La Stampa 2.6.17
Quando Pompei parlava greco
Una mostra nel 
sito archeologico fa rivivere la città pre-romana al centro di un 
Mediterraneo di scambi e conflitti tra le culture
di Giorgio Ieranò
Non
 conosciamo il nome del guerriero etrusco che l’indossava, senz’altro 
con fierezza, due millenni e mezzo fa. Sappiamo però che l’elmo, dalle 
acque del Tirreno, finì poi nel santuario di Zeus a Olimpia. Possiamo 
ancora leggere, incisa nel bronzo, l’iscrizione orgogliosa che ne 
denuncia l’origine: «Ierone, figlio di Dinomene, e i siracusani 
dedicarono a Zeus questo bottino etrusco da Cuma». Un trofeo di guerra, 
dunque, offerto al signore degli dei. Il tiranno di Siracusa Ierone 
celebrava così la sua vittoria sugli Etruschi nella battaglia navale di 
Cuma. Era il 474 avanti Cristo.
Sei anni prima, gli Ateniesi 
avevano affondato i navigli persiani schierando le loro triremi intorno 
all’isola di Salamina. Ora i Siracusani, dopo avere risalito il Tirreno 
con la loro flotta, sconfiggevano gli Etruschi in uno scontro 
altrettanto epico. Oggi è meno famosa, ma la battaglia di Cuma fu 
celebrata all’epoca quanto quella di Salamina. Persino Pindaro cantò, 
con parole, come sempre, alate, e non senza enfasi cortigiana, il 
trionfo di Ierone: «Si è spento il grido di guerra degli Etruschi. Hanno
 visto mutarsi in pianto la loro arroganza, sulle navi davanti a Cuma. 
Il principe di Siracusa li ha domati, ha gettato in mare la loro 
fiorente gioventù, liberando la Grecia dal giogo servile».
Un mondo perduto
L’elmo
 consacrato da Ierone a Olimpia è il frammento di un mondo perduto. Una 
testimonianza che ci arriva in diretta da un Mediterraneo in cui le navi
 greche, etrusche e cartaginesi si sono scontrate furiosamente per 
decenni. Una partita tra superpotenze, nella quale i popoli indigeni 
dell’Italia entravano come comprimari. Roma, allora, era ancora poco più
 di un borgo di pastori: il suo ultimo re, Tarquinio il Superbo, era 
morto in esilio proprio a Cuma, nel 495 avanti Cristo, alla corte del 
tiranno greco Aristodemo. E Pompei era un villaggio italico, condannato a
 subire, a fasi alterne, l’influenza greca o etrusca.
Perché 
Pompei fu anche greca, molto prima di essere romana. E proprio «Pompei e
 i Greci» s’intitola la mostra aperta fino al 27 novembre nella Palestra
 Grande del sito archeologico, con un allestimento firmato 
dall’architetto Bernard Tschumi (lo stesso al quale si deve, tra 
l’altro, il progetto del nuovo Museo dell’Acropoli di Atene). Tra altri 
600 reperti, spicca appunto l’elmo consacrato a Zeus dal tiranno di 
Siracusa. L’ha prestato il British Museum di Londra, che lo custodisce 
dal 1821, quando un ufficiale inglese, dopo averlo trovato tra le rovine
 di Olimpia, lo regalò al re Giorgio IV. Ora, a Pompei, l’elmo si è 
ricongiunto a un altro, parte dello stesso trofeo di guerra, che invece 
era rimasto in Grecia e arriva direttamente dal museo di Olimpia.
La
 mostra, come scrivono i due curatori, Massimo Osanna e Carlo Rescigno, 
nel catalogo Electa, vuole «provare a restituire al grande pubblico il 
rumore degli ingranaggi che facevano funzionare il Mediterraneo tramite 
reti locali dai confini permeabili, continuamente in contatto, dai nodi 
mobili e stratificati, in cui le informazioni viaggiano». Era, in 
effetti, un mondo più complicato e più interconnesso di quanto ci 
immaginiamo. La mostra racconta una storia mediterranea ricca e 
frastagliata, che non può essere ridotta, secondo schemi da manuale 
scolastico, a un passaggio di testimone da Atene a Roma. La stessa 
biografia di Tarquinio il Superbo, un Etrusco che era nipote di un Greco
 di Corinto ma regnava sui Romani, dimostra quanto intricato fosse il 
mosaico dei popoli e delle culture.
Scambi e conflitti, incontri e
 scontri erano continui e capillari. Si muovevano le persone ma anche le
 merci, come testimoniano le anfore con i bolli di fabbrica di Rodi o i 
vasi con iscrizioni etrusche trovati a Pompei. Viaggiavano i miti e le 
storie. Come quella di Ulisse e le Sirene: mentre Ierone combatteva sul 
mare, un pittore ateniese la dipingeva su un vaso, ritrovato 
nell’etrusca Vulci e anch’esso prestato dal British per la mostra. La 
Grecia, vista da Pompei, erano le colonie, come Ischia e Cuma, fondate 
fin dall’VIII secolo in Campania. Erano le flotte siracusane che 
incrociavano nel golfo di Napoli.
Un ideale di raffinatezza
Ma
 la grecità era anche un ideale, uno stile di vita raffinato a cui le 
élite locali cercavano di adeguarsi. Anche dopo la conquista sannita, 
intorno al 420 avanti Cristo, a Pompei, come nel resto d’Italia, gli 
oggetti greci continuano a essere desiderati e diffusi. Verrà poi il 
filellenismo dei romani, la smania di copiare e collezionare opere 
greche.
Nel 79 dopo Cristo su Pompei cala il sipario 
dell’eruzione. Fino a un attimo prima della catastrofe, Giulio Polibio, 
un notabile locale discendente da una famiglia di ex schiavi, deve avere
 guardato con orgoglio lo splendido pezzo di antiquariato che custodiva 
gelosamente in casa: un lussuoso vaso greco del 460 avanti Cristo con 
l’ansa modellata in forma di ninfa. L’oggetto, antico già allora, era un
 simbolo dello status sociale del proprietario. Ora anche questo vaso è 
esposto in mostra. La lava del Vesuvio l’ha conservato per noi: 
monumento perenne alle effimere ambizioni di tutti i Giulio Polibio 
della storia.
 
