domenica 4 giugno 2017

SULLA STAMPA DI DOMENICA 4 GIUGNO:


il manifesto 4.6.17
L’ultima settimana dell’Unità
Editoria. Dallo sciopero record di otto giorni alla sospensione delle pubblicazioni


Solo il 25 maggio scorso l’Unità era tornata in edicola dopo uno sciopero record di una settimana. I giornalisti e i lavoratori avevano risposto in questo modo a un duplice «ricatto»: il primo è quello dei licenziamenti collettivi, il secondo un «odioso baratto tra salari e diritti» imposto dall’editore: per ottenere gli stipendi i dipendenti avrebbero dovuto convincere ex colleghi che avevano impugnato i loro crediti davanti a un giudice del lavoro di rinunciare alle loro spettanze.
La settimana successiva è stata un calvario.
Lo stampatore del giornale ha fermato le rotative perché non è stato pagato dall’azienda per mesi. I giornalisti hanno lavorato per un giornale che non è arrivato in edicola. Giovedì notte è arrivata la notizia della sospensione delle pubblicazioni e l’intenzione dell’azienda di trattare con il sindacato sugli ammortizzatori sociali.
Ai lavoratori, in sciopero ad oltranza, potrebbero essere garantiti 24 mesi di cassa integrazione e altrettanti di disoccupazione. Per farlo c’è bisogno di un accordo con il sindacato.
Mercoledì prossimo ci sarà un incontro con la Fnsi.
Trovata l’intesa ci sarà l’effettiva sospensione delle pubblicazioni. Se il giornale tornerà in edicola sarà, in seguito, necessario un altro accordo. Nel frattempo il rischio del fallimento si è fatto più reale. Il Cdr ha criticato il silenzio del segretario del Pd Renzi sulla vicenda: «ha ferito tutti», ci chiediamo se anche di fronte alla decisione dell’editore proseguirà la scelta del silenzio».

il manifesto 4.6.17
Macaluso: «Non chiamatela Unità: a Renzi non serve un giornale di partito»
Intervista. L’Unità ha sospeso le pubblicazioni. Emanuele Macaluso, già direttore della storica testata fondata da Antonio Gramsci: «Il Pd è un aggregato elettorale al servizio di un leader che ha già Tv, tweet e interlocutori nei grandi media». Ma esiste la possibilità di giornali politici che si rivolgano alla sinistra «con autonomia politica e culturale»

di Roberto Ciccarelli

La Piesse, che detiene la quota di maggioranza della società editrice dell’Unità insieme a Eyu che fa capo al Partito Democratico, ha interrotto le pubblicazioni del quotidiano. In una lettera inviata al segretario della Federazione nazionale della Stampa (Fnsi) Raffaele Lorusso l’azienda ha confermato la decisione di interrompere volontariamente la pubblicazione e ha annunciato la volontà di ricorrere agli ammortizzatori sociali in attesa di portare a termine «la ristrutturazione aziendale». Lo storico quotidiano non sarà più in edicola e i suoi giornalisti resteranno in sciopero ad oltranza. Mercoledì è previsto un incontro tra l’editore e la Fnsi.
Emanuele Macaluso, 93 anni, già direttore del quotidiano dal 1982 al 1986, ha scritto su facebook «Smettete la pubblicazione de L’Unità “fondata da Antonio Gramsci”. Volete fare un giornale? Nessuno ve lo impedisce. Fatelo, ma con un’altra testata». Per questo giornale è la fine?La fine ha una data più antica: il 1991 quando il Partito Comunista è stato sciolto. Dopo la testata si è trascinata con una serie di proprietà editoriali incerte e con direttori che non hanno avuto un rapporto con la storia del giornale, né erano iscritti al partito. Venivano anche da Repubblica che era il nostro concorrente. La situazione è peggiorata man mano che il partito di riferimento ha cambiato il nome: Pds, Ds fino al Pd, formato con pezzi della Margherita provenienti dalla Democrazia Cristiana con l’obiettivo, secondo me sbagliato, di costruire una forza di centrosinistra A mio avviso il tentativo non è riuscito. Gramsci ha fondato il giornale per dare forza a un partito comunista. Nel frattempo il partito ha cambiato radicalmente identità. Da forza sociale è diventato un aggregato politico elettorale al servizio del leader.
Renzi non si è mai dato molta pena per sostenere il giornale del suo partito. Come spiega la sua indifferenza?
Lui ha una altra visione della comunicazione, la Rai, Twitter, Facebook, il rapporto con alcuni giornalisti che influenzano la grande opinione. Non gli serve l’Unità. Ha un altro modo di fare politica che non c’entra nulla con la storia del giornale.
Con Staino alla direzione c’è stato un tentativo di fare un giornale di sinistra…
Il povero Staino ha provato a farne uno non identificabile con Renzi, ma si è scontrato con una situazione economica difficile. I costruttori che hanno rilevato la maggioranza del giornale non lo hanno fatto perché amavano la sua storia, ma perché probabilmente pensavano di ottenere qualche vantaggio. Non so se li hanno avuti, mi sembra di no, e c’è stata anche una rottura. Non hanno voluto investire, hanno caricato di debiti il giornale, non hanno pagato lo stampatore. I giornalisti hanno denunciato il ricatto al Cdr che doveva convincere gli ex colleghi a rinunciare ai diritti sanciti dal giudice del lavoro per sbloccare gli stipendi ai dipendenti. Un giornale non può vivere con editori che pensano ai loro affari e un Pd con un segretario che non ha nessun interesse a un giornale aperto a sinistra
E ora?
Se ho capito bene il giornale sospende le pubblicazioni, mentre si pensa alla cassa integrazione. Per il resto se ne riparlerà a settembre o a ottobre. Un giornale che vendeva si e no poche migliaia di copie e aveva una redazione di 28 persone ha messo i giornalisti in una situazione imbarazzante e giustamente ora rivendicano la loro professionalità. È una situazione molto amara. Il giornale secondo me è finito.
Circola un’ipotesi di Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. La ritiene un’ipotesi credibile?
Non so se la voce è attendibile, io l’ho pubblicata. A meno che non faccia un giornale per Renzi. Ma non l’Unità, lo chiami diversamente, un titolo lo si può sempre trovare. Non credo che uno con l’esperienza di Maurizio si vada a cacciare in questa avventura. Forse qualcuno l’avrà anche proposto, ma bisogna vedere se sarà una soluzione.
Quando ha scritto il suo primo articolo per l’Unità?
Nel 1941 quando aderii al Pci a Caltanissetta. Era un articolo sui minatori della città.
Dopo la guerra Togliatti disse che l’Unità doveva essere il «Corriere della sera dei lavoratori». Cosa intendeva dire?
Il giornale doveva costruire il partito nuovo, contendere l’egemonia sul mondo del lavoro alla borghesia, avere un ruolo di battaglia culturale nella formazione della classe dirigente. Era un giornale di battaglie politiche e sociali su cui scrivevano anche scrittori come Calvino o storici come Paolo Spriano.
Quando è arrivato alla direzione che giornale ha trovato?
Tiravamo ancora centinaia di migliaia di copie. Per farle capire che giornale eravamo, io da direttore feci stampare un milione di copie in occasione di un primo maggio. Allora era possibile, c’era una diffusione di massa e un radicamento del partito. Tutto questo finisce con il Pci.
Esiste ancora una funzione per un giornale di partito?
No, non credo che possano esserci più giornali di partito. Il problema è che non ci sono i partiti con un insediamento sociale, una militanza che fa battaglie politiche e culturali. Esistono forze leaderistiche che non hanno un asse politico-culturale a partire dal quale un giornale può lavorare.
Ciò non toglie che si possa fare un giornale politico di sinistra…
Non c’è più un partito di sinistra di massa, ma la sinistra continua a esistere. Il problema, che vorrei porre anche a voi de Il Manifesto, è che bisognerebbe interpretare più ampiamente questa area. Un giornale di area di sinistra, e non di partito, che non faccia un’operazione pro-Renzi ma che abbia un’autonomia politica e culturale. Può reggere, ma dev’essere un foglio di battaglia politica come, all’opposto, fanno oggi a destra.

il manifesto 4.6.17
Hitler, discepolo di Platone
Storia moderna. Contro la tradizione di Humboldt e Schlegel, che situava la culla della civiltà in oriente, il nazismo ne assegnò la Urheimat al nord: Johann Chapoutot, «Il nazismo e l’antichità», Einaudi
di Francesco Benigno


