Corriere 9.6.17
Glii errori e la voglia di forzare
di Massimo Franco
Sarebbe
da irresponsabili pensare di reagire allo smacco parlamentare di ieri
con una forzatura che porti al voto anticipato. Se prima il Quirinale
poteva apparire quasi rassegnato a concedere le elezioni in autunno
davanti a una riforma del sistema condivisa, ora le sue perplessità sono
destinate a riaffiorare, moltiplicate. È in crisi il patto tra i
quattro maggiori partiti in Parlamento, che dovevano consegnare una
nuova legge chiedendo lo scioglimento delle Camere come una conseguenza
quasi automatica. L’accordo si è rotto. Alcune forze sono decise
comunque a procedere, come Forza Italia e i centristi. Altre, M5S e Lega
in testa, chiedono di votare subito. E nel Pd che definisce «morta» la
riforma serpeggia la tentazione di chiedere a Sergio Mattarella le
elezioni: sebbene per ora venga repressa.
Almeno fino alle
Comunali di domenica, Matteo Renzi ha deciso di non sbilanciarsi. Dopo
la riunione della segreteria di ieri, i dem hanno rinviato qualunque
decisione alla prossima settimana. La spaccatura, tuttavia, potrebbe
presto mettere a nudo il tentativo di usare il sistema elettorale come
scorciatoia e pretesto per le urne; e dunque la volontà di insistere per
un decreto del governo che porti al voto in autunno usando le sentenze
della Consulta come bussola.
Prima l’idea era di votare perché la
riforma era fatta; ora, perché risulta impossibile. Eppure, si tratta di
uno scenario più azzardato di qualche giorno fa.
Si aprirebbe il
capitolo assai delicato dei rapporti tra il partito di maggioranza e il
«suo» capo dello Stato. Già nelle settimane passate, Mattarella aveva
dovuto ascoltare una trattativa tra le forze politiche che fissava a
priori la data del voto: quasi le competenze del presidente della
Repubblica potessero essere ignorate o addirittura umiliate. La risposta
è stata di aspettare che la riforma prendesse corpo, prima di esprimere
la sua opinione e far valere le sue prerogative. Dopo quanto è
accaduto, i margini di manovra del capo dello Stato aumentano. Ed è nota
la sua determinazione a vedere approvato un sistema elettorale in grado
di scongiurare l’ingovernabilità.
Mattarella possibilmente
vorrebbe una soluzione in tempi brevi, e ampiamente condivisa: per
questo ha seguito con attenzione e speranza l’intesa Pd-M5S-FI-Lega. Ma
non vuole lasciare in sospeso la legge di Stabilità: il suo assillo è
mettere in sicurezza i conti pubblici. Per questo la preferenza era e
rimane per una legislatura fino alla scadenza naturale del 2018.
Da
ieri, in teoria, questa prospettiva è meno improbabile. «Senza una
legge omogenea per Camera e Senato e adeguata — constata Silvio
Berlusconi — le elezioni sono molto difficili». È un invito a Renzi,
soprattutto, a mantenere la freddezza, derubricando il «sì»
all’emendamento di FI sul Trentino Alto Adige a «incidente».
Opera
di persuasione non facile. Dopo avere imposto il ritorno del testo in
commissione, il Pd appare incline a un disimpegno risentito. Si ha
l’impressione che pensi a un ritiro dalle trattative sulla riforma dopo
il voto alla Camera; e che sia tentato di abbattere l’esecutivo di Paolo
Gentiloni, con la tesi che questo Parlamento e il governo non sono più
in grado di andare avanti: non solo in materia elettorale ma per gli
altri provvedimenti in sospeso, nonostante più di un ministro e i
vertici istituzionali sottolineino i risultati incoraggianti raggiunti
da Palazzo Chigi.
Il paradosso è che, più la cerchia renziana
mostra di volere far saltare tutto, più i suoi alleati-coltelli si
mostreranno intenzionati a sostenere Gentiloni: con l’aiuto magari di
qualche settore dell’opposizione. D’altronde, la vicenda dei «franchi
tiratori» non può essere solo condannata: va analizzata per capire i
motivi che l’hanno favorita e evitare che si ripeta. Si può anche
puntare il dito sull’«irresponsabilità» dei parlamentari di Beppe Grillo
e sulla loro «inaffidabilità»: accusa che i Cinque Stelle ribaltano
accusando il Partito democratico di avere almeno cento «franchi
tiratori». Il fatto è che alla Camera la maggioranza può contare
comunque su numeri schiaccianti.
A essere sospettato di agguati è
sempre stato semmai il Senato, con le sue percentuali traballanti. Se
già a Montecitorio l’accordo a quattro è stato affondato, significa che
esistono questioni politiche serie: in primo luogo la sensazione di un
asse di governo in incubazione tra il leader del Pd, Matteo Renzi, e
quello di FI, Berlusconi, proiettato nel futuro, che Grillo non poteva
assecondare senza perdere un pezzo di M5S. In parallelo si conferma un
problema di tenuta di gruppi parlamentari che non hanno più molto da
perdere. E dunque rifiutano la disciplina di partito: perfino tra i
democratici che apparivano granitici dopo la rielezione di Renzi a
segretario, mentre non lo sono.
Forse, prendere atto di essere non
il primattore ma solo uno dei protagonisti di questa fase, è la
condizione per evitare altri schiaffi al Pd, e guai politici e
finanziari al Paese. Non andrebbe mai dimenticata la sconfitta al
referendum istituzionale del 4 dicembre scorso. È un precedente che pesa
e sarà fatto pesare: soprattutto nei passaggi decisivi.