venerdì 9 giugno 2017

La Stampa 9.6.17
Il laburista saldo al timone
Adesso potrà spingere la sua agenda massimalista
Alberto Simoni


Jeremy Corbyn aveva salutato davanti al seggio di Pakeman, «è un gran giorno per la democrazia». E per lui lo è stato, perché si può vincere anche senza prevalere nel braccio di ferro. Theresa May paga l’azzardo, Jeremy Corbyn va meglio di Ed Miliband e tiene le mani forti sul partito. Qualcuno aveva parlato di illusione, i comizi gremiti sulle spiagge e nei parchi, la corsa a registrarsi dei giovani o quella che pareva effimera della rimonta nei sondaggi. Non è stata illusione ma realtà.
Il campione della sinistra massimalista del nuovo secolo che viene però dal secolo scorso ha frenato la corsa di Theresa. Pensionati, la classe media, moltissimi operai, quel vecchio blocco laburista che arpionava le miniere, faceva picchetti, scioperava e votava Labour per fede e convenienza, non c’è più. Restano i giovani e l’entusiasmo dei londinesi e degli elettori delle grandi città. Abbastanza per spingere il signore di Islington Nord a quote così alte che il Labour non ricordava da almeno un decennio.
Corbyn si ferma a 266, 34 seggi più di Miliband del 2015. I maligni - o i più smaliziati - dicono che in fondo l’obiettivo di Jez era quello di arrivare a quota 232 seggi, pareggiare il giovane Ed e tenersi stretto il posto di capo del Labour per continuare a spingere la sua agenda massimalista. Missione compiuta alla grande se era quello l’obiettivo intimo del socialista che vuole dialogare con tutti, amici e nemici. Il partito fino all’ultimo ieri si è mosso all’unisono, tutti impegnati a fare porta a porta. Come Chuka Umunna, eterna stella nascente centrista, o l’ideologo della Terza Via blairiana Peter Mandelson, o l’ex ministro Denis MacShane. Qualcuno convinto in fondo che sarebbe stato un tracollo.
David Muir che fu capo della strategia di Gordon Brown era convinto che Jeremy Corbyn sarebbe andato persino meglio di Miliband, altrimenti la sua leadership sarebbe stata da mettere da parte. Invece oggi Corbyn e la sua ricetta di riforme sociali si sveglieranno con il sorriso. Resta lui, con il marxista, sua definizione, John McDonnell l’architetto della politiche dei laburisti. Restano i sindacati con il loro peso a condizionare.
In molti negli ultimi mesi hanno provato a far saltare il banco, Tony Blair aveva evocato la scissione, Peter Mandelson il suo grande stratega, parlava di un movimento neocentrista perché «con Corbyn e la sua agenda non si può vincere nè governare bene». Nei mesi scorsi era spuntato un manifesto con cui 29 personalità e deputati laburisti avevano apertamente sfidato il credo di Corbyn ribadendo la centralità del mercato e i rapporti con l’Europa.
Altri esponenti aveva ridicolizzato, anche ieri dalle colonne dell’Evening Standard, la sua visione monolitica e granitica dell’economia e le titubanze sulla sicurezza. Agli inglesi (più del previsto) va bene anche questa ricetta, se almeno 3 giovani su 4 sono d’accordo con Jez sulla sua politica estera.
Dennis MacShane, ex ministro nei primi Anni Duemila per l’Europa, d’altronde spiega che se non sarà Corbyn il leader, ad oggi quale alternativa? «Non abbiamo un Blair, un Renzi, un Macron o un Trudeau». Il vecchio socialista è quanto di più nuovo evidentemente che la sinistra inglese può mettere in campo.