Nel prologo di Olympia, il lungometraggio che Leni Riefenstahl girò sui giochi olimpici di Berlino, nell’agosto 1936, una fitta bruma lentamente si dissolve e ne emergono i lineamenti di un tempio greco; poi, a seguire, le immagini di statue di marmo antico, figure di dei e di eroi. Lo sguardo scivola sulle superfici bianche e mostra come, pian piano, la pietra marmorea si animi trasformandosi in carne viva: in particolare, la figura del discobolo, copia del famoso originale in bronzo del V secolo a.C. (andato perduto) di Mirone, si trasforma nel decathleta tedesco Erwin Huber.
La regista non indugia sul discobolo per caso. Tutti sapevano quanto Hitler fosse affascinato da quella statua e infatti in quello stesso anno, superata la concorrenza del Metropolitan Museum di New York, comprò il famoso «discobolo Lancellotti», straordinaria copia romana di età antonina (II sec. d. C.) che venne esposta al pubblico alla Glyptothek di Monaco come dono del Führer al popolo tedesco. Nell’importante discorso di presentazione, Hitler sostenne che «potremo parlare di progresso solo quando raggiungeremo tale bellezza e se possibile quando l’avremo superata».
Il libro del giovane e brillante storico francese Johann Chapoutot, Il nazismo e l’antichità, appena uscito da Einaudi (traduzione di Valeria Zini, pp. 526, euro  34,00) si interroga sulle ragioni profonde della fascinazione nazista per l’antichità classica: molto più significativa di una semplice predilezione estetica, essa si rivelò, com’è noto, parte del nocciolo duro dell’ideologia razzista.
L’impostazione di Chapoutot segna, tuttavia, una svolta culturale: la storiografia contemporaneistica, infatti, più che indagare l’inclinazione nazista per la civiltà classica, ha preferito rivolgersi all’attrazione culturale per il magico e il superomistico che venne alimentata da un Medioevo di maniera e dai programmi di ricerca archeologica dell’Ahnenerbe, la società scientifica creata da Himmler per indagare, tra antiche rune e resti di sacrifici celtici, le radici dell’identità ariana. Hitler, allievo dei gesuiti e accanito lettore di storia antica, rideva tuttavia della passione per gli antichi Germani dalle lunghe barbe fluenti, vestiti di pelli di animali e ricoperti dal tradizionale elmo con le corna; e non esitava a definire la germanomania di Himmler una propensione völkisch, popolareggiante, insieme kitsch e piccolo-borghese: egli «vuol farle proprio vedere queste capanne di fango e cade in ammirazione davanti a ogni coccio d’argilla e ad ogni ascia di pietra che gli capita fra i piedi. In tal modo non facciamo che proclamare a tutto il mondo che, quando la Grecia e Roma avevano ormai raggiunto un livello culturale elevatissimo noi eravamo bravi soltanto a lanciare asce di pietra o a starcene accovacciati intorno a fuochi all’aperto».
Con grande efficacia, Chapoutot mostra come queste parole fossero rese possibili da un vero e proprio programma di annessione culturale dell’antichità classica, basato sul mito dell’appartenenza etnica comune di greci, romani e tedeschi a un’unica razza ariana. Venuti dal nord, gli ariani avrebbero a più riprese portato la linfa necessaria alla civiltà classica, e se i dori avevano rivitalizzato un mondo miceneo, in origine ariano ma poi in decadenza, anche i romani – sia pure meno perfettamente – sarebbero stati rianimati dai trasferimenti delle popolazione nordiche, con gli occhi azzurri e i capelli biondi. Ma era una arianità opportunamente rivisitata: infatti, mentre la tesi classica, originata dalla scoperta del sanscrito e dei legami linguistici con le lingue europee, allocava sulle rive del fiume Indo l’originaria formazione della civiltà detta appunto indo-germanica, il nazismo, riprendendo alcune tesi nazionaliste tardo-ottocentesche, aveva elaborato la teoria di una comune derivazione ariana di tutte le grandi civiltà: discendenti come rami di uno stesso tronco razziale, cresciuto nel nord europeo e poi propagatosi a sud, sulle rive del Mediterraneo.
entre tutta la illustre tradizione culturale tedesca fondata da Humboldt e da Friedrich Schlegel aveva sostenuto che la culla della civilizzazione era in oriente, ora il nazismo proponeva l’idea di una razza superiore che aveva la sua Urheimat, o patria originaria, nell’Europa del Nord, tra la Germania settentrionale e la Scandinavia, le stesse terre dove si voleva fosse situata la perduta Atlantide o la mitica Ultima Thule.
Il decisivo apporto ariano, contributo prometeico all’umanità, non si sarebbe dunque compiuto mediante il classico tragitto da oriente ad occidente – quello stesso percorso che Hegel aveva assegnato al Weltgeist, lo spirito del mondo – ma secondo un movimento da nord a sud: non ex oriente lux bensì ex septentrione lux. L’invenzione nel 1936 della cerimonia dei 3400 tedofori che in dodici giorni portarono a staffetta la fiamma olimpica dalle rovine dell’antica città greca al villaggio tedesco frontaliero di Hellendorf, e poi a Berlino, acquista così il suo vero senso.
La fiamma della civiltà (in Grecia si usava, partendo per una nuova colonizzazione, portare con sé la vampa del focolare) ripercorreva ora a ritroso il sentiero dell’emigrazione ariana fino a toccare finalmente la sua originaria sorgente settentrionale.
Lo scenario ideologico in cui tutto ciò si svolgeva era dominato dalla lotta millenaria delle razze, una costruzione mitica cui l’accademia tedesca, rapidamente arresasi alle pressioni politico-ideologiche del regime, fu chiamata a dare legittimazione, convertendo la narrazione favolistica in discorso pseudo-scientifico: a questa trasmutazione ignobile concorrevano – oltre alla storia – la biologia e, sia pure con qualche resistenza in più, la filologia e le scienze dell’antichità. Il tradizionale filo-ellenismo della cultura tedesca veniva così reinterpretato in chiave razziale attraverso un gioco di polarizzazioni e di schiacciamenti spazio-temporali: da una parte Platone, il filosofo elitario teorizzatore di una repubblica oligarchica di filosofi soldati e di produttori e dall’altro Socrate riletto come «socialdemocratico internazionalista»; da una parte Cristo, profeta dell’arianesimo e dall’altra l’ebreo Paolo, «commissario» bolscevico del Cristianesimo, sabotatore dell’impero romano in nome dell’uguaglianza degli uomini di fronte a Dio; su un versante Sparta, modello dello stato razziale e eugenetico, sull’altro Atene, portatrice dell’infezione democratica; di qui l’Europa fulcro della grande civiltà della Herrenrasse, la razza superiore, e di là l’Asia barbara, focolaio della confusione delle razze, del crogiuolo ellenistico, del mescolamento etnico, della degenerazione.
La visione del regime, espressa in testi scientifici, manifesti propagandistici e manuali scolastici, delinea un cosmo nettamente diviso: da un lato il mondo chiaro apollineo e nordico della «magnifica bionda bestia avida di preda e di vittoria», dall’altra l’oscuro e sfrenato universo dionisiaco da cui nasce il complotto giudeo-cristiano. Passato e presente si fondono confondendosi, e la storia svela la sua fondamentale funzione performativa: le guerre puniche combattute da Roma contro la cripto-semitica Cartagine si reincarnano nelle guerre del III Reich e l’accanita difesa della VI armata del generale Paulus nella battaglia di Stalingrado è assimilata all’eroica resistenza di Leonida alle Termopili, in un gioco di specchi senza fine in cui Hitler è Scipione o Augusto e Stalin Annibale o Serse.
Solo prendendo sul serio questa visione metastorica è possibile spiegare l’atteggiamento di Hitler e della classe dirigente nazista nell’ultima fase della guerra, quando il regime si lanciò prima nella strategia della terra bruciata, poi in una sorta di cupio dissolvi, tramandataci da un altro importante storico, Joachim Fest, come pulsione nichilista.
Già in articolo apparso nel 2007 sulla «Revue Historique» e intitolato «Comme meurt un empire», e ora in questo suo ultimo libro, Chapoutot offre una spiegazione più convincente: Hitler credeva di ritrovarsi protagonista di una lotta millenaria che avrebbe proposto, ciclicamente, sempre gli stessi protagonisti: così, se non era possibile sterminare il proprio nemico biologico, bisognava almeno escludere ogni marcia indietro, ogni ritirata, e acconciarsi a morire come si deve, lasciando ai posteri la testimonianza di rovine altrettanto grandi e foriere di insegnamenti come lo erano state quelle greche e romane.
Il rovinismo è un programma escatologico, equivale al rendersi immortali attraverso la propria morte. Se la Germania, nuova Roma, non poteva trionfare doveva bruciare, come la città di Nerone, perché la storia dello scontro tra le razze sarebbe – secondo l’ideologia nazista non ancora dovunque tacitata – continuata ancora, mossa da un eterno ritorno.

Repubblica 4.6.17
Appello di Libertà e Giustizia per una nuova sinistra
L’associazione si rivolge ai cittadini “sfiduciati dalla politica” con un appello di Montanari, Zagrebelsky e Bonsanti
L’invito è di aprirsi di più alla società civile e ai comitati che si erano mobilitati per il referendum del 4 dicembre Il problema è riportare al voto quelle persone di sinistra che non si riconoscono nel Pd e nel Movimento Cinque Stelle
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA. Libertà e Giustizia fa un appello alla sinistra: perché non disperda il patrimonio di partecipazione del referendum del 4 dicembre, combatta una legge elettorale che sembra voler riproporre un Parlamento di nominati e ritorni ai principi di uguaglianza e giustizia sociale che negli ultimi anni sembra aver abbandonato.
L’associazione — nel testo firmato da Sandra Bonsanti, Tomaso Montanari e Gustavo Zagrebelsky — ricorda di non aver mai preso parte direttamente alle contese elettorali, e di non volerlo fare, «ma la sua è “cultura politica” e ciò la obbliga a dire che la più vasta possibile unione, che sorga fuori dai confini dei partiti tradizionali tra persone che avvertono l’urgenza del momento e non siano mosse da interessi, né tantomeno da risentimenti personali, è necessario come servizio nei confronti dei tanti sfiduciati nella politica e nella democrazia ». Per questo è «pronta a partecipare al dibattito e alle iniziative in vista delle prossime elezioni».
Secondo Montanari, però, quel che sta crescendo intorno a Giuliano Pisapia non sembra andare in questa direzione. «Quando dice che a Corbyn preferisce Blair, o che candiderebbe Giorgio Gori alla guida della Lombardia, vedo che il discorso resta ancora interno al palazzo. Che si continua a pensare che si vinca al centro. Cosa vuol dire Alleanza per il cambiamento? Siamo al marketing, al renzismo senza Renzi. Anche la riforma Boschi era cambiamento, ma bisogna dire come si vuole cambiare, e non sono sicuro che chi ha sostenuto il Sì al referendum sia la persona giusta. Vogliamo una tassazione progressiva? Una patrimoniale? Vogliamo metterci dalla parte dei sommersi, e non dei salvati?». L’invito è ad aprirsi di più alla società civile e alle associazioni che si erano mobilitate per il referendum. A non far sì che la lista nascente sia un arcobaleno di classe politica da riciclare.
Il presidente di Libertà e Giustizia ricorda il «radicalismo costituzionale» dell’associazione. Che nell’appello parla di un Pd che «si logora in tattiche di sopravvivenza, incurante della sua tradizione riformatrice e della sua storia, una storia che fu a favore della giustizia sociale e contro il privilegio». Condanna «la riproposizione dell’alleanza con Forza Italia», e teme «il ritorno a un passato tutt’altro che glorioso, segnato da interessi inconfessabili, da scandali che non finiscono di indignare e da conseguenti manovre per impedirne la conoscenza e la discussione nel dibattito pubblico».
«I maggiori partiti — si legge nell’appello — si presentano non con i tratti della partecipazione dei cittadini, ma con quelli della personalizzazione nella figura del capo». Ancora: «Piccole oligarchie di partito formano tra loro un’oligarchia grande e autoreferenziale». La legge elettorale di cui si discute è «la dimostrazione di una classe politica che si sente assediata e, invece di aprirsi alla democrazia, se ne difende rinchiudendosi sempre più su se stessa». Perché «s’era detto no al Parlamento dei nominati e saranno tutti nominati. S’era detto no alle candidature plurime e sono rimaste». Un sistema che «è scandaloso».
«Anche i 5 stelle sono ormai dominati da un’oligarchia», dice Montanari. E spiega: «Siamo nella situazione paradossale in cui da una parte c’è il Pd insieme a Forza Italia, e dall’altra il Movimento 5 stelle. Chi non vorrà votare nulla di tutto questo cosa vota? La vera sinistra dovrebbe porsi questo problema, quello di riportare a votare la metà di cittadini che non votano più perché non trovano alternative».

