SULLA STAMPA DI OGGI 3 GIUGNO 2017
http://spogli.blogspot.com/2017/06/il-manifesto-3.html
il manifesto 3.6.17
«L’Unità fondata da Gramsci uccisa dall’incuria di questi ultimi due anni»
Editoria. L'editore sospende le pubblicazioni. Martedì incontro decisivo alla Fnsi. I lavoratori dell'Unità impaginano il giornale solo per l'on line e scrivono l'ultimo editoriale
L’assemblea delle redattrici e dei redattori de l’Unità
Questo è l’editoriale dell’Unità di sabato 3 giugno, firmato dall’assemblea delle redattrici e dei redattori, dopo la comunicazione da parte dell’azienda della decisione di sospendere le pubblicazioni.
Ci sono storie che non dovrebbero finire, per la storia che hanno raccontato e testimoniato, per quella che hanno cercato di capire, per chi ci ha creduto, per chi ci ha messo passione, professionalità e attaccamento.
Questa storia, la nostra, hanno deciso di chiuderla nel modo peggiore, calpestando diritti, calpestando lo stesso nome che porta questa testata, ciò che ha rappresentato e ciò che avrebbe potuto rappresentare.
L’editore ha comunicato, con una lettera spedita alle ore 22.49 del 1° giugno, che incontrerà la Federazione nazionale della stampa, Stampa Romana e il Cdr per illustrare la situazione economico-finanziaria del giornale e la «conseguente decisione di interrompere volontariamente la pubblicazione». «Riteniamo – aggiunge l’amministratore delegato Guido Stefanelli – che questa sia la scelta più giusta da fare in attesa di portare a compimento le procedure di ristrutturazione aziendale».
Una decisione grave, arrivata dopo giorni di assenza del giornale dalle edicole perché lo stampatore ha fermato le rotative per la mancata riscossione dei crediti maturati e per i quali da mesi chiedeva il relativo pagamento.
Se si è arrivati fino a questo punto non è stato per un improvviso fatto esterno, ma per una decisione più volte annunciata dallo stesso stampatore. Nel silenzio più totale da parte dell’amministratore delegato abbiamo tuttavia continuato a svolgere il nostro lavoro confezionando un giornale che nessuno ha potuto acquistare in edicola, destinato soltanto agli abbonati che per alcuni giorni neanche riuscivano a scaricarlo nella sua versione online. Nel silenzio più assoluto da parte di un’azienda che non ha neanche ritenuto di dover comunicare che non avrebbe pagato gli stipendi ai lavoratori e alle lavoratrici.
E che oggi dà notizia di una ristrutturazione annunciata da mesi ma mai avviata davvero. In questi mesi l’azienda, la stessa che in due anni non ha presentato un seppur minimo piano industriale, ha solo più volte minacciato licenziamenti collettivi, come se a pagare il conto della mancata gestione aziendale dovessero essere i lavoratori e le lavoratrici.
Tutto questo è avvenuto in un giornale che si chiama l’Unità, che ha fatto della difesa dei lavoratori il suo tratto distintivo, e di cui ancora oggi il Partito democratico è socio al 20% attraverso la fondazione Eyu.
Non siamo cioè di fronte a una società composta di soci privati tout court: siamo di fronte ad un’impresa editoriale che ha al suo interno un partito politico che ha fatto della difesa dei diritti il suo cavallo di battaglia. Un Pd che ha assistito a quanto sta avvenendo da mesi, compreso il ricatto al sindacato di non pagare gli stipendi fino a quando lo stesso cdr non avesse convinto ex dipendenti a rinunciare ai loro diritti sanciti dal giudice del lavoro, senza prendere una forte posizione pubblica.
Ci sono storie ed imprese editoriali che possono iniziare con la migliore delle intenzioni e poi, malgrado ogni sforzo, scontrarsi con una competizione su un mercato difficile e in forte crisi, e dunque prendere atto di non avercela fatta ma garantendo sempre, fino all’ultimo momento, il rispetto dei diritti dei propri dipendenti, delle relazioni sindacali, della professionalità di tutti.
Questa storia, la nostra, invece, è stata scritta in un altro modo.
Nessun progetto, nessun piano industriale, relazioni sindacali calpestate, dignità professionali umiliate, tanto da arrivare nell’incredibile situazione di dover confezionare un quotidiano che non va in edicola. Anche in questa giornata siamo qui, al lavoro, per un giornale diverso da tutti quelli finora scritti: il più doloroso, il più triste.
Perché l’Unità finisce oggi, con questo numero, visto che la redazione sarà in sciopero fino al giorno dell’incontro in Fnsi con l’editore. Fino a quando non ci diranno cosa intendono fare del futuro di questo giornale, con quali risorse, con quale progetto industriale ed editoriale e in quali tempi.
Non ci fidiamo più, troppe promesse disattese, troppi strappi a qualunque civile e normale dialettica tra azienda, sindacato e lavoratori. Quello che chiediamo con forza a tutti i soggetti in campo è di avere almeno il rispetto che meritano i lavoratori e le lavoratrici di questo giornale. Il rispetto per l’Unità, fondata da Antonio Gramsci e uccisa giorno dopo giorno dall’incuria di questi ultimi due anni.
In questa storia sono in diversi a dover rispondere di quanto accaduto. Gli editori di maggioranza, la Piesse di Massimo Pessina e Guido Stefanelli, Eyu, che fa capo al Partito Democratico, e lo stesso segretario del Pd Matteo Renzi a cui più volte ci siamo rivolti senza mai ottenere una risposta o una parola di solidarietà nei momenti più duri della lotta quando per otto giorni di seguito la redazione è scesa in sciopero ad oltranza.
Un silenzio che ha ferito tutti coloro che in questo giornale hanno lavorato accettando condizioni spesso al limite dell’accettabile. Ci chiediamo se anche di fronte a questa decisione dell’editore proseguirà la scelta del silenzio.
Ai nostri lettori diciamo che noi ce l’abbiamo messa tutta. Fino all’ultimo momento. Malgrado tutto, malgrado le scelte e le inerzie dei colpevoli. Anche noi odiamo gli indifferenti, e in questa storia siamo gli unici a non esserlo stati.
Le storie possono essere scritte in tanti modi. Per noi hanno scelto il peggiore.
Il Fatto 3.6.17
Lettere ai tedeschi di Primo Levi: “Ditemi chi siete”
Nel saggio anche lo scambio dello scrittore con il dottor Meyer: “È la prima volta che parlo con chi stava dall’altra parte”
Lettere ai tedeschi di Primo Levi: “Ditemi chi siete”
di Massimo Novelli
Che cosa rappresentarono i tedeschi per Primo Levi? Posta così, alla luce della sua detenzione nei campi di sterminio e della lettura dei suoi libri, a cominciare da Se questo è un uomo, la risposta non potrebbe essere che una sola: furono gli assassini nazisti di Auschwitz, il lager dove fu imprigionato, ma anche quelli che, sebbene non fossero stati coinvolti direttamente nell’orrore, avevano saputo e avevano taciuto. Per lo scrittore e chimico torinese, tuttavia, la questione non si poteva ridurre a quell’unica verità, sia pure indubitabile. Scrivendo a Heinz Riedt, il traduttore per l’edizione tedesca di Se questo è un uomo, una lettera-prefazione, gli diceva nel 1961: “So anzi, da quando ho imparato a conoscere Thomas Mann, da quando ho imparato un po’ di tedesco (e l’ho imparato in un Lager!), che in Germania c’è qualcosa che vale, che la Germania, oggi dormiente, è gravida, è un vivaio, è insieme un pericolo e una speranza per l’Europa”.
Il drammatico e complesso rapporto con la Germania, la necessità esistenziale, umana e storica di “capire i tedeschi”, sono la materia viva del saggio Primo Levi e i tedeschi di Martina Mengoni, studiosa della Scuola Normale di Pisa. Da poco pubblicato dall’Einaudi (pagg. 219, euro 20) nell’ambito della collana che raccoglie gli atti delle “Lezioni Primo Levi”, promosse dal Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino. Il volume ha in appendice quattro lettere a corrispondenti tedeschi dell’autore de I sommersi e i salvati, due in francese e due in italiano, provenienti da archivi privati. L’assunto dell’indagine della Mengoni, che scandaglia i rapporti di Levi con la Germania prima, durante e dopo Auschwitz, si riassume all’inizio del suo studio: “‘Chi sono i tedeschi per Levi?’ può sembrare una domanda provocatoria. Lo è, ma solo in parte”. Perché intende “chiamare in causa chi crede all’esistenza di un Levi atemporale, monolitico, sempre uguale a se stesso, e che dunque non potrebbe che dare un’unica e invariabile risposta: i tedeschi sono i carnefici”. Invece “i tedeschi per Levi non smettono mai di essere i carnefici, ma possono, devono diventare anche altro: è questo il senso concreto dell’espressione ‘capre i tedeschi’”.
La ricerca, l’ossessione, dell’ex deportato scampato alla camera a gas e alla marcia della morte, che vuole comprendere “i tedeschi”, hanno un momento particolarmente significativo alla fine degli anni Sessanta, quando entra in contatto epistolare con il dottor Ferdinand Meyer, che era stato uno dei tecnici germanici che lavoravano nella fabbrica di Buma, ad Auschwitz III-Monowitz. Per Levi è il primo incontro con un tedesco che stava “dall’altra parte”; un tedesco coinvolto, anche se non un criminale, un aguzzino, un SS, bensì un ingegnere civile, del quale non ha un cattivo ricordo perché allora fu gentile con lui, schiavo del lavoro di Hitler. Il 12 marzo del 1967, nella lettera riportata dalla Mengoni, gli scrive: “Per contro, non Le nascondo che Le scrivo con esitazione: proprio perché è la prima volta che mi accade (come al termine di una partita a scacchi) di essere in comunicazione con qualcuno che si trovava dall’altra parte della barricata, anche se contro voglia, come credo fosse il Suo caso, e come mi pare di intendere dalla Sua lettera”. Si scambiano frammenti di memoria di quel periodo terribile; Meyer ha letto Se questo è un uomo, lo scrittore gli domanda se la descrizione di Buma “sia valida, oppure distorta per evidenti ragioni”. Vuole sapere, vuole capire. Gli chiede: “Più in generale: ritiene che la direzione dell’I.G.”, ossia il colosso chimico I.H.-Farben, che utilizzava il lavoro coatto del lager, “abbia assunto volentieri mano d’opera proveniente dai Lager? Che abbia ritenuto di rendere così meno incerto l’avvenire dei prigionieri? Che il loro lavoro fosse utile alla I.G., o inutile, o addirittura nocivo? Che cosa era noto degli ‘impianti’ di Birkenau?”. A un certo punto, Levi scrive a Meyer: “Ricordo con chiarezza un solo incontro con Lei, nel Laboratorio del Bau 938 (?): Lei mi chiese perché io avessi la barba così lunga, io Le dissi che a noi veniva rasata in Lager solo una volta a settimana. Lei mi promise uno ‘Schein’ per farmi radere più sovente, e mi fece anche avere uno paio di scarpe di cuoio e una camicia pulita. Mi chiese anche perché io avessi l’aria così impaurita: non ricordo la mia risposta, ma ricordo di aver provato davanti a Lei l’impressione precisa di trovarmi davanti a un uomo che si rendeva conto della nostra situazione, e che provava pietà e forse anche vergogna”. La lettera a Meyer, che sarà in seguito protagonista di un racconto, Vanadio, de Il sistema periodico, si conclude così: “Sono molto contento di poter comunicare con Lei: per parte mia, considero questo incontro, per ora soltanto epistolare, un inaspettato e straordinario dono del destino, e sono sicuro che non ne potrà scaturire che del bene”.
Sappiamo, da quanto ricostruisce Martina Mengoni, che “il tono di Meyer”, nelle sue lettere, “è sobrio e compartecipe. Non indugia sul tema ‘colpe del popolo tedesco’. (…) Auspica, piuttosto, che si possa pervenire a un ‘superamento del passato’”. Nella lettera Hety Schmitt-Maas, una bibliotecaria e giornalista il cui padre aveva espresso idee antinaziste, del 5 novembre 1966, che pubblichiamo, Levi aveva affermato: “Si péntono gli innocenti, non i colpevoli: è assurdo, eppure è molto umano. Appunto per questo, penso che i tedeschi coscienti, piuttosto che abbandonarsi a uno sterile senso di colpa, dovrebbero operare in tutti i modi che sono loro consentiti (…) affinché quanto è stato commesso non venga dimenticato, ed i veri colpevoli siano puniti”.
