Corriere 9.6.17
Theresa non è Maggie. E il partito-sistema trema
di Aldo Cazzullo
Theresa
May ha perso la sua scommessa. Aveva chiesto un’ampia maggioranza e un
mandato pieno per trattare una Brexit dura, a spese dei lavoratori
europei del suo Paese; non l’ha avuta. L’esito del referendum sulla
Brexit non può cambiare; ma la politica britannica si è messa in moto.
Ci
sono Paesi di antica democrazia, che conoscono l’alternanza, ma hanno
comunque un partito fondativo: il perno attorno a cui gira il sistema,
almeno fino a quando il sistema non entra in crisi. In Israele sono i
laburisti; che però hanno perso centralità dai tempi dell’assassinio di
Rabin e dal successivo fallimento di Barak. In Francia sono i
neogollisti; che però dopo le presidenziali si preparano a perdere pure
le legislative, da cui potrebbe venire per Macron un ampio mandato a
governare. Il partito-sistema del Regno Unito, i conservatori, ieri ha
tenuto, pur indebolendosi. Ma il suo leader ha commesso lo stesso
drammatico errore di Chirac, quando nel 1997 dissolse l’Assemblea
Nazionale e perse le elezioni.
La May ha mantenuto la maggioranza;
solo quella relativa, indicano però gli exit-poll. Il suo predecessore
David Cameron si era giocato tutto con lo sciagurato azzardo del
referendum sull’Europa; lei ha sciolto il Parlamento con tre anni di
anticipo, rischiando in modo scriteriato di consegnarlo a una versione
del partito laburista radicalizzata e incompatibile con i tempi. La
rimonta di Corbyn si è interrotta, ma questo probabilmente non basterà a
salvare la poltrona della May. Quando si conosceranno i reali rapporti
di forza, si capirà se si dovranno costruire difficili alleanze, o se si
tornerà presto alle urne.
Di sicuro, la May non è la Thatcher; e
lo si è visto. Tiepida avversaria della Brexit, si è trasformata al
governo nella sua più accanita sostenitrice. Anche il giro di vite
contro il terrorismo è suonato come una grida manzoniana — severa ma
impotente — più che come una svolta, se invocata dalla donna che è stata
per sei anni ministro degli Interni. In campagna elettorale è stata un
mezzo disastro: freddina, querula, apodittica nei suoi slogan: «Brexit
is Brexit», «enough is enough». Molti inglesi ne avevano davvero
abbastanza di lei e di sette anni di governo conservatore; e forse
avrebbero anche votato per l’alternativa laburista, se fosse stata
credibile. Ma non lo era, almeno per i moderati e i centristi.
Jeremy
Corbyn si è battuto meglio del previsto. Ha recuperato rispetto ai
sondaggi iniziali. Forse non merita di essere etichettato come uno dei
tanti populisti nemici della modernità, della scienza, del libero
mercato. Però il suo sogno del ritorno al Labour delle origini,
cancellando il decennio blairiano, è apparso impossibile, anche perché
troppo costoso per i contribuenti. Le sue istanze di riforma sociale
hanno convinto i giovani, gli esclusi, ampie quote dell’elettorato
metropolitano. La sua sostanziale ambiguità sulla Brexit gli ha
consentito di pescare voti sia tra gli europeisti, sia tra gli
euroscettici. Ma alla fine la risalita non è stata sufficiente.
Come
spesso accade, le elezioni anticipate non hanno sciolto i nodi. Il
terrorismo: gli attacchi mettono in discussione il modello
multiculturale, difeso dal sindaco musulmano di Londra, Sadiq Khan, che è
apparso a volte il vero capo dell’opposizione, in polemica pure con
Trump (che tifava May). L’economia, che si è ripresa prima rispetto al
continente, ma a prezzo di disuguaglianze crescenti. L’indipendentismo
scozzese. E ovviamente la Brexit. Ormai l’Europa si è rassegnata a
perdere Londra: un negoziato bizantino che seminasse incertezze non
conviene a nessuno. Meglio separarsi in modo da minimizzare i danni sia
per i lavoratori e gli studenti emigrati, sia per il libero commercio e i
mercati finanziari. Il voto inglese e francese di questi giorni, unito a
quello tedesco di settembre, può imprimere un cambio di passo alla
costruzione europea: senza il Regno Unito, da anni preoccupato di
frenare se non di boicottare, Parigi e Berlino non hanno più scuse, e
possono procedere. Intanto a Roma si calcola ogni giorno al rialzo il
prezzo che l’instabilità comporta per i tassi e per la gracile ripresa.