Corriere 4.6.17
Sistema sempre meno tedesco Il Parlamento si prepara alla carica dei «nominati»
Dino Martirano


Nel Pd l’idea di liste «corte» per salvare i migliori perdenti

ROMA Parla sempre meno tedesco la legge elettorale in votazione alla Camera che si ispira alle regole varate nel lontano 1949 per eleggere il primo Bundestag. Correzione dopo correzione, l’originale rimane sullo sfondo anche se il testo concordato da Pd, FI, M5S e Lega ruota intorno alla soglia di sbarramento del 5% che in Germania seleziona l’ingresso in Parlamento delle forze politiche minori. Tutto il resto, invece, balla.
Ora è saltata anche la proporzione fifty-fifty tra i deputati eletti nei collegi uninominali e quelli trainati in Parlamento dai listini bloccati: i primi saranno il 37% e i secondi il 63%, con 78 seggi in più riservati ai «nominati» che potrebbero arrivare a quota 381 su 618 (630 con i 12 eletti all’estero).
L’ultimo accordo siglato da Pd, FI, M5S e Lega che — stando ai sondaggi — sarebbero gli unici partiti a essere rappresentati in Parlamento con la nuova legge, prevede che i collegi uninominali scendano da 303 a 225 (233 se si considerano gli 8 del Trentino nei quali si vota con la legge Mattarella). Aumentano invece (da 27 a 29) le circoscrizioni in cui presentare i listini del proporzionale.
Tante variazioni in corso d’opera dipendono ufficialmente dal fatto che Pd e M5S rischierebbero di dover dire «Grazie, avevamo scherzato...» a decine di candidati vincenti nei collegi e poi costretti a rimanersene a casa perché i seggi sono già tutti occupati. I cosiddetti «sovranumerari».
In Germania, il problema è risolto con il numero variabile dei deputati ma la nostra Carta non prevede questa elasticità. Per cui, onde limitare il rischio di avere decine di eletti a perdere, è stato concordato di tagliare 71 collegi e, contestualmente, di aumentare il numero delle circoscrizioni (una in più, rispettivamente in Lombardia e in Veneto) con un incremento del 13% dei posti nei listini blindati dai partiti.
M5S (senza fare barricate che metterebbero a rischio l’accordo) e Articolo 1 insistono poi sul «voto disgiunto come in Germania» — che permetterebbe di votare il candidato uninominale ma non necessariamente il partito collegato — però Pd e FI hanno alzato un muro a difesa di una sola «X» sulla scheda capace di trascinare partito, listino e candidato uninominale.
E ancora. Sulle pluricandidature (lo stesso «vip» viene schierato in un collegio e in tre listini) Forza Italia, che farà eleggere tutti i parlamentari sui listini, sta puntando i piedi contro il ritorno al modello tedesco autentico che ne prevede una sola. Il problema sembra riguardare il M5S, che attaccò le pluricandidature dell’Italicum, mentre il Pd, conferma il capogruppo Ettore Rosato, «non le utilizzerà».
Ma il tema interessa anche Ap, spiega Peppino Calderisi, ora consulente di rango di Angelino Alfano: «Con una pluricandidatura, per i piccoli, ove si superasse la soglia del 5%, passerebbero solo i candidati del listino, cioè la nomenclatura... Invece con tre pluricandidature si rimetterebbero in gioco anche i migliori perdenti nei collegi». Questo per dire che Ap, come Mdp, rischia di non trovare i candidati per i collegi se questi sono considerati persi al 100% in partenza.
In Germania le liste, lunghissime, sono il frutto di una selezione regolata da veri partiti dotati di statuti e strutture. Ora il «listino» (corto necessariamente dopo al sentenza della Corte 1/2014) al Pd piace ancora più corto: «La dimensione del listino — spiega Rosato — per noi sarà variabile in modo da consentirci di recuperare alcuni migliori perdenti nei collegi».
Come dire che anche il Pd, davanti a tanti «nominati», deve offrire una chance a chi viene chiesto di schierarsi nei collegi insicuri.
In commissione si vota (ma verrà respinto) anche l’emendamento di Pino Pisicchio (Misto) per il ritorno al «tedesco», seppure con preferenze per la quota proporzionale.

Repubblica 4.6.17
La riforma che mette la camicia di forza al Senato
Eugenio Scalfari


IPOLITICI che guidano i partiti, gli studiosi che ne osservano le mosse con attenzione e i giornalisti che riferiscono al pubblico ciò che accade sono in queste ore più che mai attenti alla legge elettorale in discussione, che dovrebbe essere approvata, dopo l’accettazione o l’abolizione di qualche centinaio di emendamenti (tutti di scarso rilievo) entro un mese. Parliamo naturalmente dell’Italia. Ci sarebbero altre questioni internazionali di grande interesse, ma oggi ne faremo a meno in questa sede, il giornale le esamina tutte in altre pagine.
Sulla legge elettorale i pareri tra i politici e chi li esamina sono diversi. I politici delle tre principali formazioni operanti in Parlamento e cioè il Pd, Forza Italia con Salvini e Meloni, il Movimento 5 Stelle, sono per il cosiddetto modello tedesco che ha come base il criterio proporzionale. Gli osservatori sono alquanto critici sul proporzionale e preferirebbero il maggioritario. Il dibattito è in pieno svolgimento ma corre un rischio: non è affatto chiaro, per la pubblica opinione che segue quanto sta avvenendo politicamente, in che cosa consista la differenza. Proporzionale o maggioritario: che cosa vuol dire in concreto? E poi c’è un altro problema, ancor più rilevante: il modello tedesco, comunque rammendato, riguarda la Camera o il Senato? Comincio a rispondere a questa seconda domanda.
LA LEGGE in corso di discussione riguarda entrambe le Camere le quali, a questo punto, avrebbero una sola differenza tra loro: l’età degli elettori chiamati a votare: alla Camera si vota dai 18 anni, al Senato dai 25. La differenza è di 7 anni, quindi il numero degli elettori è minore al Senato e anche il numero dei senatori è minore. Questa dell’età è una differenza che c’è sempre stata, ma ci sono state finora anche altre diversità notevoli nelle rispettive leggi elettorali. Questa volta invece non ce ne sarà nessuna.
La prima (e molto grave) considerazione su questo punto è la seguente: il referendum del 4 dicembre scorso prevedeva un sistema monocamerale. Il Senato esisteva ancora ma con dei compiti in gran parte dedicati alle Regioni e alle loro competenze. I senatori erano scelti tra i consiglieri regionali con il voto di ciascuna Regione. Era previsto che andassero in Senato per un paio di giorni alla settimana e poi rientrassero nelle Regioni di provenienza riassumendo il compito regionale.
Tutti ovviamente ricordiamo che il suddetto referendum, voluto da Renzi e dal suo partito, fu contraddistinto da un’affluenza eccezionale che superò il 65 per cento dell’elettorato e fu vinto dai “No” col 60 per cento dei voti contro i “Sì” (renziani) che non superarono il 40 per cento. Una sconfitta sonora che ha influito sui fatti politici successivi sui quali ora ci intratterremo.
Ma il punto grave, anzi gravissimo, è il seguente: la legge elettorale in discussione attualmente regola sia la Camera sia il Senato, il quale dopo il referendum suddetto ha riconquistato la sua sovranità. Ne deduco che il Senato dopo l’applicazione del modello tedesco sarà identico o con piccolissime differenze alla Camera, quindi un duplicato, salvo l’età degli elettori e degli eletti. Il risultato del referendum del 4 dicembre verrebbe perciò superato: avremmo due Camere con simili meccanismi di formazione. È costituzionale questa situazione? Qualora la Corte fosse investita del problema, quale sarebbe il suo giudizio? E quale quello del presidente della Repubblica sull’intera legge visto che a lui spetta, una volta che il Parlamento abbia varato la legge elettorale, di firmarla oppure di rinviarla alle Camere?
Ci sono molti altri temi italiani da discutere ma questo intanto l’abbiamo posto per primo perché è di grandissimo peso.
***
Un’altra questione cui abbiamo già accennato nelle righe iniziali di questo articolo e che dobbiamo adesso esaminare è la differenza tra un sistema elettorale proporzionale e uno maggioritario. Molti osservatori preferiscono il maggioritario, ma che cosa significano quelle due parole? Il significato del proporzionale è chiaro: gli elettori danno il voto a un candidato o a un partito che presenta dei candidati e quelli vengono eletti proporzionalmente.
Questo è il proporzionale, ma il maggioritario che cos’è? La risposta più elementare: viene eletto chi prende più voti in un collegio o si conferisce un premio in seggi a chi ha superato un certo limite. La legge attuale ancora in vigore per la Camera attribuisce questo premio a chi superi il 40 per cento dei voti espressi e ottiene in quel caso il 55 per cento dei seggi della Camera. Il modello tedesco non prevede nulla di simile e ha altri modi per premiare, il più evidente dei quali riguarda i poteri del leader del partito vittorioso, che diventa Cancelliere. Così si chiama il primo ministro e i suoi poteri sono pressoché totali, perfino dal punto di vista costituzionale. Il presidente della Repubblica, eletto dalla Camera, è un personaggio onorabile e puramente rappresentativo che può soltanto suggerire talvolta al Cancelliere un qualche intervento e nulla più.
Da questo punto di vista il maggioritario non è possibile in Italia perché i poteri del nostro presidente del Consiglio sono indicati dalla Costituzione e sono alquanto limitati da un presidente della Repubblica che non è affatto un burattino. Del resto basta ricordare i nomi di quelli che hanno occupato quella carica fin dall’inizio della nostra storia repubblicana: Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Vi sembrano nomi da poco la cui influenza è stata sulla vita del Paese pressoché nulla, oppure nomi determinanti taluni nel male ma la maggior parte per fortuna nel bene dell’Italia?
Quindi il modello tedesco non è attuabile nella sua essenza, impone alla nostra classe politica di prevedere delle alleanze a elezioni avvenute. Questo rende ancor più difficile la situazione perché non si tratta di alleanze che si trasformano in coalizioni e come tali vanno al voto, bensì di operazioni successive al voto anche se fin d’ora gli interessati ne stanno discutendo tra loro. E chi ne sta discutendo? Ovviamente Renzi con Berlusconi. Lo scrivono e lo dicono tutti i giornali e le televisioni; prove naturalmente non ce ne sono o meglio trafilano attraverso amicizie comuni e bene informate, ma comunque la realtà impone questo tipo di alleanze. Il Movimento 5 Stelle resterà inevitabilmente da solo perché se facesse un’alleanza con un’altra importante forza politica si dissolverebbe entro pochi giorni. È un movimento, quello 5 Stelle, che è nato per esser solo e da solo può conseguire un risultato ma non in compagnia: essendo votato da elettori con sentimenti di sinistra o di destra o di centro o di totale indifferenza ma necessità di esprimerla, l’accordo con un’altra forza politica ben determinata come collocazione farebbe saltare in aria il grillismo.
Perciò al Pd, per conquistare un’alleanza importante che superi in questo modo il proporzionalismo e acquisti quel tanto necessario di maggioritario, non resta altro che Berlusconi.
Un Berlusconi però senza Salvini perché Salvini sarebbe indigeribile per il Partito democratico. Già Berlusconi crea qualche difficoltà agli stomaci ma superabile perché è la sola via d’uscita per riconquistare il maggioritario in un sistema totalmente
proporzionale.
Questo tema si potrebbe però risolvere in un altro modo, molto più democraticamente accettabile. Ed è il seguente con una brevissima premessa: il Partito democratico è sempre stato chiamato e si è così anche definito di centrosinistra. Non di sinistra. Due parole alle quali Walter Veltroni che lo fondò dopo l’Ulivo ne aggiunse un’altra: riformatore. Quindi un partito di sinistra che cerca di raccogliere i voti della sinistra combinandoli insieme ai voti di centro che hanno un carattere più moderato. Ma riformatore è anche il centro. Queste cose bisognerebbe rileggerle in Democrazia e libertà di Tocqueville. Lì si apprenderebbero molte cose estremamente moderne e utili per quello che sta accadendo qui da noi ma che in parte (in gran parte) è accaduto anche con la vittoria di Macron in Francia. Se andassimo a guardare la struttura del suo governo e la sua composizione, ci accorgeremmo che Macron ha messo insieme dalla destra alla sinistra, passando per vie e comunità intermedie, un governo molto moderno che si dovrà occupare di ricchi e di poveri, di tasse e di spese, di disuguaglianze da colmare, di capitalismo da vivacizzare e di occasioni di lavoro crescente. Il tutto sotto la bandiera tricolore e quella a stelle dell’Europa, perché Macron vuole rafforzare l’Europa.
Se avessimo un Macron italiano! Personalmente ho sperato per qualche tempo che lo fosse Renzi, ma ne sono stato purtroppo deluso. Renzi vuole comandare da solo. Macron non comanda da solo anche perché non è il primo ministro ma il presidente della Repubblica. Ha poteri propri: la politica estera e la difesa. E si vale di esperti di grandissimo livello. Per il resto ha un governo che è appunto composto da tutte le forze costituzionali che abbracciano l’intero quadro della classe dirigente del Paese.
La situazione in Italia è molto diversa e purtroppo, come abbiamo già visto, le alleanze fatte dopo le elezioni porteranno molte coalizioni e non sappiamo quanto dureranno. Se fossero state fatte prima (e sarebbe ancora possibile introdurle nella legge in discussione), la situazione sarebbe decisamente diversa. Renzi dovrebbe allearsi con un Pisapia e tutta quella sinistra che lo seguirà (i cui elettori saranno probabilmente molto più numerosi di quanto si pensi) e aggiungere a questa di sinistra un’alleanza al centro con Alfano e Parisi: insomma il centro moderato che è perfettamente consono a un partito che non a caso si definisce riformatore di centrosinistra. Questo dovrebbe essere l’obiettivo. Temo che non ce la faremo a vederlo.
Caro Matteo, dei libri che ti ho consigliato temo che tu non ne abbia letto una riga perché sei molto occupato in altre cose. Ma dovresti fare uno sforzo almeno per il Tocqueville che ho sopra ricordato. Quello sembra scritto per te. Fai questo sforzo nel tuo interesse che sarebbe, se fosse ben considerato da te medesimo, anche l’interesse del Paese e soprattutto non ti mettere in testa di far fuori Gentiloni a ottobre, questo sarebbe un altro drammatico errore.