Repubblica 3.6.17
Radiografia del movimento che si candida alla guida del Paese: estremisti di centro, i cui elettori non presentano specificità neanche tra le categorie professionali
M5S, il partito trasversale scelto da giovani e operai
Il Movimento è popolare al Sud e tra i lavoratori autonomi Piacciono i leader internazionali “forti”: Putin e Trump su tutti
Ilvo Diamanti
Il M5s si avvia alla prossima, imminente stagione elettorale con molte incertezze e molte attese. Non potrebbe essere diversamente. Nelle intenzioni di voto degli italiani, contende il primato al PD di Renzi, da anni. Almeno dalle elezioni politiche del 2013, quando ottenne il 25% e divenne, in modo sorprendente, il primo partito in Italia. (E, dunque, escludendo il voto degli italiani all’estero). Secondo le ultime rilevazioni, è sempre lì. Fra il 28 e il 30%. Come il PD, appunto. Anche se propone un’identità specifica. Particolare. D’altronde, ha una storia molto breve e recente. Non ha radici che lo tengano ancorato a un contesto locale, sociale, culturale. Territoriale. E ciò ha sempre giocato a suo favore e, al tempo stesso, a suo sfavore. Perché, non ha vincoli da rispettare, con settori specifici di elettorato. E, al tempo stesso, ne ha molti. Perfino troppi. Così è “spinto”, costretto a muoversi di continuo in direzioni diverse e talora contrastanti. Anche perché, per citare il titolo di un saggio di Fabio Bordignon, non è un “partito del Capo”. Un partito “personale”. Anzi, lo è meno di altri. Basta osservare il grado di fiducia espresso dagli elettori 5S verso i leader. Non si coglie grande distanza fra Di Maio, Grillo e Di Battista. Ma se si considera la figura scelta per guidare il “partito” Di Maio supera tutti, con il 45% delle preferenze, (in)seguito da Di Battista (32%), che appare, però, in sensibile crescita. Mentre Beppe Grillo viene “indicato” da una componente molto limitata: meno del 10%. Non perché conti meno degli altri. Al contrario: non è un semplice “segretario” espresso dal voto digitale. È, invece il Garante. Che ha l’ultima parola. Di certo il M5s è un (non) partito “di massa”. Perché, nonostante l’ampiezza della base elettorale, non ha “specificità specifiche”. I suoi elettori, infatti, sono presenti e distribuiti dovunque, senza squilibri eccessivi. Sul piano territoriale, anzitutto: da Nord al Centro fino al Sud, dove hanno fatto osservare la crescita maggiore. Non si tratta, tuttavia, di un fatto nuovo. Semmai, è una costante, fin dalle elezioni del 2013, quando si imposero come primo o secondo partito in quasi tutte le province italiane. Ma il loro elettorato non presenta specificità specifiche neppure sul piano delle categorie professionali. Le attraversa tutte: lavoratori autonomi e operai. E poi: studenti, disoccupati e impiegati. Fanno eccezione alcune componenti: i pensionati, le casalinghe e i liberi professionisti. Riflesso di alcuni tratti, comunque, specifici, del profilo sociale, peraltro coerente con quello della popolazione. I suoi elettori sono, anzitutto, “giovani”. Anzi, “i più” giovani. Ad eccezione, non per caso, del “partito del non voto”. Dove confluiscono quelli che non hanno idee precise. I “decisamente indecisi”. Oppure gli incerti - se votare o no. È il partito degli “scettici competenti”. E militanti. Non per caso presentano indici molto superiori alla media per quel che riguarda la partecipazione (anti)politica e, ancor più, l’attivismo im-mediato, mediante le nuove forme di comunicazione. In primo luogo, il digitale. Sul piano degli atteggiamenti, gli elettori del M5s mi sembrano “estremisti del senso comune”. Che accentuano – ed estremizzano - alcuni orientamenti dell’opinione pubblica “media”. Maggiormente euroscettici, sfiduciati verso le istituzioni politiche e di governo, ancor più verso i partiti. Sul piano internazionale, apprezzano gli “uomini forti”, come Putin e Trump. Leader “populisti”, come Marine Le Pen. Mentre verso i leader moderati ed europeisti, come Macron e la Merkel, si dimostrano più freddi, in rapporto agli altri elettorati.
La maggioranza di loro pensa che la democrazia possa funzionare meglio “senza i partiti”. Non per caso il M5s sostiene e pratica il valore della democrazia diretta, anzi “im-mediata”, senza mediazioni. La rete al posto dei partiti e delle istituzioni rappresentative. Anche se, alla fine, sono anch’essi un partito. Presente alle elezioni con proprie liste e propri candidati. Attivo in Parlamento, con i propri eletti e i propri gruppi.
Ma gli elettori del M5s riflettono ed enfatizzano anche le paure dell’opinione pubblica “media”. L’immigrazione e gli immigrati, in particolare. Per questo prediligono la logica dei respingimenti rispetto a quella dell’accoglienza. Ma sostengono anche – con grande convinzione - la legittimità dell’autodifesa “armata” dei privati contro le minacce allo spazio domestico. “Estremisti del senso comune”. Ed “estremisti di centro”, come si è detto nel passato per altri soggetti politici, peraltro molto diversi. Dai Repubblicani neoliberisti, in Francia, fino a CL e alla Lega, in Italia). Nel caso del M5s questa definizione riflette, anzitutto, la posizione politica degli elettori. Al tempo stesso: al Centro e – ancor più – Fuori. Dallo spazio politico fra Destra e Sinistra. E, più di ogni altro soggetto politico e partito, distribuiti in modo (abbastanza) equilibrato: a Destra come a Sinistra.
Così si spiegano le scelte, talora contrastanti, espresse dalla leadership. Riflettono il tentativo di seguire e talora in-seguire sentimenti e risentimenti di differente e perfino opposta matrice politica. E sociale. La domanda di partecipazione e la paura degli altri. La mobilitazione a favore dei “beni comuni” e l’attenzione verso il “senso comune”. D’altronde, oggi la base del M5s è largamente convinta della capacità dei propri “eletti” di governare. Le città ma anche il Paese. Per questo esprime fiducia verso i Sindaci eletti, a Torino e soprattutto a Roma. Naturalmente, il resto della popolazione la pensa in modo molto diverso. Molto meno ottimista. Ma questo è un altro discorso. Per governare il Paese, infine, gli elettori del M5s si dicono disposti ad alleanze diverse e alternative. Insieme al PD (circa il 40%), ma, in misura perfino maggiore (47%), insieme alla Destra. D’altronde, si sentono egualmente lontani da tutti. L’accordo è solo un problema di necessità. E di opportunità. Perché loro si sentono e si collocano al Centro. Meglio: all’Estremo Centro del Mondo. Politico.
Repubblica 3.6.17
Laura Boldrini.
La presidente della Camera: manca la volontà politica, sono contraria a questa corsa al voto. Lo stop della legislatura non è un destino scritto
“Ora serve uno sforzo per non deludere le richieste del Paese”
intervista di Alessandra Longo
ROMA. Se c’è un’aria da “rompete le righe” nelle sedi dei partiti e nelle dichiarazioni di alcuni membri del governo, qualcosa arriva ormai anche in Parlamento. L’elenco di “opere incompiute” Laura Boldrini, presidente della Camera, lo tiene sul tavolo. Leggi che si sarebbero potute approvare e invece molto probabilmente non vedranno la luce. «Non perché non ci sia tempo o perché in Parlamento non si lavori - dice la presidente - ma perché manca la volontà politica». Tutti a lavorare giorno e notte per la legge elettorale ma per l’introduzione del reato di tortura, (tanto per citare uno dei provvedimenti orfano di voto finale “adottato” da
Repubblica)
non c’è fretta. Arrivato, dopo 30 anni di attesa, alla quarta lettura, rimarrà molto probabilmente sospeso nel limbo. Al caso se ne discuterà alla prossima legislatura. No, Boldrini non crede laicamente ai miracoli, però non getta la spugna e fa un invito alle forze politiche: «Facciano uno sforzo finale per non deludere il Paese».
Presidente, ieri, su Repubblica, Michele Ainis ha citato Goethe: «Una vita inutile è una morte anticipata». La XVII legislatura rischia la morte anticipata e si trascina dietro decine di disegni di legge approvati da uno solo dei rami del Parlamento. Uno spreco.
«Ore di lavoro bruciate, emendamenti, audizioni. Io dico: ma perché? Il lavoro che abbiamo fatto è un patrimonio di questa legislatura, i provvedimenti che mancano all’appello sarebbero una buona eredità, sono attesi dall’opinione pubblica e sarebbe malaugurato deludere le aspettative. Voi citate il codice antimafia, il biotestamento, lo ius soli, il processo penale, la tortura, la legalizzazione dell’uso personale e terapeutico della cannabis. Ma io ne aggiungo altri che mi stanno a cuore e che so essere nel cuore di molti cittadini. Li ho appuntati su questo foglio. Glieli leggo».
Prego.
«Il cognome della madre ai figli, approvato dalla Camera nel settembre del 2014; il sostegno normativo agli orfani di femminicidio, già passato da noi nel marzo scorso; c’è il contrasto all’omofobia che porta il timbro di Montecitorio del 2013 ed è un provvedimento importante in un mondo di cyberbullismo e di violenza anche offline; ci sono anche i piccoli Comuni da salvaguardare, un tema in agenda da legislature, se vogliamo contrastare lo spopolamento che è un problema serio del Paese, soprattutto nel Centro Italia dopo
il terremoto».
Lei presidente cosa può fare?
«Il mio compito è redigere un programma trimestrale e il calendario del mese, ovviamente tenendo conto delle richieste prioritarie dei gruppi, dell’equilibrio tra maggioranza e opposizione, della presenza dei decreti legge che, in nome dell’urgenza, hanno la priorità. La presidente ha un ruolo sostanzialmente di garanzia e coordinamento, non vota né in aula né negli organi decisionali. Il che non significa che non segua con attenzione le sorti di certi provvedimenti ».
Come si sente di fronte al lungo elenco di opere incompiute?
«Un po’ frustrata. Ma non dimentico che - in una fase politica travagliata - abbiamo anche approvato buone leggi: unioni civili, caporalato, reddito di inclusione, “dopo di noi”. Abbiamo lavorato sodo».
Sarà sempre più difficile approvare lo ius soli, e le altre leggi rimaste a metà strada. Le sembra fatale andare a elezioni anticipate?
«No. Non è un destino già scritto. Prendo atto che i principali gruppi politici (Pd, M5S, Forza Italia, Lega) sembrano aver trovato l’accordo su un testo, come del resto ha chiesto da tempo il presidente Mattarella. Ma questo non vuol dire che la legislatura debba terminare ora».
Dotarsi di una legge elettorale non significa per forza dover buttare all’aria l’agenda parlamentare anzitempo.
«E infatti non c’è automatismo tra nuova legge e corsa al voto. Personalmente non sono convinta che sia di questo che ha bisogno il Paese. Abbiamo davanti l’aggiornamento del Def a settembre, la legge di bilancio... ma come presidente della Camera non posso non constatare che alcuni gruppi hanno espresso la volontà di andare al voto anticipato ».
Addio ius soli.
«Mi auguro proprio di no. Se non si vuole deludere l’opinione pubblica un provvedimento come questo, che è una necessità, può essere ancora portato a casa. Per lo ius soli sarebbe davvero grave che il Parlamento non prendesse atto di come è cambiato il Paese».
Il primo luglio ci sarà anche lei al grande raduno del nuovo centrosinistra di Pisapia?
«Sì certo. È un progetto che nasce per includere e allargare, per non rinunciare ad una visione di società aperta e innovativa. Senza paura, credendo nei diritti come motore per il futuro. Sui diritti l’area progressista ritrova identità e unità».
Repubblica 3.6.17
Il paradosso.
Molti prescelti dai cittadini saranno scavalcati dai nominati. Il caso dell’Emilia-Romagna
I candidati kamikaze che vincono il collegio ma perdono il seggio
Silvia Bignami
BOLOGNA. Vinci nel tuo collegio, ma non vieni eletto. È il problema del sistema elettorale tedesco, che riguarda tutte le regioni, ma che salta agli occhi soprattutto dove c’è un partito più forte di altri. È il caso ad esempio dell’Emilia Romagna, dove il sistema tedesco potrebbe mostrare il suo lato peggiore ai danni del Pd. Nella regione rossa per eccellenza, infatti, i dem potrebbero vincere in tutti i collegi. Ma gli unici seggi dove saranno certamente eletti sono quelli di Bologna, Modena e Reggio Emilia. Nei seggi di Parma, Piacenza e Rimini i candidati Pd vinceranno, ma resteranno a casa. E cederanno il passo ai candidati dei listini bloccati di altri partiti. Pazienza poi se gli elettori si erano espressi diversamente.
Il paradosso si spiega così. Il sistema tedesco attribuisce all’Emilia Romagna un totale di 46 seggi alla Camera e 22 al Senato. Prendendo come esempio la Camera, la metà dei seggi, 23, è assegnata col sistema uninominale. Secondo le previsioni, confermate anche dalla mappa dei seggi e delle simulazioni elaborate da
You Trend, i candidati Pd vinceranno in tutti (o quasi) i 23 collegi. In questo modo, tuttavia, il Pd si prenderebbe la metà — il 50% — dei parlamentari emiliano romagnoli. Troppo. Primo, perché un seggio va automaticamente assegnato al capolista bloccato. E secondo, perché la percentuale dei parlamentari eletti deve essere proporzionale al risultato del Pd in regione, che verosimilmente non sarà superiore al 40%. Ecco quindi che i candidati Pd che hanno vinto con le percentuali meno brillanti devono da un lato fare spazio al capolista, dall’altro “sacrificarsi” per riportare la percentuale Pd al suo valore proporzionale. Così, su 23 collegi vinti, il Pd eleggerà solo 17/18 deputati, alla Camera. Su 11 collegi vinti al Senato, soltanto 7/8 candidati dem arriveranno a Palazzo Madama. Gli altri, salvo rispescaggio in altro listino bloccato, resteranno a casa.
