizioni (contro il
dispotismo) del capo.
Uno come Benedetto Croce, che alla Camera
lo avranno letto in trenta, spiegava così: «La segretezza del voto è
conseguenza della partitocrazia e del sistema proporzionale e, dopo
tutto, in nessun codice è scritto che un uomo debba far risuonare sempre
e ad alta voce tutto ciò che pensa o crede». La partitocrazia è
autoritarismo, e l’autoritarismo ammazza. Tutti sanno che l’unico ad
abolire il voto segreto, in Italia codificato fino dall’Ottocento nello
Statuto Albertino, è stato Benito Mussolini. «D’ora in poi si voterà a
testa alta», disse, intendendo che si doveva piegarla. Il Duce lo abolì
nel 1939. Prima non aveva bisogno. Ma ormai sentiva la dissidenza al
collo, e non voleva che emergesse con certificazione dei lavori
parlamentari. Bisognerebbe sempre riflettere, quando si chiede
l’abolizione del voto segreto, e dunque dei franchi tiratori, in nome
della purezza e della trasparenza dell’eletto, sul fatto che il voto
segreto non era praticato nella Camera dei fasci e della corporazioni, e
nemmeno nella Duma di Stalin e di Breznev. Dopo di che, a quasi tutti i
capi a un certo punto il voto segreto comincia a stare sul gozzo. Alla
centesima volta che un progetto affonda per l’implacabile mira dei
franchi tiratori, il capo perde la testa. «Il voto segreto è indegno di
un paese civile», disse Bettino Craxi nel 1988. Riuscì a ridurne
l’applicazione, ma non oltre, e per sua parzialissima fortuna visto che
nel sanguinolento 1993, quello del Terrore di Mani pulite, fu salvato
dal voto segreto contro l’autorizzazione a procedere chiesta dai
magistrati di Milano. Anche lì, naturalmente, Craxi fu tardivamente
preso alla lettera, perché l’indegnità del voto segreto venne ribadita e
rafforzata da tutti i deputati che avrebbero visto volentieri
l’avversario spiattellato dalla giustizia, dal momento che, di
spiattellarlo, loro non erano stati capaci.
Funziona sempre così. A
Silvio Berlusconi è andata pressoché allo stesso modo. Se ne saltò
fuori, un giorno, con la teoria dell’inutilità dei parlamentari, bastava
votassero i capigruppo. Niente voto segreto, niente voto palese, i
seggi usati come i carrarmatini del Risiko da spostare a gusto del
generale. Curioso: il Parlamento si chiama così perché la gente deve
parlare, e con lo scopo di far cambiare idea a chi ascolta. Purtroppo,
dipende dall’idea, e da chi l’ha partorita. Perché quando l’idea è
diventata la decadenza del medesimo Berlusconi, condannato in Cassazione
per frode fiscale, i ragazzi di Avaaz, un gruppo mai sentito prima e
mai più sentito dopo, si sono denudati fuori dal Senato: «La protesta
nuda vuole opporsi alla possibilità che si utilizzi il voto segreto».
Dunque: «Noi non abbiamo niente da nascondere, e voi?». Ed era la
dimostrazione di piazza che nascondere qualcosa talvolta è meglio. Un
uomo meno sventato dei tanti nemici del voto segreto, Palmiro Togliatti,
infatti si imbatté in una grana durante i lavori dell’Assemblea
costituente. Si discuteva del matrimonio, e se si dovesse applicargli
l’aggettivo «indissolubile». Alcuni costituenti chiesero il voto
segreto, e il presidente comunista Umberto Terracini la definì una
procedura ormai in disuso. Altri, specie i democristiani Giovanni
Gronchi e Aldo Moro, dissero che era uno strumento per pavidi. Ma
Togliatti, che sapeva guardare al di là del suo naso, chiuse la
questione: «Noi siamo 104 comunisti, siamo una minoranza. Guai se
ammettessimo che si violi il regolamento della Camera. È il presidio
della nostra libertà. Per questo, se è stata chiesta la votazione
segreta, la votazione segreta si deve fare». Capì che più avanti gli
sarebbe servita e, aggiungiamo noi, l’aggettivo «indissolubile» cascò
rendendo possibile, molti anni dopo, il referendum sul divorzio. Così si
possono ricordare i franchi tiratori che hanno abbattuto Giulio
Andreotti, Arnaldo Forlani, Franco Marini e Romano Prodi alla presidenza
della Repubblica. E si deve ricordare che dove ci sono i franchi
tiratori c’è libertà, dove ce ne sono troppi c’è arbitrio, ma dove non
ce ne sono affatto c’è tirannia.