Repubblica 4.6.17
La legge elettorale
Tedesco, i partiti corrono ai ripari frenata sui candidati kamikaze
Accordo sul testo del Pd che riduce i collegi ma blinda i vincitori Il nodo pluricandidature. Centristi contro Renzi: “Intervenga il Colle”


ROMA. Alle 20 la seduta si è sciolta, ieri era la serata della finale di Champions. Ma la commissione Affari costituzionali della Camera riprenderà questa mattina l’esame dei 780 emendamenti presentati alla legge elettorale. Una maratona che proseguirà anche domani per licenziare il testo e portarlo in aula martedì nella migliore delle ipotesi. La cordata composta da Pd, Forza Italia, Lega Nord e M5S punta sul sistema tedesco, con sbarramento al 5%, ma corretto con alcune modifiche.
Cominciata alle 16, un’ora e mezzo di ritardo rispetto al previsto, la riunione di ieri ha affrontato alcuni dei nodi più insidiosi anche se non si è cominciato a votare. Innanzitutto la perimetrazione dei collegi elettorali. Perché il nuovo sistema elettorale prevede che i capilista bloccati abbiano la precedenza, cioè vengano eletti prima di chi ha vinto nel proprio collegio, che potrebbe anche rimanere senza seggio. Un elemento che, secondo molti giuristi, esporrebbe la legge a rischi di incostituzionalità, causando ritardi inconciliabili con l’ipotesi di andare alle urne a fine settembre. Per questo Pd, Forza Italia e 5Stelle hanno concordato nella notte di venerdì un subemendamento, presentato formalmente dal dem Alan Ferrari, che alla Camera riduce il numero dei collegi da 303 a 225 (più 8 di Trentino Alto Adige e Valle D’Aosta), stoppando i candidati kamikaze e garantendo a chi vince di entrare. Ma FI si è sfilata all’ultimo momento e ha chiesto più tempo. Per riflettere sia sul ridisegno dei collegi sia sulle pluricandidature, tema che vede contrapposti FI e M5S. Fiano infatti ha messo da parte due proposte una dei grillini e un’altra a prima firma degli orlandiani Giuseppe Lauricella e Gianni Cuperlo - che prevedono la riduzione delle pluricandidature. Respinto invece l’emendamento di Alternativa popolare che chiedeva di aumentarle.
C’è intesa invece sui listini corti delle circoscrizioni, che vanno da 1 a 6 candidati, ma presentabili anche con un solo nome. Mentre non si è trovato l’accordo sul voto disgiunto, richiesto dai pentastellati ma anche da Mdp e Sinistra italiana, sul quale però il Pd non ha aperto. Accantonati per ora anche gli emendamenti sulla raccolta delle firme per le liste, anche con il metodo digitale, e tutte le proposte di modifica sulla parità di genere.
Ormai il treno è partito e dopo tanti rinvii questo in commissione è il passaggio più delicato. Ma da parte dei quattro maggiori gruppi parlamentari arriva l’avvertimento: o si tiene fede al patto sottoscritto o salta tutto. Patto che non piace al leader di Ap Angelino Alfano, che su Facebook ha commentato l’intervista di Matteo Renzi al Sole24ore: «Quante parole vuote, l’unico concetto che Renzi vuole ribadire è “Paolostaisereno”», alludendo a una fine anzitempo del governo Gentiloni. Si appella al Colle anche la ministra della Salute Beatrice Lorenzin, che a Repubblica ha ribadito: «Italia affossata da Renzusconi». Ma il presidente pd Matteo Orfini risponde: «Le larghe intese ci sono già state e non le porta il proporzionale». Mentre il ministro Andrea Orlando si augura che «il modello tedesco non diventi cinese», con le nomine decise unicamente dalle segreterie di partito.
( m. ru.)

Il Fatto 4.6.17
Prove tecniche di accordone: qualche modifica e poi si vota
Intesa Pd e M5S per ridurre i collegi uninominali (portando al 60% la percentuale di pre-scelti) e limitare a due le pluricandidature: Forza Italia, però, non è d’accordo
di Luca De Carolis


C’è l’accordo su quasi tutto, grazie alle larghe e anomale intese. Anche se si balla un po’ sulle pluricandidature. Su quasi tutto ma non sul voto disgiunto e quindi non sarà una vera legge elettorale “tedesca”. Eccolo, il primo abbozzo d’intesa tra il M5s e il riesumato Nazareno, Pd più Forza Italia, e in aggiunta quella Lega Nord che cessa di agitarsi e si accoda. L’accordo (parziale) nel nome del voto anticipato si materializza in commissione Affari costituzionali, alla Camera. E porta anche modifiche importanti al cosiddetto tedeschellum, il testo presentato dal dem Emanuele Fiano.
Un sub-emendamento di Alan Ferrari, sempre del Pd, abbassa da 303 a 225 i collegi uninominali alla Camera (quelli del Mattarellum) facendo sì che, tranne qualche eccezione, i primi classificati nell’uninominale abbiano tutti un seggio sicuro in Parlamento. Tradotto: a entrare per primi, e con la certezza del posto, saranno sempre i capilista bloccati, ma i rischi di restare fuori per i primi classificati nell’uninominale crollano.
Così prevede il testo modificato, con la quota proporzionale che sale al 60 per cento dei seggi assegnati. Un’altra bella differenza con il vero tedesco, in cui la ripartizione dei posti è rigorosamente a metà tra collegi uninominali e liste bloccate. Ma M5s dice ugualmente sì. E anche Fi manda fumate bianche. Però poi sul finire della prima giornata di lavori, quella per la presentazione degli emendamenti (780) e delle prime, burocratiche votazioni, chiede di accantonare proprio la proposta sui collegi. È una mossa tattica: ai forzisti non piace la proposta del M5s di ridurre le pluricandidature, facendo scendere da tre a una le liste proporzionali in cui si potrà presentare un candidato già presente in un collegio uninominale. Un punto fondamentale per i 5Stelle, che hanno bisogno di portare a casa qualche miglioramento per far meglio digerire agli eletti e alla base un accordo complicato.
Il Pd ci sta subito. Invece per i berlusconiani avere più nominati certi è importante. E poi non hanno voglia di fare subito “favori” al Movimento. “Per noi le pluricandidature non sono secondarie”, conferma il forzista Francesco Paolo Sisto. Il M5s, però, deve tenere il punto: “Limitare le pluricandidature è fondamentale, in Germania non ci sono”, ragionano nel Movimento. Il punto di frizione è evidente e il presidente della commissione, Andrea Mazziotti, lo certifica: “Il tema delle pluricandidature sta creando le divisioni maggiori”. Ma dal Pd soffia vento di ottimismo: “La quadra è vicina”. E Fiano benedice: “Penso che l’accordo reggerà”. Va bene. Ma il voto disgiunto? “Per quello ad oggi non ci sono margini”, riassume il relatore. I 5 Stelle hanno presentato un emendamento per reintrodurlo, ma viene subito accantonato.
E nel Movimento non si strappano i capelli, “anche perché con la riduzione dei collegi il voto disgiunto serve meno”. Rimangono in pista quelli di Mdp, ma non passeranno. Alfredo D’Attore cannoneggia: “Quella del M5s sul voto disgiunto è una mera mossa formale. E festeggiare la riduzione dei collegi è bizzarro, perché la toppa è peggiore del buco: la quota del proporzionale, ossia di nominati, sale”. Ma ai quattro partiti dell’intesa va benissimo così. Intanto prendono forma le caratteristiche del nuovo “tedeschellum”. I listini bloccati conterranno da 1 a 6 nomi (ai partiti più piccoli, riflettono in commissione, potrebbe convenire presentarne uno solo, per creare un “effetto uninominale”). Mentre per l’alternanza di genere negli stessi listini bisognerà aspettare il prosieguo dei lavori. Fiano ha accantonato gli emendamenti sul tema, assieme a quelli sulle firme da presentare per le candidature.
Prima bisogna blindare i punti fondamentali, a cominciare dalla riduzione dei collegi. Questa mattina iniziano le votazioni vere. Con l’obiettivo di chiudere con un accordo largo prima di martedì, quando il disegno di legge sbarcherà in Aula. Rimane quel nodo, chiamato pluricandidature. Importante, per il M5s. Ma forse non al punto da rovesciare il tavolo. Perché i Cinque Stelle vogliono restare seduti.

Il Fatto 4.6.17
Il guardasigilli
Orlando: “Spero che il modello non sia quello cinese”


Impegnato in un incontro politico a Bari, il ministro Andrea Orlando si è dichiarato molto scettico del lavoro attorno alla legge elettorale: “Spero che rimanga il modello tedesco e non diventi un modello cinese. Abbiamo un vincolo datoci dalla direzione del partito e se ci dovessimo allontanare troppo – ha aggiunto – credo sarebbe necessario rifare una discussione“. Il Guardasigilli ha sfidato Renzi alle primarie per la segreteria Pd, ha perso, ma non ha seguito e non seguirà per il momento il percorso di Bersani e Speranza, che hanno fondato Mdp e poi spiega che questa legge elettorale non incentiva il dialogo nel campo del centrosinistra: “Questa legge elettorale non aiuta e non avendo un premio di coalizione non spinge a parlarsi, anche se dobbiamo comunque trovare le opportunità e le condizioni per farlo, perché non ci si può rassegnare all’idea che il centrosinistra sia finito. Credo anzi che sia l’unica vera risposta strutturale che in Italia ed in Europa si possa dare ai populismi e alla destra”, ha concluso Orlando.

il manifesto 4.6.17
Corbyn tallona May
Gran Bretagna. Testa a testa nell’ultimo "question time" Bbc. «The Guardian» si schiera con il leader Labour. Si vota giovedì 8. Sondaggio YouGov «Il vantaggio Tory sui laburisti ora a soli 3 punti, dai 12 di un mese fa»
di Leonardo Clausi