Il sistema tedesco non a caso piace moltissimo a Bologna, dove si prevede una vittoria larga dei dem, e con cinque seggi alla Camera e tre al Senato si portano a Roma otto parlamentari sicuri, contro i quattro previsti con l’Italicum. Assai meno contenti invece a Parma, Piacenza e Rimini, le province dove il rosso Pd è più sbiadito. Qui i candidati Pd sanno in partenza che si candidano a perdere. Certi di non essere eletti, anche se vincono. «E in tutto questo — ragiona il cesenate Enzo Lattuca — chi è davvero beffato è l’elettore, che vota un candidato con l’uninominale, lo fa vincere nel suo collegio, e poi non lo vede eletto». Un paradosso che, secondo Lattuca, avrebbe persino «profili di incostituzionalità ». Il segretario regionale dell’Emilia Romagna Paolo Calvano, renziano, ammette: «Purtroppo la legge dà più spazio al proporzionale che ai collegi. È una delle richieste del Movimento 5 Stelle, ma speriamo possano esserci dei correttivi ». A Parma, dove sono i collegi più deboli della regione, la deputata dem Patrizia Maestri è una di quelle che rischia la “sconfitta vittoriosa”: «È diabolico, assurdo. Alla fine anche questa volta l’elettore non decide nulla».
Impossibile che risultino eletti i vincenti dem nei collegi meno “rossi” di Rimini, Parma e Piacenza La deputata parmigiana Maestri: «Diabolico e assurdo, anche stavolta l’elettore non decide”
Corriere 3.6.17
I seggi a rischio incostituzionalità
di Daria Gorodisky
ROMA Fatta la legge trovato l’inganno, si usa dire. Ma in tema di norme elettorali ormai sembra andare meglio un “fatta la proposta, trovato il vulnus costituzionale”. E’ così anche per il testo depositato mercoledì in commissione Affari costituzionali della Camera: condiviso da Pd, Forza Italia, Movimento 5 Stelle e Lega; definito da alcuni un tedesco in salsa italiana e da altri - come il senatore pd Vannino Chiti - «un mini Porcellum in salsa tedesca»; ma a parere di diversi giuristi ben debole almeno sul meccanismo di assegnazione dei seggi. Perché l’elettore potrebbe scegliere il suo rappresentante con la quota uninominale; ma la precedenza ad entrare in Parlamento spetterebbe al capolista del listino del partito collegato a quel candidato.
«Questo è ingannevole nei confronti dell’elettore - spiega il costituzionalista Massimo Luciani, docente alla Sapienza di Roma –. Il legislatore ha optato per distribuire metà dei seggi con l’uninominale e metà con lo scrutinio di lista; ma non è stato coerente, perché i candidati nell’uninominale raramente saranno eletti, mentre al loro posto lo saranno i capilista. E lo saranno proprio dove il loro partito si sarà rivelato più debole».
C’è una contraddizione interna al sistema che comporta «un serio dubbio di costituzionalità, perché la coerenza l’ha chiesta la Corte». Senza contare, aggiunge Luciani, «che, con le liste bloccate e la possibilità di presentarsi in luoghi diversi, il candidato del collegio uninominale potrebbe cedere anche al secondo dei nomi indicati in lista da ciascun partito». Insomma, molto bene l’ispirazione al modello tedesco, «ma il legislatore tenga presente che in materia elettorale ci sono già state due sentenze della Consulta: un terzo schiaffo sarebbe catastrofico».
Persino Stefano Ceccanti, costituzionalista pd vicino a Matteo Renzi, crede che sulla questione della ripartizione dei seggi si debba «intervenire, lavorare ancora per aggiustamenti successivi». Ceccanti tende a sminuire un po’ il problema, «è un punto debole, sì; ma la non elezione dei candidati della quota uninominale si produrrebbe soltanto in casi limitati, nelle regioni politicamente monocolori».
Ciò detto, però, anche se la cosa si verificasse in poche situazioni, il vulnus esisterebbe comunque: «Quindi adesso è senz’altro giusto rimediare, guardare con un atteggiamento laico... Magari si può ragionare di nuovo sul numero dei collegi». Ma come si è finiti in questo pasticcio giuridico? «L’intesa politica - conclude Ceccanti - prevedeva il vincolo che ci fosse un numero di seggi perfettamente proporzionale al voto». Comunque, anche se la cosa riguardasse poche situazioni, il vulnus esisterebbe, e quindi «è giusto rimediare».
Anche Francesco Clementi, docente all’Università di Perugia e alla Luiss, concorda nel rilevare un problema di costituzionalità sulla questione. E lo riassume così: «Se un elettore si esprime su un nome, la sua scelta non può essere subordinata a decisioni esterne. Il vincitore di ciascun collegio uninominale deve essere eletto per primo».
Il Fatto 3.6.17
Cacciari: “Beppe vuole i nominati, come Renzi e B.”
di Tommaso Rodano
Ma davvero vi stupite del fatto che Grillo accetti una legge elettorale del genere?”. La conversazione con Massimo Cacciari inizia da una domanda, retorica, dell’intervistato. Che poi si risponde da solo: “Non c’è nessuna sorpresa. Il Movimento 5 Stelle e il loro fondatore hanno una serie di convenienze in comune con Renzi e Berlusconi. Quindi è naturale che decidano il sistema insieme”.
Quali sono queste convenienze?
Prima di tutto la scelta dei candidati. Tutti e tre preferiscono i nominati. In questo Grillo è identico a Berlusconi e Renzi.
I Cinque Stelle hanno le parlamentarie online.
Se è per questo anche il Pd può fare le primarie. E comunque le primarie online si sono dimostrate un’arlecchinata. La legge elettorale che chiamano “tedesca” è quanto di più lontano da un sistema che permetta all’elettore di stabilire realmente chi va in Parlamento. Almeno tre quarti di deputati e senatori saranno nominati.
Di tedesco c’è poco.
Il modello tedesco non c’entra proprio niente. Non c’è nemmeno il voto disgiunto, che è uno degli elementi caratteristici di quel sistema. Anche su questo mi pare che siano d’accordo tutti e tre. La terza esigenza condivisa con Berlusconi e Renzi è lo sbarramento alto.
Così i Cinque Stelle non perdono l’innocenza?
Lei dice? A me sembra che si capisca lontano un miglio che ci sono obiettive convergenze sul piano elettorale. Ripeto: hanno la stessa esigenza di un sistema che gli garantisca di selezionare e controllare gli eletti.
Ma tra le battaglie storiche grilline c’era quella contro il Parlamento “di nominati”.
D’accordo, ma era una bugia. Un segreto di Pulcinella. Grillo ha sempre voluto l’ultima parola su ogni candidatura. In questo è ancora peggio di Renzi. Basti vedere Genova, dove pur di farlo si è suicidato politicamente.
Alcuni 5 Stelle, come Fico e Taverna, hanno criticato questa legge.
E non sono stati ascoltati. Sono un partito monocratico, non solo per il carattere del capo. Se non hai radicamento né storico, né culturale, né territoriale, sei inevitabilmente un partito carismatico, in cui c’è una leadership che decide tutto.
E questo non dovrebbe deludere un elettore del Movimento?
Per quale motivo un elettore dei Cinque Stelle dovrebbe cambiare idea e votare qualcun altro? Negli altri partiti ci sono comportamenti diversi? Non c’è concorrenza. Per questo Grillo può condividere senza alcun rischio una riforma elettorale solo perché gli conviene. Poi bisogna vedere se gli conviene davvero.
Non crede?
L’unico che si avvantaggia sicuramente è Berlusconi. Aveva una sola esigenza: non essere costretto a rincorrere la Lega. L’ha ottenuto: con questo sistema si appoggerà al Pd. Non potendo vincere, punta su Renzi e sulla grande coalizione. Questo è chiaro come il sole. E pure Renzi si accontenta di prendere la maggioranza relativa e fare le grandi intese.
Grillo invece?
Credo che la sua strategia sia questa: spera di prendere la maggioranza relativa, così Mattarella è costretto a dargli l’incarico. Poi verificherà l’impossibilità di formare un governo alle sue condizioni. A quel punto in Parlamento si formerà comunque una maggioranza tra Pd e centrodestra. Grillo griderà al golpe, si tornerà a votare nel giro di qualche mese e i 5 Stelle punteranno al 51%.
Il Fatto 3.6.17
Besostri: “Se resta così, è un testo anticostituzionale”
di Luciano Cerasa
Senza correttivi che evitino il voto congiunto, il testo della legge elettorale proposto da Renzi e Berlusconi rischia di essere incostituzionale. È la convinzione dell’avvocato Felice Besostri, meglio conosciuto come “l’affossatore di leggi elettorali”, dopo aver fatto impallinare dalla Consulta prima il Porcellum e poi l’Italicum con le sue obiezioni di incostituzionalità.
Sul proporzionale tedesco hanno già deciso gli iscritti: la sorprende la difesa di Beppe Grillo?
Sul sistema tedesco c’è una larga convergenza, ma quello lì non è molto tedesco, perché gli assomigli occorre perlomeno il voto disgiunto. Se si considera la proposta insieme agli emendamenti che sono stati preparati dal Movimento 5 Stelle, alla cui stesura ho partecipato a Roma insieme ad altri tecnici, le cose sono sistemate: i correttivi prevedono il voto disgiunto che era il punto più controverso per la legittimità costituzionale.
Senza correttivi anche questo testo potrebbe essere incostituzionale?
Con il voto congiunto non c’è più il voto personale e diretto che prevedono gli articoli 48, 56 e 58 della Costituzione ma una scelta ne trascina un’altra; quanto meno ci deve essere la possibilità di non votare per la lista o per il candidato dell’uninominale che non si gradisce, scegliendo una lista non collegata.
Non c’è il rischio di ricadere anche nella trappola di un Parlamento di nominati dai partiti?
Per evitarlo si sono concordati due emendamenti, uno che prevede l’introduzione di preferenze nella lista proporzionale e l’altro di poter cancellare i nomi dalla lista bloccata in modo da invertire l’ordine di presentazione: se c’è un capolista che ottiene il 20% di cancellature passa al secondo posto.
E se questi emendamenti da voi preparati dovessero essere respinti?
Ci sarà da fare una valutazione quando il testo passerà al Senato se, con la reiezione di questi emendamenti, ci sono ancora le condizioni per approvare la legge, una delle cose chieste dai Cinque Stelle è che non si deve rischiare l’incostituzionalità della legge elettorale.
Uno dei correttivi chiesti da Grillo è la norma che permette a un solo partito di avere la maggioranza dei seggi raggiungendo circa il 40% dei voti: la convince?
Non mi risulta che sia stato presentato un emendamento tecnico in questo senso. Comunque questa roba non c’entra con il modello tedesco, dove non è previsto il premio di maggioranza se non nella misura limitatissima per chi avesse la maggioranza assoluta dei voti validi e non dei seggi, ma qui da noi non è possibile aggiungere seggi, a meno che non si sottraggano agli altri che hanno avuto meno consenso, anche dentro la stessa lista.
I partiti però hanno fretta, si vuole chiudere il confronto politico alla Camera in modo che a Palazzo Madama si debba votare un testo senza correzioni…
Poi certo c’è la questione del modo con cui si è scelto di procedere: che la Camera ‘blocchi’ anche il modo di eleggere il Senato non è incostituzionale ma sicuramente uno sgarbo istituzionale che sarebbe bene evitare. Qui Fiano è stato più bravo di Renzi: all’ex premier l’operazione non è riuscita grazie ai “no” del 4 dicembre alla revisione costituzionale.
il manifesto 3.6.17
Caciagli: «È nel doppio voto la forza dell’elettore tedesco»
Intervista/ Legge elettorale. Lo studioso: «L’Italia rinuncia a uno strumento che guida i partiti più grandi nella ricerca delle alleanze. Non è il proporzionale a garantire stabilità al governo di Berlino. E attenzione: inseguendo il voto utile il Pd in realtà rischia un clamoroso autogol «L’Italia rinuncia a uno strumento che guida i partiti più grandi nella ricerca delle alleanze»
di Andrea Fabozzi
Professor Caciagli, è la legge elettorale il fattore di stabilità in Germania?
Assolutamente no, la stabilità è data dal comportamento del ceto politico. In Germania i partiti prima di fare una crisi ci pensano un milione di volte. Fattori storici e di cultura politica sono assai più potenti anche dell’istituto della sfiducia costruttiva, che stabilisce che prima di buttare giù un governo bisogna averne pronto un altro. All’atto pratico la sfiducia costruttiva è stata tentata appena un paio di volte in settant’anni, ed è riuscita una volta sola. E anche allora, quando nel 1982 i liberali mollarono i socialdemocratici ed elessero Kohl, facendo quello che da noi chiameremmo il “ribaltone”, si gridò allo scandalo, al tradimento degli elettori.
Mario Caciagli è professore emerito dell’Università di Firenze, recente autore di uno studio su Rappresentanza e Consenso in Germania (FrancoAngeli) dal 1949 al 2013.
Professore, la traduzione italiana del modello tedesco prevede un solo voto invece che due, non c’è dunque la possibilità per l’elettore di votare in maniera disgiunta tra l’uninominale e il proporzionale. È una differenza importante?
Certo, perché il doppio voto consente all’elettore tedesco di votare il partito che sente più vicino, anche quando non ha speranza di vittoria nella sfida uninominale. Il voto disgiunto finisce con il favorire i grandi partiti, che nella storia sono stati i democristiani della Cdu/Csu e i socialdemocratici della Spd. All’uninominale l’elettore tedesco si è sempre dimostrato propenso a scegliere il partito meno lontano dalle sue convinzioni, scegliendo tra chi aveva possibilità concrete di successo.
Quindi in Germania il voto disgiunto, che in Italia si vuole adesso vietare, è stato molto utilizzato?
Si calcola da circa il 20 per cento degli elettori. Con un importante effetto politico, attenzione: il voto disgiunto incide anche sulle prospettive di coalizione.
In che senso?
