venerdì 9 giugno 2017

La Stampa 9.6.17
E Renzi confessa a Berlusconi
“Non controllo nemmeno i miei”
Il leader del Pd sferza i suoi colonnelli e pensa a un decreto I dubbi del Quirinale: per tornare al voto serve una legge
Ugo Magri E Fabio Martini


Alla Camera il patatrac si è consumato da pochi minuti. Matteo Renzi, dal suo ufficio al Nazareno, dà ordine di rompere platealmente con i Cinque Stelle e di attribuire loro tutte le colpe, ma il leader del Pd non è per nulla soddisfatto di come siano andate le cose. Non è sicurissimo che il “racconto” della rottura sia così limpido e favorevole al Pd, come avrebbe voluto. E infatti nel “dopo-partita” Renzi è irritatissimo. Con i suoi nemici di sempre, ma anche con i suoi amici del Pd, con i colonnelli che stanno in prima linea, mentre lui, il “Generale”, è costretto a guidare le truppe dalla sua scrivania.
La confessione
E in una giornata così in chiaroscuro, l’interlocutore col quale Renzi si ritrova a raccontare i suoi piani e le sue frustrazioni è Silvio Berlusconi, l’unico alleato che in queste ore non lo ha lasciato. I due si parlano per telefono nel primo pomeriggio e al leader di Forza Italia che gli domanda il perché di quella rottura così brusca, Renzi spiega: «Se andavamo sotto sulle preferenze e sul voto disgiunto era peggio. Rischiavamo una brutta figura...». E a Berlusconi che insiste a chiedergli come mai il Pd si sia trovato all’angolo, Renzi dà una risposta sorprendente: «Guarda, che nel mio partito in tanti erano contrari a quel tipo di riforma...». E secondo la narrazione del Cav, indica almeno tre nomi: Matteo Orfini, Ettore Rosato, Lorenzo Guerini. Renzi non li considera suoi nemici, ma pensa che nell’iter della riforma i gruppi parlamentari non siano stati compatti.
Un decreto per votare
A Berlusconi che lo consiglia di procedere con cautela, di provare ad insistere sullo stesso schema di riforma, Renzi replica che, a suo avviso, la via maestra sia quella del voto anticipato, da raggiungere con tutti i mezzi possibili: «Bisogna spiegare al Paese che questo Parlamento non è in grado di fare più nulla» e dunque è ora di scioglierlo. E la legge elettorale? Farla con decreto-legge è la suggestione accarezzata per tutto il giorno da Renzi, che ne ha parlato anche col presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Non ancora, pare, con Mattarella.
Il macigno del Colle
Tornare alle urne senza uno straccio di legge degna del nome per Mattarella non è possibile. Se lo fosse, avrebbe già dato via libera al voto in febbraio, o in aprile, oppure a giugno, insomma tutte le numerose volte che Renzi ha accarezzato l’idea. Le ragioni del Presidente sono stranote: abbiamo due diversi sistemi, uno per la Camera e l’altro per il Senato, che fanno a pugni tra loro. E ci sono aspetti che, se non verranno chiariti in anticipo dal Parlamento, scateneranno ricorsi davanti al Tar (ad esempio, sulla preferenze di genere). La scorciatoia del decreto viene seccamente esclusa. Anzitutto perché la decretazione è ammessa solo su aspetti tecnici marginalissimi, non per uniformare un intero sistema di voto. Inoltre mancherebbero le ragioni di necessità e urgenza richieste dalla Costituzione. Secondo i giuristi del Colle, un decreto sarebbe ammissibile solo come ultima spiaggia, alla scadenza naturale della legislatura, quando ogni diversa strada fosse davvero preclusa. Oggi invece ci sarebbe ancora la possibilità di scrivere, se non proprio una legge, perlomeno una leggina che metta in sicurezza il sistema e risparmi all’Italia lo spettacolo di una classe politica incapace di garantire perfino questo minimo sindacale.
Pontieri in campo
Tra parentesi, per votare il 24 settembre le Camere andrebbero sciolte non prima di metà luglio (tra i 45 e i 70 giorni in anticipo). Dunque un altro mese di tempo sulla carta ci sarebbe. Ecco spiegato come mai, nonostante gli «strappi» del segretario Pd , il Quirinale rimanga alla finestra e attenda di vedere che cosa accadrà martedì, in Commissione Affari costituzionali alla Camera. Dove i “pontieri” sono al lavoro per smussare i punti di contrasto e arrotondare gli spigoli. Si parla di abbassare le soglie dal 5 al 4 per cento, in modo da rabbonire i centristi di Alfano. O di lanciare un’estrema offerta ai Cinquestelle, con il voto disgiunto che a loro piace tanto. Particolarmente attivi i berlusconiani, con il capogruppo Brunetta che già lavora a una nuova bozza sulla lunghezza d’onda del Colle.