LONDRA Ieri sera c’è stato l’ultimo confronto (a distanza) fra Theresa May e Jeremy Corbyn. In quest’ordine, i due si sono misurati con una platea di cittadini nell’edizione straordinaria della trasmissione televisiva della Bbc Question Time. Non c’è stata la sperata débâcle dell’una, né il trionfo dell’altro. Entrambi sono stati messi all’angolo nei rispettivi punti deboli. Entrambi hanno tenuto il campo. Esprimendo perfettamente la psicologia di due partiti tornati finalmente a essere diametralmente opposti dopo decenni di scimmiottamenti reciproci.
È VERO CHE IN SIMILI contraddittori il partito del premier in carica ha tutto da perdere, ma May sembra imbarazzata da quegli stessi cittadini che dovrebbe rappresentare. Per cui, dopo una settimana in cui ha cercato malamente di tamponare i progressi impensabili della campagna avversaria – trascinata da un Corbyn in stato di grazia che ha dimezzato il vantaggio che avevano i Tories un mese fa – si è alfine immolata.
Con decisione, per 45 minuti ha risposto al pubblico su austerity in politica economica, giustificato i vari voltafaccia su Brexit (era una remainer), elezioni e sulle più socialmente sciagurate proposte del suo programma elettorale. Ha deposto l’armatura di androide sputa-soundbites e dato prova di senso del ridicolo, evitando accuratamente «strong and stable». Che non fosse proprio Madre Theresa si sapeva. Il nadir lo ha raggiunto quando, rivolgendosi a un’infermiera con il salario bloccato dal 2009, le ha risposto che «i soldi non crescono sugli alberi» – l’ultimo slogan Tory sul manifesto super-keynesiano dei laburisti – dimostrando di avere proprio l’empatia da ufficiale giudiziario che ci vuole a guidare quel partito.
Ma se per lei la campagna elettorale è una via crucis, sembra una goduria per il brioso Corbyn. Il quasi settantenne leader ha retto alla pressione dimostrando la naturalezza e l’apertura che ne hanno fatto un attivista per quarant’anni. Non più analfabeta mediatico, unisce questa nuova disinvoltura a quello che ai suoi colleghi socialdemocratici europei manca del tutto: un programma socialista.
NATURALMENTE è finito sotto attacco per il suo passato di pacifista militante. Più volte gli è stato chiesto se avrebbe il fegato di difendere la patria incinerendo milioni di persone: dopotutto, questo è un paese con un arsenale nucleare (obsoleto) che ancora sostenta l’autorappresentazione di superpotenza. Poi, cosa ancora più grave per la Middle England, gli hanno puntualmente rinfacciato presunte simpatie con l’Ira, in una sala immersa nell’oblio collettivo delle merendine sur l’herbe fra Thatcher e Pinochet.
I SONDAGGI SONO IN PREDA in queste ultime settimane alle convulsioni per una formidabile rimonta Labour, mai così in alto come negli ultimi tre anni: Corbyn continua a erodere il vantaggio dei conservatori e certe proiezioni indicano che la mossa machiavellica della premier – che ha convocato queste elezioni a sorpresa dopo aver ripetutamente escluso che lo avrebbe fatto – anziché la desiderata slavina di un centinaio di seggi potrebbe portarne solo pochi in più, rischiando il molto rumore per nulla. La media dei sondaggi vede i Tories al 43%, il Labour al 36, i Libdem all’8 e Ukip e Verdi, rispettivamente al 4 e al 2%.
L’ULTIMO PUBBLICATO da YouGov dà il vantaggio Tory sui laburisti ad appena tre punti, da dodici che erano un mese fa. Un altro sondaggio, condotto dalla Icm, calcola il vantaggio ancora a 12 punti, ma per quanto ampio sia il margine d’errore, queste ultime due settimane sono state un crescendo per Corbyn, perfettamente a suo agio nel bucare la bolla denigratoria in cui lo avevano chiuso tutti i media mainstream.
TANTO CHE ORA, dopo aver passato gli ultimi due anni a massacrarlo, uno a uno i commentatori neoliberal-cosmopoliti del Guardian sono saliti a bordo: il giornale ha annunciato venerdì sera che lo appoggerà. Mossa dettata da buon senso, oltre che da opportunismo: con i Libdem inchiodati all’8% l’Ukip sgonfiato e i Verdi ininfluenti, questa è tornata una classica corsa inglese a due partiti. (Quasi) gli stessi che erano mezzo secolo fa: gettata la maschera finta e solidale, ora i Tories promettono di tagliare la tassa sul reddito ai più abbienti, mentre il Labour ha abbandonato la sottomissione agli Stati uniti in politica estera e la prudenza fiscale con cui ha corteggiato il centro in questi ultimi vent’anni in politica economica. Ma questo significa anche che il Parlamento «appeso» senza cioè la maggioranza assoluta dell’uninominale secco, resta l’alternativa più probabile a una vittoria plebiscitaria dei Tories. Si vota giovedì.

il manifesto 4.6.17
Si sgretola il fronte arabo anti-Iran che piace a Trump e Netanyahu
Medio Oriente. Lo scontro, sempre più duro, tra Qatar e Arabia saudita minaccia la formazione dello schieramento sunnita che il presidente Usa, con la benedizione del premier israeliano, vorrebbe contrapporre all'Iran
di Michele Giorgio


Qualcuno spiega la decisione di Donald Trump di non spostare, per ora, l’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme come un dono all’Arabia saudita per gli oltre 100 miliardi di dollari che il regno dei Saud spenderà in armi americane e, più in generale, alle petromonarchie sunnite del Golfo che ha chiamato a formare un fronte anti-Iran e «contro il terrorismo», noto anche come la “Nato araba”. Un prezzo che il governo Netanyahu ha pagato, ma solo in apparenza, malvolentieri. In realtà l’esecutivo israeliano spera che il sacrifricio sia ricompensato con una politica araba e statunitense di scontro duro con Tehran fino alla realizzazione del sogno del congelamento dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano firmato due anni.Trump ha mantenuto sino ad oggi solo alcune delle pericolose promesse fatte in campagna elettorale. Una di queste è l’aggressione, per ora solo politica e diplomatica, a Tehran. E ha riempito i vertici degli apparati militari e di sicurezza con falchi contrari all’intesa con l’Iran sciita, come il segretario alla difesa James Mattis e il capo della Cia Mike Pompeo. Quest’ultimo avrebbe scelto, secondo quanto scrive la stampa Usa, come responsabile per le operazioni segrete in Iran Michael D’Andrea, re della “guerra dei droni” in Pakistan e Afghanistan e convertito all’Islam sunnita, a quanto si dice ossessionato dal revival dello Sciismo in Medio oriente.
Trump fa la sua parte, con la benedizione di Netanyahu, ma lo “storico” discorso che ha pronunciato il mese scorso a Riyadh, davanti a oltre 50 leader musulmani, non ha prodotto neppure l’embrione della Nato araba contro l’Iran. Piuttosto ha innescato un regolamento di conti tra l’Arabia saudita e il Qatar sponsor dei Fratelli musulmani, storici nemici di Riyadh, che lacera lo schieramento sunnita. La mediazione avviata dal Kuwait non ha avuto effetto. Lo scontro è sempre più aperto ed è chiaro che alla base non ci sono solo le presunte dichiarazioni fatte dall’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim, contrarie all’isolamento di Tehran e critiche della politica dei Saud – Doha le ha smentite attribuendole ad un attacco di hacker alla sua agenzia di stampa – perché Riyadh e i suoi alleati (Bahrain, Egitto ed Emirati) accusano ancora più di prima il Qatar di aver mandato in frantumi il fronte sunnita, di parteggiare per il “nemico iraniano” e di sostenere i “terroristi” Fratelli musulmani.
Inevitabili e immediati sono stati i riflessi nella regione, in particolare nella guerra che si combatte in Siria. L’editorialista Mustafa as Said scriveva qualche giorno fa sul più noto dei giornali egiziani, al-Ahram, che la Turchia stretta alleata del Qatar, i Fratelli musulmani e alcuni gruppi armati (finanziati da Doha) che agiscono in Siria hanno preso le parti del Qatar. Erdogan perlatro è tornato infuriato dal suo recente incontro (appena 22 minuti) con Trump a Washington e non ha partecipato al summit a Riyadh. Il leader turco ha accolto con rabbia la decisione della Casa Bianca di riarmare i combattenti curdi impegnati contro l’Isis al confine tra Siria e Turchia e di non estradare Fethullah Gulen (che vive negli Usa), il predicatore accusato da Ankara di aver organizzato il tentativo di colpo di stato in Turchia dello scorso anno. Erdogan ha anche capito che gli Stati Uniti che non gli perdonano di aver trovato una intesa con la Russia per la creazione delle cosiddette “zone di de-escalation”, più o meno pacificate, in Siria. «Quelle aree (agli occhi di Washington, ndr) – spiegava as Said – hanno permesso all’esercito siriano di riprendere il controllo circa 15 mila kmq di territorio in pochi giorni nella Siria orientale e di avvicinarsi ai confini con l’Iraq mentre le alleate milizie sciite irachene si precipitavano nel distretto di al-Ba’aj vicino ai confini siriani, consentendo il contatto tra le due parti per la prima volta dal 2011 guerra. Ciò andrà a favore dell’alleanza Russia-Siria-Iran».
Per questo sottolineava due giorni fa, su Haaretz, l’analista Zvi Barel «Trump e Netanyahu hanno sognato troppo velocemente una coalizione sunnita pro-occidentale contro l’Iran e contro il terrorismo guidata dall’Arabia Saudita. E ingannano se stessi evitando una discussione sui rapporti interni arabi che potrebbero facilmente distruggere tale coalizione». In sostanza, fa capire Barel, semplificano a proprio uso lo scenario mediorientale e non comprendono che le relazioni tra sunniti e sciiti e tra musulmani arabi e musulmani non arabi sono estremamente complesse.

il manifesto 4.6.17
Cuba, per l’economia una linea cinese nel dopo-Raúl Castro
La decisione del Parlamento dopo consultazione di massa: «Elementi di mercato, ma sotto controllo dello Stato e del Pc». Sull’isola il vento di Trump: no al dialogo di Obama, sì agli anticastristi di Miami
di Roberto Livi