Quando il potenziale elettore liberale nel collegio uninominale finiva per votare il candidato socialdemocratico, stava suggerendo ai socialdemocratici di cercare questo tipo di alleanza per il governo. E viceversa quando questo elettore liberale preferiva appoggiare i democristiani nella sfida a due. Questo tipo di tendenza era nota, dichiarata e dibattuta, oggetto di analisi del voto. Alla fine funzionava come suggerimento per il partito vincitore nella ricerca degli alleati. Rinunciando al voto disgiunto, in Italia si sta rinunciando anche a questo.
E lo si fa, secondo lei, per poter fare appello al voto utile, nell’unico segno che dall’uninominale si estende al proporzionale?
Immagino di sì, ma a mio avviso potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol. Secondo me un elettore di sinistra, se ci sarà una lista a sinistra del Pd, voterà quella lista anche nell’uninominale, dal momento che non gli si offrono altre possibilità. Questo malgrado il proprio candidato potrà non avere chance di vittoria nell’uninominale. C’è una quota di elettori di sinistra che proprio non se la sente più di votare solo Il Pd, quindi alla fine – è la mia previsione – Renzi perderà voti invece di guadagnarli.
In Germania ci sono polemiche per i listini bloccati, si parla anche lì di deputati “nominati”?
Non mi risulta. Anche perché il listino di solito lo decide il partito a livello regionale. Qualche volta c’è stata polemica per la scelta dei candidati nei collegi uninominali, che i partiti dal centro volevano paracadutare. Ma spesso i partiti sul territorio sono riusciti a opporsi.
Quanto viene alterata la proporzionalità della legge dalla soglia del 5 per cento?
Storicamente pochissimo. Nel 2013 invece con l’aumento del margine della Cdu e per via del fatto che sono aumentati i partiti rimasti sotto la soglia, anche i liberali, per un totale di circa il 16 per cento di voti non rappresentato, la disproporzionalità è cresciuta. Ma è bene tenere presente che tutte le mosse del legislatore e soprattutto della Corte costituzionale sono andate nella direzione dell’aumento della proporzionalità.
Nel dibattito tedesco c’è chi propone di abbassare la soglia di sbarramento?
No, per una precisa ragione storica. La soglia ha consentito di tener fuori dal parlamento, negli anni Sessanta e Settanta, i neonazisti del Npd. Una discriminazione se vuole, ma il sentimento antinazista vinceva su tutto e nessuno se la sentiva di attaccare la soglia. Poi le cose sono cambiate, oltre ai due grandi partiti e ai liberali sono entrati in parlamento prima i Verdi poi la Linke. E adesso secondo i sondaggi dovrebbe entrare la destra di Alternativa per la Germania. Un partito xenofobo, ultimamente in calo e diviso, ma che il 24 settembre dovrebbe superare il 5 per cento. Magari per il rotto della cuffia, grazie ai voti dell’Est. E magari qualcuno proporrà di alzarla, la soglia.
Il Fatto 3.6.17
D’Attorre e Fornaro
Mdp vs Cinque Stelle: “Stanno prendendo in giro la loro gente”
Mdp attacca Grillo sulla legge elettorale. Secondo il deputato Alfredo D’Attorre, il comico prende in giro i suoi elettori: “Il M5S ha chiesto il via libera dei suoi iscritti sul sistema tedesco, che però si fonda sul voto disgiunto fra candidature uninominali e liste proporzionali. Ora Grillo non può fare il gioco delle tre carte, imitando la peggiore politica politicante. Dica perciò ai suoi ‘portavoce’ di appoggiare in Commissione Affari costituzionali gli emendamenti che modificano il testo Fiano su questo aspetto decisivo, rafforzando il potere di scelta degli elettori. Altrimenti sarà inevitabile pensare che la sua brama di nominare i prossimi parlamentari è pari a quella di Renzi e Berlusconi”. Parole simili dal senatore bersaniano Federico Fornaro: “Anche Grillo si unisce al coro di chi prende in giro gli italiani descrivendo la nuova legge elettorale come simile al sistema elettorale tedesco, un’autentica truffa semantica. Senza il ‘doppio voto’ non si può parlare di sistema tedesco. Quel che si vuole approvare con l’emendamento Fiano, infatti, è un ibrido spurio tra un proporzionale con sbarramento al 5% e l’Italicum fondato sui capilista bloccati”
Il Fatto 3.6.17
“Siete il baluardo dell’Europa, ma senza sinistra affonderete”
Yanis Varoufakis. L’ex ministro delle Finanze greco giudica il nostro Paese “in stagnazione. Solo con lo stop all’austerity la Ue ha un futuro”
di Roberta Zunini
L’Italia è la linea del fronte dell’Europa. E l’Europa sta perdendo la battaglia mentre il vostro paese continua ad affondare nelle sabbie mobili della stagnazione”. Le elezioni italiane, indipendentemente da quando si terranno, saranno un appuntamento chiave per il futuro dell’Europa anche secondo l’ex ministro delle Finanze greco, l’economista Yanis Varoufakis, reduce dalla riunione a Berlino degli 80 mila membri di DiEM25, il movimento paneuropeo, da lui cofondato col politologo italiano Lorenzo Marsili.
Di cosa avrebbe bisogno l’Italia per tornare a essere un Paese che conta in ambito europeo?
Di una forza politica progressista, un nuovo tipo di partito politico i cui orizzonti si estendano oltre i confini italiani. La scomparsa di uno spazio politico a sinistra, considerata la storia dell’Italia, è tragica. Questo è particolarmente vero se si conferma un modello elettorale tedesco. Secondo noi, l’Italia ha bisogno di un nuovo partito che abbia come colonna portante la mobilitazione della cittadinanza attiva e una chiara prospettiva europea. DiEM25 è presente e operativo anche in Italia per aiutare a ritrovare questo spazio nella convinzione che i destini d’Italia e d’Europa siano intrecciati come mai prima.
Cosa proponete?
Ciò di cui la società italiana ha chiaramente espresso il desiderio, ovvero un New Deal, un nuovo concordato politico ed economico. Lo abbiamo presentato a Roma il 25 marzo, con proposte che spaziano dagli investimenti alla tassazione. E abbiamo già dimostrato di essere in grado di mobilitare i nostri sostenitori nel vostro paese durante la campagna per il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. I nostri membri e simpatizzanti hanno preso attivamente parte alla campagna e al voto contribuendo alla vittoria del No.
DiEM25 è entrato indirettamente nell’agone politico anche della Gran Bretagna dove si voterà la prossima settimana?
Stiamo già facendo la differenza non solo lì. Nel Regno Unito i nostri membri hanno compilato un elenco di candidati, uno per ciascuna circoscrizione: provengono dal partito laburista, dai Verdi, dal Partito nazionale scozzese e gallese, altri dai liberal-democratici e uno dai conservatori. DiEM25 sta già aiutando a creare un’alleanza progressista. In Croazia, il nostro movimento comunale affiliato ha ricevuto l’8% alle amministrative. In Polonia, il nuovo partito Razem – nato dai movimenti sociali – ha adottato la nostra agenda. In Italia DiEM25 farà campagna per sostenere quelle forze politiche che adotteranno la nostra Agenda progressista.
Qual è il problema più grande dell’Italia?
La costruzione difettosa dell’Eurozona. Perciò serve un partito con una visione direttamente europea. L’Italia è un paese in eccedenza, gode di un surplus commerciale e di un avanzo primario, ossia ottiene più introiti rispetto a quanto spende. Ogni paese con un duplice surplus dovrebbe riprendersi fortemente. Ma l’Italia resta a terra a causa di un sistema bancario e un debito pubblico che necessitano di una banca centrale attiva o un programma di investimenti per riprendersi. Invece è in stagnazione. Il fatto che la Bce costringa le banche a vendere i titoli di debito pubblico, mentre richiede allo Stato di sostenere istituti decotte, non fa che peggiorare la situazione.
Perché Portogallo e Spagna sembrano essersi ripresi?
Sembra ma non è così. La Spagna continua a crescere a causa della spinta del debito privato. In Portogallo le ultime elezioni hanno reso possibile un governo di sinistra, che è stato autorizzato a svolgere un mandato sulla base di un accordo semplice: si impegna a preservare le misure di austerità introdotte tra il 2011 e il 2015, a condizione che non ne vengano adottate di nuove. E il paese è cresciuto un po’ perchè gli è stato concesso di non proseguire nell’austerity.
E la sua Grecia?
È in bancarotta sotto tutti i profili: industriale, bancario, commerciale e sociale; l’ulteriore aumento delle tasse e un nuovo taglio delle pensioni non potrà che mantenerla nel baratro.
La Merkel ha detto di non avere più fiducia negli Usa e pertanto “dobbiamo, come europei, prendere il nostro destino nelle nostre mani”.
Magari lo intendesse davvero. Per prendere il destino nelle nostre mani bisogna tenere assieme l’Europa innanzitutto. E l’unico presupposto è porre fine all’austerità affinché terminino gli attacchi ai diritti dei lavoratori e smorzare l’enfasi sulla competitività che rovina l’Europa. di Roberta Zunini
Repubblica 3.6.17
Sopravvissuta miracolosamente fino ad oggi, l’antica tribù di pastori rischia di scomparire Minacciata dalla siccità, ma anche dal turismo e dallo sfruttamento industriale della terre
Etiopia
Il destino dei Dassanech stretti tra i riti di sangue e le ombre della modernità
Pietro Del Re
OMORATE (ETIOPIA). Assieme ai tour operator sono le lamiere d’alluminio l’altra insidia che minaccia la cultura dei Dassanech, antico popolo di pastori che dalla notte dei tempi vive lungo le rive del fiume Omo, in un’arida savana colonizzata da arbusti irti di spine taglienti come bisturi. Da qualche anno, i teli di lamiera sono distribuiti gratuitamente dal governo etiope, e i Dassanech hanno cominciato ricoprirci le loro abitazioni trasformando in soffocanti baracche quelle armoniose capanne che una volta erano interamente costruite di giunchi secchi. Quando ho chiesto al capo di un loro villaggio, Tabye Macolo, se durante la stagione delle piogge l’interno delle loro case è meglio protetto dall’alluminio e se questo crea una barriera più impetrabile all’ingresso notturno di serpenti e scorpioni velenosissimi, lui m’ha risposto di no. «Ma ci è stato detto che questo è il modo per avvicinarci anche noi alla civiltà, anche se adesso nelle nostre capanne fa molto più caldo di prima ».
Non è soltanto la loro architettura spontanea a essere corrotta dalla modernità e dai suoi sotto-prodotti. Da qualche anno, da quando cioè sono state costruite e asfaltate nuove strade dai cinesi, in questa regione del sud dell’Etiopia è anche apparso un turismo che si fa sempre più di massa, e che prende forma in convogli di pensionati belgi o finlandesi, in torpedoni di scolaresche australiane o in singoli escursionisti fai-da-te in cerca di avventure forti. Salvo rare eccezioni, qui si viene soprattutto a fotografare il “selvaggio”, come altrove il leone o l’ippopotamo. Infastiditi, i Dassanech hanno cominciato a esigere piccole banconote ogni volta che finiscono nel mirino dei loro obiettivi. Con effetti a volte perversi, come racconta Francesca Montalbetti, infermiera del “Cuamm Medici con l’Africa”, un’ong padovana che qui fornisce cure alle partorienti e ai loro bebè. «Poco tempo fa stavo spiegando a un gruppo di donne i fattori di rischio durante il parto quand’è improvvisamente apparso un pullman carico di turisti. Le Dassanech si sono tutte alzate e sono corse a farsi fotografare per elemosinare qualche soldo».
Se è vero che con la perdita degli usi e costumi i popoli perdono anche la loro identità, lo stesso genicidio culturale di cui sono vittime i Dassenech riguarda un’altra dozzina di tribù miracolosamente sopravvissute fino ad oggi, proprio perché tutte concentrate in una terra così aspra e fino a poco tempo fa così poco accessibile. Qui, a rischio sono anche le etnie Mursi, Suri, Bodi, Nyangaton, Kwegu, Ari, Hamar, Malle, Kara, Arbore e Tsemay, tutte diverse tra loro, ognuna con un suo linguaggio e una sua cosmologia, pur condividendo una cura particolare per l’aspetto esteriore, con uomini e donne che ostentano acconciature arricchite di piume e perline, scarificazioni sul viso e sull’addome, pitture e tatuaggi su tutto il corpo. C’è chi s’inserisce un piattino di argilla nel labbro inferiore, chi indossa splendide gonne di pelle di capra, chi per mesi, al solo scopo di ingrassare, segue una dieta a base di burro e sangue di bue. Quando sei con loro hai l’impressione di trovarti tra le pagine del National Geographic, o in un libro della fotografa tedesca Leni Riefenstahl.
Per queste comunità che vivono del latte delle loro mandrie, di caccia e di quel poco che riescono a coltivare, l’altro pericolo è di essere assunti per due soldi come raccoglitori di cotone o tagliatori di canne da zucchero da un paio di grosse compagnie che stanno cominciando a sfruttare industrialmente quelle terre. La siccità che funesta il Corno d’Africa non risparmia neanche la Valle dell’Omo, perciò, pur di non morire di fame, molti Dassanech sono disposti a trasformarsi da pastori di un’altra era in moderni braccianti agricoli, al costo di stravolgere la loro antichissima
way of life.