L'Avana Cuba resterà socialista e il partito comunista continuerà ad avere il ruolo di «forza superiore della società e dello Stato». Al termine di due giorni di dibattito straordinario dell’Assemblea nazionale del potere popolare (parlamento), giovedì , il presidente Raúl Castro ha messo in chiaro che il cambio generazionale previsto per l’inizio dell’anno prossimo, quando lascerà la presidenza, non comporterà cambi politici e costituzionali. La linea economica e sociale (nel Piano di sviluppo fino al 2030) resterà quella delle riforme per dar vita a «un socialismo prospero e sostenibile» e il Pc resterà il partito unico.
UNA SCELTA POLITICA che, secondo alcuni analisti, guarda esplicitamente al «modello cinese»: introduzione di elementi di mercato ma sotto stretto controllo dello Stato e del partito comunista che ne rappresenta l’unica forza politica.
Anzi, per alcuni versi le scelte socialiste del governo cubano si annunciano più radicali, perchè lo «zar» delle riforme economiche, Murillo, ha ribadito che verrà «regolata» ogni forma di «concentrazione della proprietà e della ricchezza» in modo che «non si contrappongano ai principi del nostro socialismo». Solo su queste basi, ha affermato il presidente Raúl, si potrà «cambiare tutto quello che deve essere cambiato».
IL DIBATTITO DEL PARLAMENTO cubano sul futuro prossimo del Paese è avvenuto dopo una vasta consultazione popolare che ha coinvolto 1.600.000 (in gran parte membri del partito e delle varie organizzazioni di base) ritenuta necessaria sia perché all’inizio del 2018 non vi sarà più un Castro al vertice del governo (così ha dichiarato alla Bbc Mariela, la figlia minore del presidente) sia perché da varie settimane dagli Stati uniti giungono «anticipazioni» sul fatto che il presidente Donald Trump è intenzionato a rivedere la politica di avvicinamento all’isola iniziata da Obama nel dicembre 2014, imponendo nuove restrizioni. Le voci sono state confermate dal portavoce della Casa bianca ed è stato annunciato che le nuove linee guida saranno espresse dal presidente entro giugno, quando Trump farà una visita a Miami, roccaforte dei politici repubblicani e democratici di origine cubana e ostili «alla dittutura dei Castro».
Nel frattempo è trapelato che non verranno interrotte le relazioni diplomatiche ma che verrà posto un divieto di avere rapporti commerciali con le Forze armate cubane (le Far, che controllano quasi l’80% dell’economia dell’isola) e che verranno reintrodotte restrizioni ai viaggi a Cuba dei cittadini statunitensi. Si tratterebbe di misure durissime contro il governo cubano, che attraversa una grave crisi economica, in linea con le dichiarazioni fatte lo scorso mese da Trump che «il popolo cubano merita un governo che sostenga i valori democratici, la libertà economica e religiosa e i diritti umani». Insomma, un ritorno alla politica di governement changing i cui argomenti base erano stati definiti «ridicoli» e pericolosi dal presidente Raúl.
DOPO LA RECENTE decisione di Trump di uscire dagli accordi di Parigi sul cambio climatico e dopo l’evidente porta chiusa in faccia all’Europa, nessuno nell’isola ha dubbi che il capo della Casa bianca faccia sul serio nell’anteporre le «esigenze» di politica interna alle alleanze internazionali. Per questo il linguaggio si è fatto duro anche da parte dei mass media cubani («El portazo de Trump al Acuerdo de París lo aísla del mundo», titolava ieri Juventud rebelde, quotidiano dei giovani comunisti) rompendo una sorta di tregua che era durata fino al mese scorso. Non vi è dubbio dunque che le relazioni si facciano più tese.
Ma in un recente dibattito dedicato ai rapporti dell’isola con gli Usa organizzato da Temas, la rivista considerata liberal, alcuni analisti hanno sostenuto che da entrambe le parti verrà mantenuta una linea pragmatica che potrebbe fare da contrappeso all’indurimento dei toni politici. «Engage Cuba», un’associazione di imprenditori e politici Usa favorevoli al proseguimento della politica di Obama, ha reso noto che una marcia indietro di Trump comporterebbe per l’economia statunitense una perdita sia di 6,5 miliardi di dollari sia di 12.200 posti di lavoro.
INOLTRE, 54 SENATORI la settimana scorsa hanno firmato una proposta di legge che metta fine a tutte le restrizioni dei viaggi a Cuba dei cittadini americani. Voci che difficilmente Trump potrà ignorare. Non solo, nei tagli nel bilancio federale proposti da Trump figurano anche quelli agli «aiuti allo sviluppo » destinati a vari paesi latinoamericani. Nel caso cubano si tratterebbe di un taglio di 20 milioni di dollari (questi i dati del 2016) destinati ufficialmente alla «promozione della democrazia» a Cuba ma che nei fatti, a detta dell’ex ambasciatore Farrar , sono stati impiegati «per mantenere in vita le principali organizzazioni degli oppositori» al governo.

Corriere 4.6.17
Il vangelo secondo Lenin
Intollerante anche verso i socialisti, il bolscevismo operò come una religione messianica
di Sergio Romano


Secondo una interpretazione largamente condivisa dalla opinione corrente, il XX secolo, fra il 1917 e la disintegrazione della Unione Sovietica, fu teatro di un lunga guerra fredda tra il comunismo e la democrazia liberale. Dopo la lettura del libro di Marcello Flores sulla rivoluzione russa La forza del mito , edito da Feltrinelli, molti arriveranno alla conclusione che uno dei maggiori conflitti del Novecento fu quello combattuto dai comunisti contro i socialisti europei nelle loro diverse incarnazioni nazionali. Tutta la politica di Lenin, dall’agosto del 1914, fu ispirata da un obiettivo: eliminare la concorrenza socialista, impedire che la causa rivoluzionaria finisse nelle mani dei socialdemocratici o, peggio, di altre forze politiche che, come gli anarchici, avevano creato attese e acceso l’immaginazione popolare. Sciolse l’Assemblea Costituente, eletta dopo gli avvenimenti dell’ottobre 1917, per sbarazzarsi di una istituzione in cui gli «esery» (i socialisti rivoluzionari) e i menscevichi avrebbero avuto un peso determinante. Creò una sorta di Inquisizione (la Ceka, per metà polizia, per metà tribunale rivoluzionario) a cui affidò il compito di eliminare fisicamente tutti coloro, anche a sinistra, che avrebbero cercato di ostacolare il suo disegno. Fondò la Terza Internazionale per imporre regole che avrebbero prescritto ai nuovi partiti comunisti di rompere i loro legami con i socialisti e di obbedire alle direttive di Mosca.
La linea di Lenin fu adottata da Stalin in Spagna, nei rapporti con i socialisti e gli anarchici durante la guerra civile, e nei Paesi occupati dall’Armata rossa alla fine della Seconda guerra mondiale. Qui, in particolare, molti socialisti non ebbero sorte diversa da quella di coloro che rappresentavano la borghesia e il mondo contadino. Vi furono temporanee eccezioni quando Stalin si accorse che un «fronte popolare» con i socialisti, in alcuni Paesi, poteva ostacolare l’avanzata dei movimenti fascisti e schiudere ai comunisti la strada del potere. Ma Flores ricorda che la migliore definizione della socialdemocrazia, per l’Urss di Stalin, fu quella di Grigorij Zinoviev, presidente della Terza Internazionale: «Una variante di sinistra del fascismo». Per godere dell’approvazione di Mosca non bastava combattere contro fascismo e nazismo. Occorreva che all’Urss fosse riconosciuto l’esclusivo diritto di guidare la lotta o addirittura, come accadde nell’agosto 1939, di rovesciare la propria politica firmando con Berlino un trattato d’amicizia e un protocollo segreto per la spartizione della Europa centro-orientale.
Fra i comunisti, come ricorda Flores, vi furono delusioni e ripensamenti, come quelli di André Gide, Arthur Koestler e Ignazio Silone. Ma questo non impedì che la Rivoluzione d’ottobre e la nascita dell’Unione Sovietica conquistassero gli animi e le menti di un numero incalcolabile di persone, seducessero altri grandi intellettuali, persuadessero milioni di elettori a votare per partiti che trasmettevano ai loro connazionali una immagine ingannevole della «grande patria socialista».
Secondo il libro di Flores il mito sovietico deve la sua esistenza agli aspetti più crudi del capitalismo e della rivoluzione industriale, alla grande depressione del 1929, allo straordinario coraggio del popolo russo durante la Seconda guerra mondiale, alla convinzione che gli aspetti peggiori del regime servissero alla costruzione di un sistema nuovo in cui gli errori sarebbero stati corretti e la grande promessa della Rivoluzione d’ottobre sarebbe stata mantenuta. Ma la risposta non può essere soltanto politica o economica. Flores ricorda anche che in un libro del 1920, scritto dopo un viaggio in Russia, un filosofo inglese, Bertrand Russell, vide nel bolscevismo una duplice caratteristica: l’eredità della Rivoluzione francese, a cui Lenin e i suoi fedeli facevano continuo riferimento, e un fenomeno simile all’ascesa dell’Islam dopo la profezia e l’insegnamento di Maometto.
Nella sua versione leninista, quindi, il comunismo non è soltanto una teoria politico-economica nata dalle tesi di Marx, Engels e altri intellettuali fra l’Ottocento e il Novecento. È anche una fede che ha, come ogni religione, un profeta (Lenin), un ristretto gruppo di apostoli (i compagni della prima ora), il costruttore della Chiesa (Stalin) e una legione di monaci combattenti, pronti al martirio. Come in ogni religione anche nel comunismo il fedele deve accettare pazientemente gli insuccessi, i sacrifici, il martirio e gli errori di percorso. Tutti verranno generosamente ripagati dal compimento delle speranze e dall’avvento di una vita nuova in cui il credente sarà finalmente felice. Se questa lettura del bolscevismo è giusta, dovremo concluderne che il comunismo non fu una ideologia laica e che non furono laici i suoi maggiori esponenti, in Russia e altrove.

Corriere 4.6.17
L’ossessione per le reliquie
di Vittorio Messori


È ben noto: le reliquie religiose non hanno un gran posto nella prospettiva dell’uomo moderno, anche se credente. Dico «religiose» perché l’interesse si è spostato dal sacro al profano: vanno all’asta a Londra o a New York, e a gran prezzo, gli abiti, gli oggetti, i mobili, le cose tutte che sono appartenute a star del cinema, dello sport, anche della cultura. Reliquie, appunto. In molti musei, poi, sono esposti non solo oggetti appartenuti ai Grandi ma parti, seppur piccole, del corpo degli «eroi» della Patria, a partire da Garibaldi di cui si disputavano anche i capelli e le unghie.
Per quanto riguarda il furto recentissimo dell’urna contenente una parte del cervello di don Bosco, vista la debolezza del «mercato» religioso è probabile che ai ladri interessasse o il ricco reliquiario o (come in altri casi) una richiesta di riscatto ai religiosi salesiani. Non si esclude, purtroppo, neppure il furto su commissione da parte dell’oscuro mondo dei satanisti e delle loro liturgie «nere».
C’è, pure oggi, una pur limitata domanda di reliquie per le nuove parrocchie: il Codice di diritto canonico conferma l’antica prescrizione di un vano, scavato nella tavola in pietra dell’altare, con piccoli resti degli antichi martiri o anche (concessione recente) di altri santi. Lo stesso Codice vieta severamente, qui, ogni sospetto di commercio: dunque, alle parrocchie le reliquie sono concesse gratuitamente da un apposito ufficio vaticano.
Va detto, comunque, che le comunità protestanti non sono coerenti nella loro protesta contro il culto delle reliquie che unisce cattolici e ortodossi. Parlano di feticismo, di idolatria, magari di superstizione ma dimenticano che questo culto nasce con la Chiesa stessa e diviene profondo ed esteso alla cristianità intera nell’era dei martiri. Proprio in quei primi secoli, dunque, che la Riforma ha sempre indicato come esempio da imitare e seguire.
Sia chiaro, comunque: per cattolici e greco-slavi il culto non riguarda solo il corpo o parti di esso (cosa che può apparire un po’ macabra, oggi) ma anche abiti o oggetti che siano appartenuti a un santo. Ed è un culto che i teologi chiamano «relativo»: si venera qualcosa non per se stesso ma in relazione all’uomo di Dio che con quelle cose è venuto in contatto.
Se oggi le reliquie religiose sono al margine, soprattutto per quel cattolicesimo che ama definirsi «adulto», non si dimentichi il ruolo straordinario che hanno avuto nei secoli.
Roma fu riconosciuta centro della Chiesa e meta di continui pellegrinaggi anche perché custodiva le reliquie di Pietro e di Paolo: le due grandi basiliche sorgono dove furono giustiziati e poi, segretamente, sepolti. Costantino fece costruire grandiosi edifici a Gerusalemme là dove la tradizione diceva che si era ritrovata la croce di Gesù o la colonna cui sarebbe stato legato per la flagellazione.
È grazie a una reliquia che la prima crociata fu vinta: la turba armata cristiana, ormai falcidiata e demoralizzata, stava per abbandonare l’assedio di Antiochia e ritirarsi sconfitta verso l’Europa, quando un monaco gridò di avere scoperto in un anfratto la lancia che trafisse Gesù sul Calvario. A questo annuncio l’esercito crociato si rianimò, si slanciò contro le mura in un assalto incontenibile e Antiochia fu presa. E, dopo di essa, Gerusalemme. Depredare una città delle sue reliquie era, assieme al saccheggio, la maggiore punizione: ne sanno qualcosa i milanesi, fieri delle reliquie dei Re Magi che veneravano nella basilica di sant’Eustorgio. Quando il Barbarossa vinse l’assedio, quei resti amatissimi furono sequestrati e portati in Germania, a Colonia: attorno ad essi fu costruita una delle più belle e grandi cattedrali del Medio Evo. Insomma, anche chi non ne è devoto (ed è suo diritto) rispetti le reliquie: spesso hanno fatto la storia.

Corriere La Lettura 4.6.17
Aboliamo il Medioevo
di Amedeo Feniello


Fasi cronologiche, periodizzazioni, scansioni temporali: questioni importanti. Perché spezzare il tempo e il suo divenire non è un atto neutro. Ma rappresenta qualcosa di artefatto. Di congiunturale. Provvisorio, legato al momento, alla sua fase storica. Alle società e alle epoche in corso. E, perciò, continuamente sottoponibile a giudizio. A modificarsi a seconda delle evoluzioni, poiché fondato su convenzioni che variano al variare di sensibilità, gusto e stagioni. Eppure questo problema, il problema del periodizzare, anche noi storici di frequente lo sottovalutiamo. Così, continuiamo (per comodità pedagogica, per consuetudine) a tagliare la storia a fette, con un tempo costruito artificialmente, frazionato in cinque momenti. E, sin dai banchi della scuola elementare, sappiamo che la storia si divide in un’età preistorica, una antica, una medievale, una moderna e una contemporanea. Cinque grandi compartimenti che tutto contengono. Che tutto facilitano. Che tutto rasserenano, eliminando soverchie controversie.
Questa suddivisione è conveniente ma genera problemi. Ed è proprio il periodo che chiamiamo Medioevo — questo orrido buco nero su cui pesano disprezzo e condanna (chi di noi non ha usato almeno una volta, per parlare di una situazione degradante, il termine «medioevale» o, peggio ancora, «feudale»?) — che, di dubbi, ne produce più di altri. Perché non ci si fa caso, ma dobbiamo esserne consapevoli: il Medioevo non è altro che una costruzione ideologica. Fino al XIV secolo, nel parlare di storia, l’unica rottura concepibile in Occidente era la nascita di Cristo: un avvenimento cruciale che trasformava la storia da unidimensionale in bidimensionale, con un prima e un dopo. A cominciare invece da una serie di personaggi straordinari — come Francesco Petrarca — affiora la prima grande frattura, con l’idea di una grande stasi temporale che si poneva a metà tra un’antichità immaginata e una modernità tutta ancora da immaginare. L’età di mezzo. Il Medioevo.
Cos’è allora il Medioevo? È una parola fantasma. Inventata. Che, una volta nata, da sola non bastava. Serviva che venisse precisata; che le si attribuissero connotati; che si strutturasse. Fino a una data centrale: il 1688, quando, appena 330 anni fa, Christoph Keller, il Cellario, nella sua opera Historia medii aevi , adotta per primo, in maniera formale, degli estremi cronologici: e presenta un intervallo quasi monolitico composto da mille anni inclusi tra due estremi, il regno dell’imperatore Costantino (306-337) e la caduta di Costantinopoli, nel 1453.
Oggi, considerare il Medioevo come un blocco uniforme, senza nuances , suonerebbe ridicolo. Come si fa ad abbracciare, con un solo sguardo, l’evoluzione della specie umana e i suoi comportamenti lungo un tempo così estremo per la sua intensa disparità? O valutare all’unisono gente mossa da impulsi tanto diversi, come Alboino, Carlo Magno, Luigi IX di Francia, Giotto o Cosimo dei Medici, solo perché vissuti tutti, disgraziatamente, entro questo intervallo? È assurdo. Tanto quanto parlare di idealtipo dell’uomo medievale. Tuttavia, se ci si svincola da questo preconcetto e si tenta di segmentare il Medioevo, l’affare si complica. A partire dai limiti cronologici. Comincia davvero in un momento preciso? E quando finisce? Chi lo decide? Giacché, si badi bene, non siamo davanti a postulati, ma a scelte.
Prendiamo, ad esempio, la nascita. Se ci ragioniamo, adoperare una data precisa è pratico ma fuorviante. In quanto inganna e distorce il fluire del tempo, creando strappi e salti innaturali. Con studenti e insegnanti che, ho potuto verificarlo di persona, continuano a immaginare che, una volta deposto l’ultimo imperatore romano nel 476, il giorno dopo l’umanità cambia faccia, precipitando nell’inevitabile declino di un mondo calpestato dalla barbarie mentre 24 ore prima si navigava nello splendore!
Al di là dell’ironia, si tratta di generalizzazioni ingenue, ma purtroppo diffuse. Quando può essere meglio adoperare un’altra strada, con lo scindere dal Medioevo una fase duratura, non fondata su un unico, grande avvenimento periodizzante ma su un grappolo di episodi-chiave che ne cadenzano il cammino. Nel 1971, Peter Brown, nel suo libro The World of Late Antiquity (Il mondo tardo antico, Einaudi, 1974) , inaugurava questa strada parlando di Tardoantico: un lunghissimo e instabile periodo che va dal 200 all’800 d.C. nel quale la lenta dissoluzione dell’antico mondo mediterraneo lascia il posto alla creazione di tre civiltà, tutte continuatrici, ognuna a suo modo, della civiltà ellenistico-romana: l’Occidente europeo, Bisanzio e l’Islam. All’interno del quale non bisogna cercare un singolo episodio dominante ma una serie di fatti-cerniera che saldano l’intera epoca, in una sequenza che, per esempio, dalla Constitutio Antoniniana di Caracalla del 212 passa attraverso Adrianopoli (378), il sacco di Roma di Alarico del 410, l’Egira del 622, Poitiers nel 732 e giunge fino alla morte di Carlo Magno nell’814.
Analogo problema sta nel definire la conclusione, con periodizzazioni che assumono un’estrema elasticità. Che si riduce d’ampiezza se si seppellisce il Medioevo nel corso del Trecento, quando, per gli storici dell’arte, comincia una fase del tutto nuova per lo spirito e la cultura umana, che ha spinto a creare un’altra bolla temporale, definita in area anglosassone early modern Renaissance . Oppure si dilata, con un Rinascimento che viene assorbito in toto in un lungo Medioevo, assimilato come sua parte essenziale: un tipo di lettura che ne estende i contorni ai primi decenni del Cinquecento. Senza contare poi gli studi economici, dove la lenta età preindustriale prolunga i suoi tentacoli nel Settecento, tanto da lambire la prima rivoluzione industriale.
E per le demarcazioni interne? Cosa c’è dopo il Tardoantico? C’è una lunga fase, compresa tra metà del IX e fine dell’XI secolo, caratterizzata da una sequenza di fenomeni diversi e tumultuanti, nella quale convivono accanto a forti periodi di caos politico e sociale i primi segnali di ripresa. Un’«età dell’anarchia», che si può chiudere con l’evento periodizzante della Prima Crociata e si confonde con la successiva, che copre il XII e il XIII secolo: l’epoca delle rinascite, con le grandi sperimentazioni politiche, sociali ed economiche che vanno dalla ripartenza delle città alle esperienze comunali, dal feudalesimo alle rivoluzioni agricole e commerciali. Secoli che terminano con l’inizio della grande epoca delle distruzioni creative trecentesche, con il prevalere degli Stati-nazione; di una nuova concezione del lavoro e della finanza; e di un rinnovato ambiente culturale e di sollecitazione tecnologica che è il Rinascimento.
Se queste distinzioni aiutano a declinare meglio il discorso, finiscono comunque per proporre sempre visioni d’insieme che si intrecciano tra loro, ma non tengono conto della miriade di variabili che rappresentano il dato pregnante del mondo medievale. Cui sarebbe meglio sostituire, all’etichetta uniforme di «Medioevo», quella forse più pertinente di «società medievali», adatta a distinguere un contesto, come fu quello occidentale, dove ogni cosa apparve difforme da un luogo all’altro, da una regione all’altra e perfino da una città all’altra. In cui nozioni di comodo come quelle di crescita o di crisi, spesso adoperate nelle periodizzazioni, appaiono eccessive, considerata l’impossibilità di valutare, con delle espressioni che tutto vogliono contenere, un mondo che, nei fatti, fu incontenibile, parcellizzato, incostante e variabile.
D’altra parte, bisogna riflettere su un altro aspetto: la nozione di Medioevo a chi appartiene? Solo all’Occidente cristiano, dove la parola significa qualcosa, mentre altrove, nel resto del mondo, comunica poco o nulla. Fino a qualche decennio fa, potevamo infischiarcene. Ma oggi, in una dimensione dove la storia globale ribadisce il suo ruolo, il concetto di Medioevo perde importanza, in una logica in cui la storia si amplifica e smarrisce i suoi tradizionali connotati. Infatti, se si considera l’intero globo come unità di misura, i nostri termini cronologici si relativizzano e non funzionano più. Che senso ha assumere come punto di riferimento la deposizione di Romolo Augustolo? Nessuna, se il nostro punto di osservazione spaziale diventa, come ha fatto di recente Frederick Starr nel suo Illuminismo perduto (Einaudi), l’Asia centrale. E il metro «Medioevo» diventa ancora più incoerente se prendiamo in considerazione regioni come il centro Africa o addirittura il mondo precolombiano. Ma questo metro continuiamo a usarlo, imponendolo. Con una tendenza a considerare tutto ciò che è al di fuori di noi come corrispondente alla nostra stessa cultura.
In questo atteggiamento, di voler riprodurre a tutti i costi il medesimo schema cronologico occidentale anche per realtà diverse dalla nostra, si nasconde un vecchio presupposto eurocentrico. Mossi come siamo, come ha sottolineato scherzosamente lo storico dell’Oriente Urs App, dal «meccanismo d’Arlecchino», secondo cui l’uomo occidentale ragiona come la maschera veneziana, ossia «pensa che il resto del mondo sia la riproduzione esatta della sua famiglia, e agisca di conseguenza». Invece, i paradigmi si stanno allentando, anche quelli riguardanti il nostro modo di periodizzare. Dopo più di 300 anni da Cellario è venuto il momento di proporne, per il Medioevo, di nuovi. Più attuali. Aderenti alle sfide che ci aspettano.