Con la Montalbetti raggiungiamo un presidio sanitario sulla sponda del fiume a un’ora di motoscafo dall’ultimo centro amministrativo della regione, Omorate, e a poche decine di metri da un villaggio dove scarseggiano perfino le lamiere di alluminio. Dice un’anziana con indosso soltanto una pesante collana di turchesi e un pareo legato ai fianchi: «Quest’anno il poco che abbiamo raccolto se lo sono mangiato gli insetti e i nostri bambini hanno fame». Per via delle dighe costruite molte centinaia di chilometri a monte da qui il fiume non ha più la portata di una volta, non tracima più e non deposita sulle rive quel prezioso limo, indispensabile a far crescere l’erba. Quest’anno è quindi affamato anche il bestiame, e i villaggi dipendono dalle distribuzioni governative di sacchi di sorgo, di mais e di farina, che i Dassanech vanno a ritirare percorrendo a piedi anche 40 chilometri.
Ma la modernità può avere anche aspetti virtuosi. Accade grazie alle poche organizzazioni umanitarie, quali il Cuamm, che si spingono fin quaggiù nella speranza di garantire anche a questi popoli il diritto alla salute. Ora, alcuni operatori cercano di modificare le abitudini più violente di queste tribù. È per esempio consuetudine che il piccolo nato da una coppia non ancora sposata sia subito soppresso. Ebbene, l’ong americana Omo Child ha aperto un orfanotrofio per raccogliere questi bebè, impedendo così il loro massacro. La giustificazione a questa interferenza culturale è che la madre stessa non vorrebbe che il suo piccolo, portato in grembo per nove mesi, sia soffocato o annegato nell’Omo.
C’è poi chi cerca di convincere queste tribù a non praticare durante i matrimoni un’altra sanguinaria usanza, quella delle frustate inferte dai famigliari dello sposo alle sorelle e alla madre della sposa: scudisciate con nerbo di bue che lasciano sulla schiena orrende cicatrici, e che dovrebbero simboleggiare il sacrificio sostenuto per l’unione della coppia. L’altra pratica contro cui lottano gli umanitari, quasi del tutto invano, sono le mutilazioni genitali femminili. A chi obietta che questi interventi rischiano di guastare il patrimonio antropologico delle tribù della Valle dell’Omo si potrebbe ribattere che gli umanitari si battano soprattutto per attenuare la violenza contro le donne. E poi, non saranno quei pochi medici a spazzar via la preziosa cultura di questi popoli che sia pure con una produzione manifatturiera limitata all’essenziale hanno trovato il modo più efficiente per sopravvivere in luoghi così inospitali. Com’è già accaduto a tanti altri popoli in altri luoghi del pianeta è verosimile che saranno le nuove strade che portano verso i Dassanech a perderli, rendendoli nuovi poveri o, alla meglio, pupazzi folkloristici a uso e consumo dei turisti globali.
Repubblica 3.6.17
Boeri: “Così nasce il salario minimo garantito”
Luca Pagni
L’INTERVENTO/ IL PRESIDENTE DELL’INPS DIFENDE IL RILANCIO DEI TICKET PER IL PAGAMENTO: È UNA SVOLTA PER L’ITALIA
TRENTO.Non solo li difende. Di più: a suo dire il p rovvedimento che ha rilanciato i voucher riveduti e corretti è senza precedenti per il mercato del lavoro in Italia. «Per come sono stati pensati, possiamo dire che per la prima volta nel nostro paese è stato introdotto il concetto di salario minimo garantito». Non ha dubbi Tito Boeri: pur consapevole delle polemiche che potrebbero far seguito al suo intervento, il presidente dell’Inps non ha esitato a definire il nuovo provvedimento sui voucher una sorta di innovazione rivoluzionaria. Soprattutto nei confronti del lavoro nero e dell’eccessiva flessibilità. «Tutte le innovazioni che si possono fare in Italia come il contratto a tutele crescenti (il Jobs Act,
ndr)
e i contratti che cercano di ridurre la precarietà sono importanti. Nello stesso tempo bisogna essere realistici: il nuovo provvedimento ha introdotto i minimi retributivi orari, per cui stiamo parlando di una cosa molto diversa dai precedenti voucher. Per cui — conclude il suo ragionamento — per la prima volta in Italia si può parlare di salario minimo».
Non è un caso che Boeri abbia scelto di dire la sua sull’argomento aprendo il Festival dell’Economia di Trento di cui è uno degli ideatori nonché il responsabile scientifico. L’edizione in corso (si chiude domani) è dedicata alla “Salute diseguale”: in pratica, come cambiano le nostre condizioni e aspettative di vita in base al reddito e alle condizioni sociali. Sempre che il lavoro ci sia, come ha chiarito Boeri: «C’e’ chi stima che che la metà dell’aumento dei disturbi mentali registrati in Italia da quando è scoppiata la recessione siano legati al tasso di disoccupazione elevato. Molti studi ci dicono che le persone che hanno vissuto all’inizio della loro carriera lavorativa lunghi periodi di disoccupazione anche a distanza di 10-15 anni, possono avere problemi di salute molto seri».
Ecco spiegato perché Boeri ritiene positiva qualsiasi cosa si faccia per limitare questo tipo di insicurezze. Inoltre, i “nuovi” voucher dovrebbero limitare anche il ricorso al lavoro nero. «Il nuovo contratto verrà gestito direttamente dall’Inps. Noi sapremo tutto del datore di lavoro e del lavoratore ancora prima che la prestazione venga svolta e potremo controllare che sia effettivamente compiuta. Molto diverso da quando uno poteva ricevere un solo voucher dopo aver lavorato anche dieci ore». Boeri conta molto sui controlli da parte dell’Inps. La controprova, promette, sarà a breve: «Abbiamo già fatto tutti i passi necessari per creare la piattaforma sul sito dell’Inps». Consentirà la tracciabilità della prestazione e i controlli mentre viene svolta.
La Stampa 3.6.17
Nella rossa Genova la scissione tra i grillini lancia il centrodestra
Dopo Doria il centrosinistra ritrova l’unità, ma potrebbe non bastare
di Emanuele Rossi
Non c’è solo Beppe Grillo a guardare con interesse alla sua Genova. Le elezioni comunali nel capoluogo ligure, dove il centrosinistra regna incontrastato da una quarantina d’anni, sono diventate un test nazionale per tutti gli schieramenti. L’ultimo, prima delle prossime elezioni politiche. Ma a mancare, per ora, sembra essere l’interesse popolare: i candidati girano come trottole ma i comizi di piazza raccolgono poco pubblico e in tutti i sondaggi la percentuale degli indecisi e dei probabili astenuti supera il 50% dei genovesi.
Eppure per la prima volta da quando c’è l’elezione diretta del primo cittadino, il risultato è davvero incerto anche sotto la Lanterna: i sondaggi circolanti sino a ora delineano un ballottaggio tra il candidato del centro-sinistra Gianni Crivello e quello del centro-destra Marco Bucci. Ma i grillini hanno elementi per sperare nella rimonta al fotofinish e chiuderanno la campagna con uno show in piazza proprio di Grillo. «E a quel punto, ai ballottaggi abbiamo dimostrato con Torino e Roma di essere più forti», spera il candidato Luca Pirondini.
I problemi da risolvere
La posta in gioco va oltre l’amministrazione della sesta città d’Italia: c’è da affrontare il suo declino demografico e occupazionale, il suo isolamento (fuori dalle linee ferroviarie ad alta velocità, un aeroporto che arranca, i cantieri a rilento di Terzo valico e Gronda). Elementi che vanno di pari passo con un consolidato boom di turisti e con un porto che continua a macinare traffici. Per tutti, però, c’è qualcosa in più, da verificare. Il Pd deve valutare la tenuta del “vecchio” modello di coalizione larga - insieme alle liste di sinistra e qualche pezzetto di centro moderato - dopo il naufragio politico del sindaco uscente Marco Doria (che non si ripresenta e si tiene ben lontano dalla campagna elettorale).
I due “vecchi” poli
L’area di centrosinistra punta allora sulla concretezza dell’assessore alla protezione civile Gianni Crivello, uomo “da marciapiede” con radici nel Pci di Berlinguer. Il centrodestra si presenta spavaldo, unito e combattivo - dalla Lega agli alfaniani - a sostegno del manager Marco Bucci, scelto dal Carroccio e da Toti dopo averlo visto all’opera a Liguria digitale, il braccio informatico della Regione. Ma in gioco ci sono anche le ambizioni nazionali dell’asse Toti-Salvini, dopo la vittoria a sorpresa nelle regionali di due anni fa. Se strappasse la roccaforte di Genova alla sinistra, il governatore un pensierino alle prossime politiche potrebbe farlo.
Il “nuovo” quarto polo
Il Movimento 5 stelle è atteso al test del voto dopo le lacerazioni con l’ala “movimentista” e il pasticcio delle primarie on line annullate da Grillo in persona per stroncare i dissidenti. Si punta sul “lealista” Pirondini, un giovane nella città più vecchia d’Italia, musicista e rappresentante di commercio. Infine, in gioco c’è anche l’embrione di alleanza tra Sinistra Italiana e gli ex grillini vicini a Federico Pizzarotti: un “quarto polo” che a Genova tenta il colpo di superare proprio il M5S, candidando l’ex capogruppo grillino in Comune, Paolo Putti, sostenuto anche dal sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Gli altri candidati, a giudicare dai sondaggi circolanti sinora, non hanno chance di ballottaggio. Ma il ruolo di Marika Cassimatis, la professoressa di geografia resa celebre dallo scontro in tribunale con Beppe Grillo, potrebbe essere quello di “spina nel fianco” del M5S, drenando consensi che servirebbero come il pane a Pirondini per arrivare a giocarsi il secondo turno. Mentre l’ex assessore al traffico Arcangelo Merella (alla guida di una lista civica) potrebbe creare qualche problema ai suoi ex compagni d’avventura della sinistra.
Il dissidente Cofferati
Comunque vada, l’epoca in cui i Ds (e poi il Pd) potevano vantarsi di candidare uno sconosciuto a palazzo Tursi (sede del Comune) e vincere è solo un ricordo. Claudio Burlando, ex ministro e presidente della Regione, dopo la batosta di due anni fa si è ritirato nell’entroterra genovese. Ma sbaglia chi pensa che si sia messo a fare il cercatore di funghi a tempo pieno: il suo parere, anche dietro le quinte, è sempre pesante. Il Pd, capita la lezione del 2015, ha cercato in ogni modo di evitare le primarie e ricucire con la sinistra. Sembra che ci sia riuscito, con la candidatura di Gianni Crivello, senza tessere di partito, che ha messo d’accordo quasi tutti, dai renziani ai bersaniani nel frattempo fuoriusciti in Mdp. Quasi, perché Sergio Cofferati - ancora lui - e il deputato civatiano Luca Pastorino non hanno dimenticato lo strappo di due anni fa e hanno deciso di appoggiare Paolo Putti e la sua lista civica, anche rinunciando al simbolo. Putti, cooperante con un passato nei comitati anti grandi opere, se ne era andato dal Movimento a gennaio, proprio perché in rotta con il Grillo filo-Trump e con la «politica dei selfie» di Alice Salvatore, la consigliera regionale che è diventata la vera “testa” del M5S in Regione.
La guerra intestina dei cinque stelle è andata avanti per un anno prima di deflagrare con il caso delle “comunarie” annullate con il «fidatevi di me» da Grillo. Pirondini è tornato in campo e nonostante il pasticcio che ha accompagnato la sua candidatura nei confronti con gli altri candidati (uno stillicidio, al ritmo di tre al giorno) fa la sua figura. E crede nella rimonta, sperando che gli elettori grillini (primo partito alle Regionali, a Genova) abbiano digerito lo strappo. E si fidino di Beppe.
il manifesto 3.6.17
Presidio alla base Usa di Camp Darby: «Basta essere un territorio di guerra»
di Manlio Dinucci
Mentre era in corso a Roma la parata militare ai Fori Imperiali, davanti a Camp Darby si è svolto ieri l’importante presidio promosso dalla Campagna territoriale di resistenza alla guerra, lanciata nell’area Pisa-Livorno, una delle zone più militarizzate d’Italia.
Camp Darby – spiega il documento del gruppo promotore (ad adesione individuale) – è la base logistica dell’Esercito Usa che rifornisce le forze terrestri e aeree statunitensi nella regione mediterranea, africana, mediorientale e oltre. Nei suoi 125 bunker vi è l’intero equipaggiamento e munizionamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria meccanizzata. Vi sono stoccate anche enormi quantità di bombe e missili per aerei.
Non si esclude che vi possano essere anche bombe nucleari.
Da qui sono partite le armi usate nelle guerre Usa/Nato contro l’Iraq, la Jugoslavia e la Libia. Il collegamento tra la base Usa e il porto di Livorno, attraverso il Canale dei Navicelli recentemente allargato, verrà ulteriormente potenziato costruendo una linea ferroviaria che permetterà il transito di maggiori carichi di armi ed esplosivi, mettendo ancora più a rischio gli abitanti della zona. Le armi vengono inviate soprattutto in Medio Oriente – per le guerre in Siria, Iraq e Yemen – ora anche per mezzo di grandi navi Usa che fanno scalo ogni mese a Livorno. Quello di Livorno è porto nucleare, dove possono approdare unità militari a propulsione nucleare e anche recanti armi nucleari a bordo.
A queste infrastrutture si aggiunge l’Hub aereo nazionale delle Forze armate, nell’aeroporto militare di Pisa, da cui transitano uomini e mezzi per le missioni militari all’estero. L’aeroporto, che prima aveva un ruolo tattico circoscritto al territorio nazionale, ha assunto un ruolo strategico, proiettato nei teatri operativi fuori dal territorio nazionale. Dall’Hub aereo di Pisa transitano anche materiali militari della limitrofa base di Camp Darby.
Sempre a Pisa vi è il Comando delle forze speciali dell’esercito (Comfose), costituito alla caserma Gamerra, sede del Centro addestramento paracadutismo. Attraverso l’Hub aereo nazionale, i commandos delle forze speciali e i loro armamenti vengono inviati nei vari teatri bellici per operazioni segrete, condotte con forze speciali Usa/Nato.
La lotta contro la guerra che ci danneggia e minaccia sempre più – sottolineano i promotori della Campagna – deve partire dalla lotta per la smilitarizzazione del nostro territorio.
Prima iniziativa della Campagna, la protesta il 21 maggio contro il Pisa Air Show nel quale, insieme alle Frecce Tricolori, si sono esibiti di fronte a 100mila spettatori i caccia Tornado ed Eurofighter, usati nelle guerre contro l’Iraq, la Jugoslavia e la Libia. Un Eurofighter costa (con denaro pubblico) oltre 100 milioni di euro e circa 40 mila euro per ogni ora di volo, l’equivalente del salario lordo annuo di un lavoratore.
Repubblica 3.6.17
I ragazzi del Cinema America “Così abbiamo salvato un sogno”
Dallo sgombero all’assegnazione di una sala, con il sostegno di attori e registi La battaglia è durata oltre due anni: “Abbiamo trasformato la rabbia in amore”
Ernesto Assante
ROMA. Ci sono voluti nove mesi di battaglie, dibattiti, carte bollate, riunioni e fatica, ma alla fine giovedì sera in piazza San Cosimato a Roma, con la partecipazione di Paolo Virzì e del suo
Caterina va in città,
si è acceso il grande schermo che per sessanta notti porterà il grande cinema gratuitamente ai cittadini della Capitale. E ieri è toccato a Bernardo Bertolucci portare in piazza
Ultimo tango a Parigi.
Merito di un manipolo di ragazzi, tra i 16 e i 25 anni, che in barba alla vulgata che vuole i “giovani d’oggi” privi d’iniziativa, pigri, bamboccioni o quant’altro, sta combattendo da cinque anni per difendere un cinema, il cinema, la convivenza, la partecipazione, la possibilità di un futuro diverso.
Sono ragazzi che arrivano anche dai quartieri periferici di Roma, «cresciuti in una città dove l’unica fonte di divertimento che ci hanno lasciato sono alcol e droghe», dicono, «dove dopo la mezzanotte “Zitto e muto, al massimo stai sul muretto sotto casa”, che poi ci hanno anche levato per fare altri palazzi e parcheggi». Hanno cominciato occupando un vecchio cinema nel cuore di Trastevere, l’America, una struttura bella e abbandonata destinata a diventare sito per parcheggi e appartamenti. «Tutto è cominciato cinque anni fa», racconta Valerio Carocci, 25 anni, «eravamo nel movimento studentesco ma pensavamo che bisognasse fare qualcosa di più, per noi e per la città. Cercavamo un luogo dove incontrarci, confrontarci, fare. Così abbiamo scoperto che il Cinema America era abbandonato e abbiamo pensato di farne il centro della nostra attività ».
All’inizio, dunque, era un’occupazione, forse come tante altre, piena di sogni e desideri e destinata a finire con uno sgombero. Poi si è trasformata: i ragazzi hanno capito che quello che avevano occupato non era uno spazio qualsiasi, ma un cinema e che proprio come tale aveva senso di esistere. «Non eravamo patiti di cinema », dice Carocci, «lo abbiamo scoperto qui». E scoprendo vecchi film e grandi successi, hanno iniziato a portare i loro coetanei a capirne il linguaggio, la ricchezza, l’importanza. E hanno scelto di difenderlo.
Due anni fa hanno iniziato a proiettare film su schermi “pirata”, sui monumenti di Roma, sulle pareti della città, poi hanno riaperto per gioco ma con un clamoroso successo un vecchio Drive in, gloria degli anni Sessanta; hanno iniziato a organizzare rassegne, incontri, dibattiti, fino ad arrivare al cinema in piazza, nella piazza più grande di Trastevere: San Cosimato, gratis, per la gente del quartiere e della città. E pian piano tutti si sono accorti di loro: il Presidente Napolitano li ha lodati, Pedro Almodóvar li ha sostenuti, tutta Trastevere li ha adottati.
E il mondo del cinema al completo è sceso al loro fianco: per difendere le loro iniziative aiutandoli a farne nascere altre. Da Ettore Scola a Francesco Bruni, dal Carlo Verdone a Mario Martone, e Rosi, Garrone, Sorrentino, i fratelli Taviani, Virzì, Salvatores, De Cataldo e il produttore Andrea Occhipinti, Carlo Degli Esposti, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Francesca Archibugi, Daniele Vicari. Attori e maestranze del cinema hanno sostenuto i ragazzi, e loro, per dimostrare che facevano sul serio, senza guadagnarci un solo euro, si sono messi in testa di prendere in gestione un’altra sala cinematografica abbandonata, la Sala Troisi, questa volta in piena legalità, vincendo il bando comunale e dando il via a un’altra battaglia per riaprire un cinema.
Una storia magnifica, anche perché se c’è una cosa bella e straordinaria che i ragazzi del Cinema America sono riusciti a fare, è stata quella di svegliare non tanto i loro coetanei, ma soprattutto gli adulti. E sperano di essere da esempio per altri: «Fatelo anche voi, fatelo subito, invertite questo processo nei vostri territori, riappropriatevi di spazi vitali, sociali e culturali», dicono. «Ma non chiedeteci come si fa, perché noi non lo sappiamo davvero, abbiamo solo seguito il cuore e trasformato la rabbia in amore, prima per un cinema, poi per un rione ed ora per una città, la nostra città».
Se, raccontando qualche anno fa degli schermi pirata dei ragazzi del Cinema America, avevamo scritto che chiedere l’impossibile alle volte fa bene, oggi possiamo dire che realizzare l’impossibile è decisamente meglio.
Corriere 3.6.17
I legami molto pericolosi dell’industria delle armi
di Sergio Romano
Non potremo proclamarci sorpresi, quindi, se l’Iran, nei prossimi mesi, rafforzerà il suo programma missilistico con nuovi esperimenti. E non potremo sorprenderci se la Cina, dopo la consegna alla Corea del Sud di un nuovo sistema antimissilistico americano chiamato Thaad, farà altrettanto.
Conosciamo il gioco e sappiamo che ciascuno di questi Paesi attribuisce sempre a un altro, senza arrossire, il suo desiderio di nuove armi, più precise e letali. Sappiamo anche che certe forniture possono avere persino qualche ricaduta positiva. Quella di Trump alla Arabia Saudita, per esempio, potrebbe convincere i sauditi a smetterla di chiudere gli occhi di fronte alle sanguinose operazioni dell’islamismo sunnita, fra cui in particolare quelle dell’Isis; o addirittura aprire la strada all’avvento di un nuovo clima fra Israele e i palestinesi. Ma le armi sono fatte per essere usate e finiscono spesso, prima o dopo, su un campo di battaglia. L’America ne vende molte. Può essere considerata, almeno in parte, corresponsabile di questi conflitti? Per rispondere a una tale domanda può essere utile rileggere il discorso televisivo alla nazione con cui il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate durante la Seconda guerra mondiale e presidente degli Stati Uniti dal gennaio 1953, si congedò dal potere nel dicembre 1961,
Eisenhower esordì ricordando che sino alla Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti non avevano ancora una grande industria militare. Da allora, tuttavia, quella industria era andata progressivamente crescendo sino a impiegare tre milioni e mezzo di uomini e donne. Era necessaria alla sicurezza del Paese, ma stava creando quello che il presidente americano definì un «complesso militare-industriale», vale a dire una concentrazione di interessi che avrebbe potuto avere una influenza determinante sulla politica nazionale. Mai previsione è stata altrettanto giusta e altrettanto negletta. L’industria militare americana è un grande datore di lavoro, fondamentale per la vita di zone che non hanno altre attività produttive. Il suo rapporto con la pubblica amministrazione e con il Congresso è diventato sempre più intimo. Non è raro assistere al caso di ufficiali a riposo che vengono impiegati dalle ditte con cui, quando vestivano l’uniforme, hanno avuto rapporti di committenza.
Gli Stati Uniti hanno perduto, politicamente, la guerra irachena del 2003. Ma non l’hanno perduta economicamente le grandi imprese dell’Intendenza che viaggiavano al seguito delle forze armate. Il caso di Halliburton è esemplare. La grande multinazionale texana, di cui il vice-presidente Dick Cheney era stato presidente e amministratore delegato, vinse un contratto di 7 miliardi di dollari, alla fine di una gara in cui fu la sola concorrente, per i servizi logistici delle forze d’occupazione americane.
Ancora più potente l’industria militare è diventata da quando le sue ricerche per armi sempre più moderne e «intelligenti» hanno prodotto innovazioni tecnologiche sempre più utili e vantaggiose. Paradossalmente molti grandi progressi tecnologici degli ultimi decenni (fra cui Internet) nascono là dove si fabbricano armi e si preparano guerre.
Esiste ormai negli Stati Uniti un legame fra industria delle armi, economia nazionale e tecnologia del futuro che rende le guerre, in alcuni ambienti, utili e desiderabili. Barack Obama cercò di rompere questo circolo vizioso affidando a un segretario della Difesa, Robert Gates, il compito di ridurre drasticamente il bilancio militare degli Stati Uniti. Non sarà questa, verosimilmente, la politica di Donald Trump.
La Stampa 3.6.17
L’acciaio fa naufragare l’intesa tra Ue e Cina
A Bruxelles salta la dichiarazione congiunta finale. Ma regge il patto sull’ambiente La rottura sul commercio: l’Europa non vuole riconoscere l’economia di mercato
Marco Bresolin
Tre ore di discussioni oltre il previsto, dopodiché la dichiarazione congiunta preparata dagli sherpa nelle scorse settimane è finita nel cestino. Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha provato a definire il diciannovesimo vertice Ue-Cina «il più fruttuoso e promettente di sempre», ma non è il caso di definirlo «un successo». Tutt’altro. Doveva essere il summit della nuova alleanza in risposta all’isolamento di Trump e invece la distanza tra Bruxelles e Pechino rimane notevole. Il nodo è sempre il commercio e in particolare i problemi legati alla sovrapproduzione di acciaio cinese che, esportato a prezzi bassi, rappresentano una minaccia per l’industria siderurgica europea. «Anche se siamo riusciti ad avvicinare le posizioni – ha detto il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker – permangono le divergenze».
L’Europa non vuole riconoscere lo status di economia di mercato alla Cina e i cinesi hanno vincolato questo punto alla firma della dichiarazione congiunta. La trattativa tra i negoziatori è andata avanti tre ore, ma non c’è stato niente da fare. Fonti europee assicurano che sul clima e su «quasi tutti gli altri punti» della dichiarazione (17 i paragrafi nella bozza di nove pagine) «c’è pieno accordo». Eppure il summit si è concluso senza uno straccio di intesa da mettere nero su bianco. Il premier cinese Li Keqiang ha provato a giustificare il flop dicendo che «c’erano molti temi sul tavolo e poco tempo per discuterne». Quindi ha ribadito che le relazioni con l’Europa devono «restare stabili e consolidarsi senza sosta», anche perché in questa fase storica è necessario «rispondere all’instabilità».
I primi risultati
E infatti a dire il vero il summit Ue-Cina qualche risultato lo ha prodotto: le parti hanno trovato un’intesa per riconoscere entro la fine dell’anno circa duecento indicazioni geografiche da proteggere (metà cinesi e metà europee). L’Italia è il Paese Ue più rappresentato nella lista con 26 prodotti, principalmente vini (tra cui barolo, barbaresco e chianti) e formaggi (tra cui gorgonzola, grana padano e taleggio), ma anche il prosciutto di Parma, il San Daniele, la bresaola della Valtellina e l’aceto balsamico di Modena.
Al di là delle divergenze, quindi, i capitoli su cui Bruxelles e Pechino vogliono lavorare insieme non mancano: investimenti, crisi migratoria, energie alternative, Nord Corea e soprattutto cambiamento climatico. «Mi ha fatto molto piacere vedere che la Cina condivide il nostro malcontento per la decisione degli Usa sul clima – ha detto Juncker -. Questo aiuta, è un atteggiamento responsabile e invita sia la Cina che l’Ue a procedere con l’implementazione dell’accordo di Parigi». Donald Tusk ha assicurato che «la lotta sul clima continuerà, con o senza gli Stati Uniti». Perché la decisione di Trump di uscire dall’accordo sul clima, secondo il presidente del Consiglio europeo, «è un grande errore. Più grande della mancata ratifica del protocollo di Kyoto perché l’accordo di Parigi è più equo».
Lo scontro con Trump
Poco più di una settimana fa, l’ingresso di Trump all’Europa Building aveva permesso ai vertici delle istituzioni Ue di constatare che la strada per una collaborazione con gli Usa è tutta in salita. Le divergenze maggiori erano emerse proprio sugli accordi di Parigi e sul commercio. Ma a Bruxelles non gettano la spugna, consapevoli che le relazioni con l’America sono profonde e consolidate, in grado di sopravvivere anche a un’amministrazione che preferisce congelare i rapporti: «I forti legami transatlantici – ha detto Tusk – costituiscono la migliore garanzia che i popoli e le nazioni che chiedono libertà e ordine pacifico non saranno lasciati soli».
il manifesto 3.6.17
Corbyn attacca «l’inadeguatezza» di Theresa May: «Il suo silenzio è sottomissione alla Casa bianca»
Gran Bretagna. L'uscita Usa dall'accordo di Parigi piomba sul voto. A pochi giorni dal voto il leader laburista ancora in rimonta: «Se vinco nessuna alleanza».
di Leonardo Clausi
LONDRA Manca ormai meno di una settimana alle elezioni politiche anticipate più importanti e straordinarie della storia britannica recente. E di fronte alla titubanza di Theresa May, che ieri non si è unita alle critiche dell’Ue nei confronti di Trump e della sua decisione di ritirare gli Usa dagli impegni sul contenimento delle emissioni sanciti dall’accordo di Parigi, lo stesso Jeremy Corbyn ha mollato gl’indugi.
Definendola, in un discorso a York, «sottomessa» al presidente americano, l’ha accusata di venir meno ai doveri della carica.
«Davanti alla possibilità di presentare un fronte unito con i nostri partner internazionali ha invece optato per il silenzio e la sottomissione a Donald Trump. È un’inadempienza al suo dovere nei confronti del Paese e del pianeta». «Non è questa la leadership che serve alla Gran Bretagna per negoziare la Brexit» ha poi aggiunto Corbyn, che i sondaggi continuano a dare in crescita.
L’ultimo, YouGov, sparato in prima pagina dal Times di ieri, prefigurava il cosiddetto hung parliament, un parlamento «appeso» dove nessuno ha i numeri sufficienti per formare un governo e dove i Tories perderebbero venti seggi: il peggior incubo di May, che si troverebbe così ad aver sconsideratamente scommesso su elezioni che, pur in caso di probabile vittoria, potrebbero erodere la sua maggioranza anziché allargarla.
Il Labour ha già detto che tenterà la (quasi impossibile) via di un governo di minoranza, senza cioè formare coalizioni, con il Snp, i Verdi o i Libdem.
Ma il semplice fatto che si possano fare simili speculazioni a sei giorni dalle urne, è in sé niente meno che straordinario.
Sulla Brexit, Corbyn, aggredito mesi fa dai moderati del suo partito per non essere caduto eroicamente sulle barricate del Remain, ha la posizione più sensata: riconoscimento immediato di tutti i cittadini europei residenti in Uk e attitudine aperta con Bruxelles per evitare a tutti i costi di scivolare fuori dal mercato unico, cosa che May invece sta minacciando qualora gli accordi si rivelino svantaggiosi per il Paese.
Il leader Labour non è mai stato il tipo di politico che ama demonizzare – e nemmeno attaccare – l’avversario. Davanti al plotone d’esecuzione dei media nazionali, schierati contro di lui con una compattezza fin troppo sovietica per essere un Paese ritenuto la culla della stampa libera, ha finora mantenuto un’impassibilità da samurai. Ancor prima di essere una persona naturale e gradevole, è un attivista nato per fare campagna, è il suo elemento: e anche per questo Corbyn sta vincendo proprio nel terreno giudicato inizialmente per lui più infido, quello del sapersi mostrare all’altezza dell’importanza dell’ufficio di primo ministro.
A Londra, dove il partito sembra in corsa per aggiudicarsi il voto di moltissimi giovani, gli ultimi sondaggi YouGov riportati dall’Independent lo darebbero addirittura davanti a May, che sulla propria immagine prime ministerial aveva giocato tutto. Per cui è improvvisamente credibile sentirlo parlare nel ruolo ritenuto fino a pochi giorni fa per lui irraggiungibile. Certo che accoglierebbe Trump a Downing Street: cercherà anzi di persuaderlo a cambiare idea davanti a una tazza di tè dello Yorkshire.
Insomma, la situazione presenta uno scenario che sarebbe parso surreale appena due mesi fa.
Certo, le distanze nei sondaggi, che restano sondaggi ora come quando i Tories parevano imprendibili, non avrebbero potuto accorciarsi così tragicamente senza l’incompetenza del cosiddetto Theresa’s Team, unitamente al fatto che colei è una campaigner per forza.
Ed è stata la svolta di un paio di settimane fa, con la presentazione del disastroso manifesto elettorale sul quale May – che queste elezioni ha voluto con l’alibi della Brexit pur di finire un Labour agonizzante regalando così al paese dodici anni di dominio conservatore – ha fatto una catastrofica marcia indietro (una «tassa sulla demenza» troppo onerosa per gli anziani) a dare al Labour l’impeto per osare l’impossibile.
Al punto da strappare a Corbyn una promessa elettorale che, almeno in Italia, nessuno si sognerà mai più di fare: un milione di nuovi posti di lavoro entro la prossima legislatura.
La Stampa TuttoLibri 3.6.17
La nuova lezione di Carlo Rovelli
Galileo scandiva i minuti cantando finché arrivò Einstein a cavallo della luce
Il fisico-scrittore affronta i misteri del tempo e delle sue trasformazioni teoriche: un concetto che abbiamo dentro di noi, ma che può essere sbagliato
di Marco Malvaldi
Che cos’è il tempo?
Per parafrasare Corrado Guzzanti, nel leggere il bellissimo saggio di Carlo Rovelli scopriremo che la risposta è dentro di noi, però è sbagliata.
Ma andiamo con ordine.
La sensazione che il tempo sia uno dei pochi aspetti comuni a tutti gli esseri umani sembra ovvia: agli albori della civiltà si poteva disquisire se fosse meglio il vino di Kos o quello resinato, ma sul fatto che fosse giorno oppure notte non era possibile intavolare discussioni. Questo apparente terreno comune dei nostri sensi, il tempo, diventò quindi presto un elemento fondamentale di un linguaggio universale e condiviso.
Tra una coppa di vino (resinato o meno) Aristotele disse che il tempo è la misura del cambiamento. Quello che ci ha fregato, in prima istanza, è stata proprio questa parola: misura.
I metodi che i primi scienziati usavano per misurare il tempo sembrano, a noi evoluti bipedi del terzo millennio, un pochettino abborracciati. Lazzaro Spallanzani, nei suoi esperimenti di fisiologia, misurava il passare del tempo in credi (il tempo necessario per recitare un Credo); Galileo Galilei, mentre seguiva le sfere che rotolavano su piani inclinati, cantava, avendo intuito che la melodia lo aiutava a scandire il tempo in modo più preciso che non contando. I loro eredi hanno inventato cronometri sempre più precisi, e hanno cercato di sincronizzarli con precisione assoluta.
Fino al giorno in cui Albert Einstein immaginò di viaggiare a cavallo di un raggio di luce, e si chiese che cosa ne sarebbe stato dello scorrere del tempo. La risposta, come sappiamo, lo sconvolse. Il tempo, come ente assolutamente misurabile, comune a tutti gli strumenti, non esiste. Cambia a seconda di quanto veloce sia il sistema che lo misura, e a seconda di quanto intenso sia il campo gravitazionale di cui risente.
Inizia da qui lo splendido viaggio in compagnia di Rovelli per capire come l’essere umano abbia cercato di studiare il tempo, cercando di mettere d’accordo i nostri sensi con la nostra capacità di capire, ma con la profonda consapevolezza che quando i due entrano in contraddizione è meglio fidarsi della ragione che dei sensi.
Scopriremo, leggendo, che l’apparente intuizione sensoriale che il tempo che ci circonda sia uniforme per tutti è, in realtà, una convenzione culturale, figlia di Newton. Convenzione che diventerà poi senso comune, e poi invariante fisica, almeno fino a trecento anni dopo, quando Einstein si immaginò l’esperimento mentale di cui sopra. E quindi la scoperta che il tempo è in relazione al cambiamento, ma non possiede un ordine assoluto. Il tempo di Newton fa quindi la fine dei solidi platonici, gli strani atomi spigolosi di cui il filosofo si immaginava fosse fatto il mondo. Perché i solidi, e il tempo, oggetti eterni, immutabili e anche un po’ pallosi, non servono a spiegare il mondo; sono le relazioni tra gli oggetti quelle che ci aiutano molto meglio a spiegare, a prevedere, e in ultima analisi a capire la natura.
Il luminoso filo conduttore di questo libro è infatti l’importanza delle relazioni, rispetto alle cose. Con estrema onestà intellettuale, Rovelli ci conduce dalla perdita dell’illusione, sperimentalmente accertata al di là di ogni ragionevole dubbio, alle possibili relazioni in grado di spiegare in modo coerente come il tempo di dipana e si contrae, sulle quali ci avverte che sono ancora ricerca, pur se promettente.
In due capitoli lievemente più tecnici, e molto coraggiosi, Rovelli ci spiega che lo scorrere del tempo dal passato verso il futuro, che sfocia nel secondo principio della termodinamica, è una impressione che ci deriva dalla nostra incapacità di descrivere completamente un sistema. Per farlo, occorrerebbe conoscere la velocità e la posizione di ogni singolo atomo, cosa che ci è preclusa; ricorriamo quindi a descrizioni globali e incomplete, parliamo di pressione, temperatura e altre caratteristiche che sono utili, dal nostro punto di vista, per interagire con il sistema in questione, magari evitando di scottarci, ma che hanno come conseguenza che l’entropia è destinata ad aumentare.
Si parla, qui, di «punto di vista» non a caso: perché la stessa entropia dipende dal punto di vista che adottiamo. Una entropia, matematicamente, non è altro che una somma di probabilità; ma per definire la probabilità che una data particella faccia qualcosa, dobbiamo prima di tutto stabilire che cosa. In pratica, per assegnare queste probabilità, dobbiamo partire da un punto di vista. Per questo il tempo è dentro di noi: perché nasce da come noi abbiamo impostato la nostra scienza, dalla limitata gamma di ciò che i nostri sensi sono in grado di avvertire.
Il Rovelli divulgatore si muove tra analogie continue, di ogni tipo, da quelle grammaticali e linguistiche a quelle musicali, allo scopo di far capire al lettore meglio che si può. Capire, cioè esprimere ciò che sappiamo in termini di ciò che invece non sappiamo; e per far questo non sempre la via più breve, o più efficace, è il ragionamento diretto. Per arrivare in cima a un pino non è necessario arrampicarsi per forza dalla base del pino, se questo è circondato da olivi: alberi amichevoli, pieni di rami robusti, anche se più bassi del nostro obiettivo finale. E un libro come questo, che forse non è per tutti, ma sicuramente è per moltissimi, è un esempio di come si possa fare divulgazione scientifica emozionando, incuriosendo, e soprattutto mostrandoci l’estensione della nostra ignoranza. Il che è il primo, necessario, passo per migliorare.
La Stampa 3.6.17
Il cacciatore di eretici rivive nella notte dell’Inquisitore
Nel Cuneese un evento ricorda i 500 anni della Riforma
di Paola Scola
Nel XV e XVI secolo il mondo cristiano occidentale era assolutamente convinto che le streghe esistessero e, come «donne di Satana», portassero il male fra gli uomini e gli animali. In volo, con pozioni, puntando sulla corruzione anche sessuale. Tra i «cacciatori di streghe» incaricati dalla Chiesa, uno dei più famosi e impegnati arrivava dalla provincia di Cuneo: Silvestro Mazzolini da Priero, piccolo paese con torre circolare e portici medievali, sulla strada tra il Monregalese e il mare.
Di lui si conosce molto poco. E nessuno più, nel borgo, porta questo cognome: solo una strada ricorda il palazzo dove sarebbe nato. Si sa che, quindicenne, entra nell’Ordine dei Domenicani e aggiunge al suo nome quello di «Prierias». Gli scritti del religioso variano di argomenti: dai pianeti ai poteri dei demoni, dalla storia di San Tommaso al primato papale.
La sua figura è strettamente legata a quella di Martin Lutero, autore della Riforma: Papa Leone X gli affida l’incarico di consulente, come primo teologo, nel processo canonico contro di lui. Il «Prierias» confuta le tesi luterane e apre una lunga controversia. Da allora sono trascorsi cinquecento anni.
«La ricorrenza ci ha indotti a organizzare questa sera una manifestazione - spiega il sindaco di Priero, Alessandro Ingaria -, per un evento che ha cambiato la storia». «La notte dell’Inquisitore» inizia alle 20,45, in piazza Vittorio Emanuele. Primo ospite è Alessandro Barbero, docente universitario, storico e scrittore, che racconterà «Le parole del Papa, da Gregorio VII a Francesco», dialogando sulla Riforma Luterana e la parole di riappacificazione di Papa Bergoglio. Alle 21,45 uno spettacolo originale, che, partendo da Mazzolini e dal contesto storico, rivisiterà Inquisizione e stregoneria: «Di luce e d’ombra», con la Compagnia del Birùn, farà riflettere su «cosa può succedere al singolo e alla collettività se si spengono il lume della ragione e la luce dell’empatia. Il buio del pregiudizio si annida in ogni epoca».
Il rigore di Mazzolini è leggendario. Anche nella caccia alle streghe, che nelle campagne si ritrovano nei «sabba» per i loro riti, tra magia e culto dei diavoli. Artefice di grandi repressioni, manda al rogo molte donne, accusate spesso con prove costruite.
La strega è dipinta dal popolo come una donna solitamente di brutto aspetto (ma anche giovane e bella, per esercitare meglio i poteri sugli uomini). Appartiene soprattutto alle classi sociali inferiori - anche se esistono rari casi di nobildonne condannate al rogo - ed è di solito vedova, levatrice ed «herbaria». Il gran numero di accusate di stregoneria è fatto di persone innocenti, di ogni età e condizione, levatrici, prostitute o guaritrici, a cui i poveri si rivolgevano per essere curati, pagando poco. È strega anche chi ha gatti neri, capelli rossi o un neo nell’iride dell’occhio. Mazzolini è molto abile nel farle confessare. Anche se innocenti.
il manifesto 3.6.17
L’arte combinatoria di un fluido divenire
«Spinoza. Filosofia pratica» di Gilles Deleuze per le edizioni Orthotes. Edito in Francia nel 1981, il volume comprende due testi composti nel decennio precedente. Interrogare i concetti del filosofo olandese consente di illuminare la storia del pensiero occidentale
di Giso Amendola
Nelle Conversazioni con Claire Parnet, Gilles Deleuze parla di Spinoza come una «corrente d’aria che vi soffia sulla schiena» o come una scopa di strega su cui saltare.
I suoi incontri con Spinoza segnano tutte le fasi della sua opera: quella delle prime monografie, attraverso cui Deleuze fa i conti con la storia della filosofia, con Spinoza e la filosofia dell’espressione preparato già negli anni Cinquanta, e pubblicato poi solo nel ’68 (edito in Italia da Quodlibet), ma anche quella degli anni Ottanta, per esempio con il corso universitario del1980-81 (Cosa può un corpo?, ombre corte).
Torna ora in libreria Spinoza. Filosofia pratica, grazie a Orthotes, che rende nuovamente disponibile l’edizione italiana, con traduzione e postfazione di Marco Senaldi (pp. 135, euro 17). In Francia, il volume uscì nel 1981, riprendendo due testi deleuziani su Spinoza del decennio precedente.
Come nota Senaldi, si tratta di un lavoro di composizione e di ricombinazione di concetti spinoziani, e, allo stesso tempo, di invenzione di nuovi concatenamenti che si spingono là del pensiero spinoziano, per connettersi direttamente al lavoro teorico (e politico) di Deleuze.
UNA FILOSOFIA PRATICA, leggiamo nel titolo: un’etica, molto lontana da una morale normativa e percorsa tutta da una sfida intensamente politica. Lo spinozismo, dice subito Deleuze, è infatti uno scandalo: ed è scandaloso perché mette in azione una macchina ontologica, una concezione dell’essere, che fa letteralmente esplodere tre grandi superstizioni, tre meccanismi mortiferi che avviliscono le nostre vite e le privano di autonomia, consegnandole docili all’obbedienza.
La «tripla denuncia» – che accosta, nella lettura deleuziana, Spinoza a Nietzsche – mira a colpire le mistificazioni della coscienza, dei valori, e delle passioni tristi. Spinoza è anzitutto materialista: la centralità della coscienza è rotta dalla materialità dei corpi, o meglio dalla impossibilità di conoscere e limitare a priori la potenza dei corpi, di fissarne «trascendentalmente» le condizioni di possibilità.
Nessuno sa cosa può un corpo, ripete Deleuze dall’Ethica di Spinoza: di qui, la rottura con ogni morale intesa come precettistica dei valori, per dirigersi verso una fisica degli incontri, verso la capacità di cercare quelle combinazioni che accrescono la nostra potenza e di evitare quelle che la deprimono.
Una capacità compositiva che si svolge su un piano tutto affermativo, positivo: non si tratta di colmare vuoti o mancanze, come pretenderebbe la dialettica, che fa della negazione il motore della nostra determinazione, ma di sperimentare quegli incontri che accrescono il nostro potenziale e che producono gioia, evitando di marcire nella meditazione della nostra impotenza.
È un’arte combinatoria molto strategica e dinamica, nulla di più distante da un ottimismo pacificato, o da quel senso di immobilità, di imperturbabilità orientale e quasi disumana che Hegel imputava a Spinoza.
LO SPINOZIANO rifiuto della negazione, chiarisce Deleuze, non ha nulla a che fare con l’opposizione tra ottimisti e pessimisti: è invece il rifiuto dell’idea che la negazione sia costitutiva di noi stessi. Certo che esiste il dolore, certo che esiste la morte: ma il male ci capita dal di fuori, ci affetta come una disavventura, un errore, un ostacolo, ma mai come un limite intrinseco, un nucleo costitutivo, o addirittura il motore della costruzione della nostra soggettività.
Il male è sempre esterno, come esterni sono tutti i rapporti: lo Spinoza di Deleuze, oltre che «immoralista» accanto a Nietzsche, è anche un formidabile empirista, non lontano da Hume, non a caso altro «eroe» di Deleuze. E, per un empirista, il mondo non è fatto di colpa e di coscienza, di mancanze costitutive e di determinazioni attraverso la negazione: è fatto di contatti, rapporti, movimenti e connessioni, composizioni e decomposizioni.
È questa specifica dimensione di gioia e di innocenza che è sempre andata di traverso a tutti i difensori delle tradizioni autoritarie e trascendenti del Politico, pronti, dai versanti più diversi, a ironizzare sulla denuncia spinozista delle passioni tristi, a scambiarla con una rimozione della durezza dello scontro politico.
Uscire dalla trappola del negativo non è aggirare l’antagonismo, ignorare la ferocia di un mondo che «si è diviso in due»: significa, al contrario, sapere che le lotte non si radicano (almeno, non si radicano solo e sempre) nelle ferite del disconoscimento, e nei livori dei risentimenti, ma nella forza della scoperta della propria autonomia – anche e proprio quando è più sfruttata – e nella capacità di vivere potenziandola, sperimentandone le connessioni più felici.
Non è difficile riconoscere in questo Spinoza pratico l’andamento specificamente «macchinico» del pensiero deleuziano quale si andava elaborando tra Anti-Edipo e Millepiani.
È l’etica della costruzione di linee, di rapporti e di combinazioni sul piano di immanenza: un piano dove non esiste alcuna trascendenza, alcuna direzione predeterminata che diriga i soggetti e le loro formazioni.
L’essere – a differenza delle molte «ontologie» che ne fanno un fondamento trascendente, più o meno nascosto – si esprime tutto univocamente in ognuno dei suoi modi.
TUTTO QUEL CHE ESISTE è produzione/prodotto dell’essere allo stesso modo: il mondo non è un’immaginetta che si limiti a riflettere la luce pallida emanata da un’Origine distante e padrona.
Al contrario, l’essere è qui una macchina ontologica che sovverte qualsiasi pretesa di fondare gerarchie indiscutibili, per riaprire continuamente un campo di concatenamenti e di connessioni tra singolarità.
L’ontologia dello spinozismo sta precisamente in questo doppio movimento: rifiuto di muoversi su un piano già finalisticamente orientato, e, contemporaneamente, capacità di leggere nel movimento delle singolarità non una debole danza nel vuoto, ma un conatus trasformativo, che, mentre ci attraversa, allo stesso tempo modifica e produce anche tutto l’essere in cui viviamo, l’unica sostanza di cui siamo fatti ma di cui siamo anche continui produttori.
Altro che cattiva metafisica, come continuamente borbottano, al solo sentire parlare di ontologia, i custodi delle varie versioni mistiche o deboli della differenza: è, anzi, proprio questa ontologia che permette di confrontarsi con le dinamiche del capitalismo contemporaneo sul suo stesso piano.
Questa concezione dell’essere come produzione immanente è infatti il solo terreno che permetta di comprendere a pieno un capitalismo dei flussi, che opera attraverso la connessione di dispositivi estremamente eterogenei, e che, allo stesso tempo, sa mettere a valore le differenze, ma anche utilizzare modalità estremamente dure, autoritarie e violente di espropriazione.
DELEUZE E GUATTARI attraversarono tutti gli anni Settanta cercando appunto di costruire macchine da guerra all’altezza di questa nuova intensità biopolitica della produzione, macchine per connettere e potenziare le soggettività sociali che avevano fatto irruzione nelle città fin dagli anni Sessanta, per poi esplodere nel Sessantotto.
Spinoza si è così felicemente incontrato con il Marx che leggeva il capitale come un rapporto sociale di continua trasformazione e, insieme, come una serie di dispositivi distesi ormai pienamente sull’intero campo sociale e innestati sul lavoro vivo, per captarne l’energia e succhiarne la potenza.
Questo Marx/Spinoza forniva loro, e continua a fornire a noi, gli strumenti per collocarci su un piano intensamente materialistico e, al tempo stesso, attraversato e costituito da lotte, controcondotte e processi di soggettivazione, produttivi e capaci di fuggir via continuamente dalle mille trappole del negativo.
il manifesto 3.6.17
Il trionfo e la caduta
Una ricerca dell'associazione mondiale calciatori sul problema della salute mentale degli ex giocatori
di Pasquale Coccia
Perché Francesco Totti si commuove fino alle lacrime al termine della sua ultima partita della carriera di calciatore, mentre l’Olimpico gli tributa i dovuti onori? In fondo gli eroi non dovrebbero essere tutti giovani e forti? E mentre comincia il tormentone sul suo futuro ( gli offriranno la vicepresidenza, farà da tramite con lo spogliatoio, si occuperà del calcio-mercato?), in pochi si chiedono quali saranno i contraccolpi sul piano psicologico di colui che il popolo giallorosso ha chiamato per anni il “Grande Capitano”. Una ricerca dell’Associazione mondiale dei calciatori conferma che la salute mentale degli ex giocatori è un problema serio e che il numero di coloro che hanno bisogno di aiuto è in aumento: “ Una nostra ricerca condotta nel 2015 – sostiene Vincent Goutterbarge, capo della commissione medica dell’Associazione mondiale dei calciatori – conferma che il 35% degli ex calciatori soffre di depressione e/o ansia, cui si associano insonnia e abuso di alcol”.
EROI DEPRESSI
La tendenza degli ex calciatori, a lungo beniamini del pubblico e acclamati come condottieri coraggiosi, è di tenere tutto dentro, di non parlare con nessuno dei propri disagi mentali, e di non dare segni di cedimento, ma negli ultimi tempi qualcosa è cambiato fanno sapere dal sindacato mondiale dei calciatori: se nel 2016 i calciatori in preda a stati di ansia e a depressione che si sono rivolti alla Fifpro per un aiuto psicologico sono stati in tutto 160, nel periodo da gennaio ad aprile del 2017 il numero è salito a 178, segno che la campagna avviata su scala mondiale sul tema della salute mentale degli ex calciatori comincia a dare risultati più incoraggianti. Tra coloro che hanno appeso le scarpe al chiodo e manifestano disagi mentali, circa il 25% fa ricorso all’uso di alcol per attutire la lontananza dai campi di calcio e dal pubblico dei tifosi.
Poche settimane fa, il calciatore dell’Everton Aaron Lennon è stato arrestato a causa di alcune esagerazioni dovute a problemi di salute mentale, in quell’occasione il Daily Mail , il secondo quotidiano inglese più venduto dopo il Sun, ha sbattuto il mostro in prima pagina, svelando ai lettori che Aaron Lennon percepisce 55 mila sterline alla settimana, e un privilegiato come lui come può avere problemi di disagio psichico? La reazione indignata tra i social non si è fatta attendere e il quotidiano inglese è stato subissato di critiche.
IL CAMPIONE UBRIACO
Non è solo tra i calciatori che si manifestano problemi di salute mentale, al di là del loro status economico, pochi giorni fa è stato arrestato in Florida, per guida in stato di ubriachezza, il campione di golf Tiger Woods, vincitore di quattordici major, equivalenti agli slam nel tennis, il cui patrimonio nel 2016 è stimato dalla rivista Forbes in 740 milioni di dollari, risultando non solo il golfista più pagato al mondo, ma anche il primo tra gli sportivi. E’ stato ritenuto un modello multietnico, visto che era figlio di un afroamericano e di una thailandese, tanto da spingere Barack Obama a invitarlo nel 2009 alla Casa Bianca per farne il testimonial dell’America multirazziale, che non solo aveva eletto come presidente un uomo di colore, ma sapeva coltivare anche campioni di colore. A lungo il numero uno al mondo nel golf, Tiger Woods ha vissuto negli ultimi anni alti e bassi dovuti a problemi di ordine fisico, soprattutto alla schiena dove ha subito quattro interventi chirurgici, e di ordine psichico. Dopo una lunga convalescenza, recentemente il campione di golf ha annunciato il suo ritorno sui campi verdi, convinto a 41 anni di tornare a essere il numero uno al mondo, ma l’abuso di antidolorifici e il ricorso abbondante al consumo di alcol, nel quale affonda le sue angosce, hanno costituito una miscela esplosiva, che l’hanno portato in una cella. L’immenso patrimonio economico, non ha impedito a Tiger Woods di sfuggire ai problemi che attanagliano la sua salute mentale.
A FINE CORSA
Anche Rio Ferdinand, dal 2002 al 2014 colonna portante della difesa del Manchester United, pluripremiata compagine inglese in Europa e nel mondo, ritiratosi definitivamente dai campi di calcio il 30 maggio del 2015, ha dichiarato di soffrire di una grave depressione e ha messo a disposizione il suo impegno per la campagna che sta promuovendo l’Associazione mondiale dei calciatori sulla salute mentale dei giocatori. Quello degli sportivi che non si rassegnano al tramonto della loro carriera è un problema che dovrebbe essere seriamente affrontato dal mondo dello sport, a cominciare dai media, per sensibilizzare l’opinione pubblica, e finire agli organismi nazionali e internazionali per dar vita a strutture di sostegno per la salute mentale dei campioni e anche di quelli meno noti, in modo tale da fornire gli strumenti per gestire meglio l’uscita di scena dai grandi palcoscenici dello sport. In Italia il problema grava sull’Associazione calciatori, diretta da Damiano Tommasi, che cerca di fare opera di informazione, ma che trova del tutto insensibile le società di calcio, le quali dovrebbero farsi carico del problema, visto che i calciatori hanno contribuito a fare grande la storia di alcune squadre, e in forma minore anche di quelle meno note. E se fosse il Grande Capitano Francesco Totti a offrirsi per avviare una campagna di sensibilizzazione sulla salute mentale degli ex calciatori? Potrebbe essere un modo per ricominciare a giocare sul serio e fare gol alla depressione e all’ansia.