Il Sole 4.6.17
Leggere Ankara per capire Roma
Carlo Ossola


Anatolia, «Anatolh ». L’oriente ove sorge l’astro; e anche l’« Ecce vir Oriens nomen eius» (Zaccaria, VI, 12), l’aurora della promessa e della salvezza. Vengo qui con in mente una geografia antica e mai spenta: Lidia, Frigia e Panfilia, le Lettere di San Paolo agli Efesini e ai Colossesi, e poi – proprio al centro dell’Anatolia – la Galazia della Lettera ai Galati, e della capitale romana Ancyra. In quelle terre è la continuità della koinè greca e la culla del primo cristianesimo.
È la culla dei viaggi di San Paolo e della luminosa liberazione della “religione delle genti” da caratteristiche etniche rituali come la circoncisione: «Quattordici anni dopo, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Bàrnaba, portando con me anche Tito […]. Esposi loro il Vangelo che io annuncio tra le genti […]. Ora neppure Tito, che era con me, benché fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere; e questo contro i falsi fratelli intrusi, i quali si erano infiltrati a spiare la nostra libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi; ma a loro non cedemmo, non sottomettendoci neppure per un istante, perché la verità del Vangelo continuasse a rimanere salda tra voi. […] Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi […] diedero a me e a Bàrnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono sempre preoccupato di fare» ( Galati, II, 1-10; una lettera che è la prima vera autobiografia di un cristiano).
E poi ancora un poco più a Oriente la Cappadocia, quella dei grandi padri del IV secolo che hanno fondato il cristianesimo d’Oriente: Basilio Magno, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, del quale basterebbe ricordare l’inno creaturale del quotidiano liberato nel sempre: «Mangio, dormo, riposo e cammino / mi ammalo e guarisco / sono preda di desideri e sofferenze. / Godo del sole e di ogni frutto della terra / e presto morirò diventando polvere / come la polvere di ogni creatura. / Ma tu sei il mio Dio ora e oltre la morte / tu sei il Vivente e io vivo e vivrò in te» (Gregorio di Nazianzo, Creatura).
Turchia è nome recente: l’Anatolia di Efeso, Smirne, Pergamo, Laodicea, è quella delle origini e dell’Apocalisse, delle «sette chiese» della visione ultima nella quale l’Agnello spezzerà i sette sigilli (Apoc., I-VI). Ma è anche la culla di Roma: il «Monumentum Ancyranum» conserva le Res Gestae divi Augusti; ad Ankara troviamo lo scrigno lapideo della storia di Roma nel suo massimo splendore augusteo. Ho preparato il viaggio con John Scheid (che ha pubblicato il «Monumentum») e con Fabrizio Pennacchietti, che conosce ogni metamorfosi e traccia latente di quelle lontane chiese, sino alle propaggini dei Pauliciani negli odierni Aleviti di Turchia.
Le iscrizioni testamentarie di Augusto dovevano trovarsi davanti al suo mausoleo a Roma; oggi non sono più reperibili, ma esistono le copie inviate nelle province; sopravvivono quelle di Ancyra (Ankara), Apollonia di Pisidia (Uluborlu) e di Antiochia di Pisidia (Yalvaç), tutte in Anatolia: le sue Res Gestae sono leggibili laggiù, sulle pareti di una moschea di Ankara. Apprendiamo ciò che Augusto narra di sé: «Ho fatto guerre per terra e per mare, civili ed esterne in tutto l’orbe della terra; e dopo le vittorie ho preferito perdonare che estinguere chi chiedesse grazia. […] Sono stato salutato 21 volte con il titolo di imperator. […]. Nei miei trionfi, nove re o figli di re sono stati tratti davanti al mio carro […]»: potenza, magnanimità, rispetto di tutte le magistrature, pure in sé cumulate in modo distinto e disgiunto. Ma già si percepisce avanzare sulla scena la plebe di Roma, il ventre di Roma, che sarà motivo di trionfo e rovina di tanti successivi imperatori: «Alla plebe di Roma ho conferito trecento sesterzi a testa (viritim), in esecuzione del testamento di mio padre, e a titolo mio, ho distribuito – nel mio quinto consolato [29 a.C.] – quattrocento sesterzi tratti dal bottino di guerra. Una seconda volta, durante il mio decimo consolato [24 a.C.] ho elargito, dal mio patrimonio, quattrocento sesterzi a testa a titolo di congiario [cioè distribuzione gratuita di derrate]»; e così ancora nell’undicesimo e tredicesimo consolato… Ah, eterna Roma d’Augusto!
Anatolia delle nostre radici, viene da te – in una copia marmorea romana – il Galata morente (ora ai Musei capitolini), probabilmente dal Donario di Attalo a Pergamo, scoperto all’inizio del XVII secolo negli scavi di Villa Ludovisi, che sarà il modello del patetico eroico, con il gruppo del Laocoonte vaticano, per l’età barocca e romantica.
Certo nell’Ankara di oggi, contemplando dalla ciclopica Moschea di Kocatepe quel che resta del tempio di Augusto e della dea Roma, questo lascito pare come un “Galata morente”, mentre avanzano nuove dittature e Anatolia prende un volto che non sembra più il suo; ma la dittatura più grave è quella dell’oblìo, che dà alla verità un solo volto frontale e non la circonda con lo sguardo che abbraccia.
Da queste terre veniva, nel Medioevo, Yunus Emre; egli ci ha lasciato questa traccia per cercare con l’occhio del cuore: «Non conobbero il significato della Verità con la legge canonica, / Con questa ipocrisia i saggi non sono rinati. / La Verità è un mare, la legge canonica è la sua nave, / La maggioranza non è scesa per tuffarsi in mare. / […] / Chi commenta i Libri sacri rifugge dalla loro verità, / Legge l’interpretazione e ne ignora l’intimo significato. / […] / Chi non cambia il proprio nome non si è messo ancora sul giusto cammino» (Y. Emre, Il significato della Verità [ Hakikat?n mânas? ] in Divan, a cura di Anna Masala, Roma, Semar, 2001).
Sì la Verità è un mare, nel quale occorre tuffarsi; e la storia del Mediterraneo è la nostra verità, in specie quella della nostra penisola, approdo di tutte le civiltà; la verità storica del Mediterraneo è come l’anice stellato: le sue punte, Odessa, Alessandria, Salonicco a Oriente, si riflettono nei porti d’Occidente, Cadice, Marsiglia, Ostia antica, con una trasparenza cristallina quale una poesia recitata a sera, come scrive Hilmi Yavuz: «La sera è la più bella delle storie / se ben raccontata // in tutto ciò che è vero c’è un poco / di collera un poco di timore // dice una favola / se il bicchiere è più fine, più limpido è il vino / […] / e che poco o tanto di ieri sia rimasto / trasformi il soffrire in rubino / la tristezza in diamante // perché la sera è la più bella delle storie / se ben raccontata» (Esili d’Oriente).
So che nel venire a te, Anatolia, molto mi sarà rimproverato; ma preferisco la delusione del presente che il tradimento del passato e custodisco la riserva di futuro che conserva il tuo Oriente-Germe, «germoglio di giustizia» secondo la definizione biblica (Zaccaria, III, 8-10). Preferisco pensarti con le parole di Osip Mandel’štam, nelle sue Poesie di Mosca (1930-34): «Tatari e Usbechi e Neneti, / fino ai Tedeschi del Volga, / e tutto il popolo dell’Ucraina, / attendono chi li traduca. // E forse in questo stesso momento / c’è un Giapponese che / avendo saputo comprendere l’animo mio / in lingua d’Anatolia mi traduce» (novembre 1933).

Il Sole Domenica 4.6.17
Lettera da Gerusalemme
Sei giorni, mille guerre
Nel 1967 Israele conquistò velocemente 26mila miglia quadrate di territorio arabo: sono seguiti conflitti e speranze ancora in sospeso
di Ugo Tramballi


«Ci sono cose di cui mi rammarico. Per esempio gli insediamenti nei Territori nei quali io stesso, sfortunatamente, ho messo mano, e che sono stati davvero un grande errore», ammise Shimon Peres nel 2007, quando diventò presidente d’Israele. Ma era ormai troppo tardi.
Apparentemente quella dei Sei giorni non fu molto diversa dalle altre guerre combattute e vinte da Israele. Fu rapida: iniziò all’alba del 5 giugno 1967 e l’11 le parti firmarono il cessate il fuoco. Mai gli israeliani ebbero un successo così folgorante: l’attacco a sorpresa della loro aviazione distrusse a terra l’aeronautica egiziana e siriana. Avevano preso l’iniziativa per anticipare quella che sembrava un’imminente aggressione, dopo che l’Egitto aveva chiuso alle navi israeliane gli stretti di Tiran, nel golfo di Aqaba. Oggi la storiografia ha quasi accertato che Gamal Nasser stesse barando. Millantare la forza che non si possiede, è un pericoloso vizio dei rais. Circa 35 anni dopo anche Saddam Hussein avrebbe fatto credere di possedere l’atomica che l’Iraq non aveva: invece di tenere lontano gli americani, offrì loro il pretesto per attaccare. Più o meno così andò anche a Nasser.
Levi Eshkol, l’unico premier della storia d’Israele ad essere più incline al negoziato che all’azione, cercò di evitare il conflitto. Fu sconfitto dal partito della guerra nel suo governo che poche ore prima dell’attacco impose Moshe Dayan come ministro della Difesa. Alcuni anni dopo anche Dayan sarebbe diventato uomo del dialogo. Come Yitzhak Rabin che nel ’67 era il capo di Stato Maggiore delle forze armate: guidando la guerra dal quartier generale di Tel Aviv, Rabin s’intossicò di sigarette fino a svenire; e come Ezer Weizman il comandante dell’aeronautica, l’artefice di “Bazak” la vittoria lampo.
Questo sarebbe stata la guerra dei Sei giorni – una delle tante nella regione - se nel corso di quella settimana scarsa Israele non avesse conquistato 26mila miglia quadrate di territorio arabo, tre volte più grande degli 8mila dello Stato d’Israele. È questo che ne fa il conflitto più importante: ha aperto mezzo secolo di conflitti e speranze ancora in sospeso, in attesa di soluzione. La bibliografia è vasta. Dal bellissimo “1967” di Tom Segev (Metropolitan Books, 2008), all’ortodosso La Guerra dei Sei Giorni – Alle origini del conflitto arabo-israeliano di David Oren (Mondadori 2004), al polemico Six Days War – A Narrative History di Jeremy Bowen (Simon & Shuster, 2004).
Israele ha restituito la penisola del Sinai agli egiziani (1979), la striscia di Gaza ai palestinesi (2005); se volessero farlo, non saprebbero a chi riconsegnare le alture del Golan siriane. Ma il cuore del problema sono Gerusalemme Est e la Cisgiordania, occupate da più di 700mila coloni ebrei. La conquista fu un imprevisto della storia: Israele aveva invitato Hussein a restare fuori dalla guerra. Ma quando Nasser gli telefonò barando anche sull’andamento del conflitto, il re giordano gli credette e intervenne. In poche ore “Motta” Gur, il comandante dei parà, conquistò la città vecchia e in due giorni il generale Uzi Narkis prese tutta la Cisgiordania.
A Elyakim Ha’etzny, uno dei fondatori del Gush Emounim, i radicali israeliani dalle cui costole sono nati tutti i movimenti ebraici nazional-religiosi di oggi, una volta chiesi cosa ne sarebbe stato della sua vita da militante sulle colline della Giudea se Hussein non avesse creduto alla menzogna di Nasser. «Avrei continuato a fare l’avvocato a Tel Aviv», rispose nella sua casa di Kiryat Arba, la più violenta delle colonie. La sproporzionata differenza fra una vita estrema e una normale solo per un dettaglio della storia, era il sottile veleno che l’occupazione aveva inoculato nell’organismo d’Israele.
L’occupazione dei Territori «ha contaminato le nostre norme come una falda acquifera inquinata», sosteneva A.B. Yehoshua. «Dal 1967 in Israele hanno incominciato a funzionare due sistemi paralleli: quello normativo, costituzionale dello Stato d’Israele e, dall’altro lato, i Territori amministrati dove le norme morali e di polizia erano completamente differenti». All’inizio, dopo la vittoria, gli israeliani non avevano le idee chiare su cosa fare dei territori. Un mese dopo la guerra, di fronte a un milione di palestinesi da governare, il ministro dell’Educazione inviò una lettera al generale Narkis: «Dobbiamo insegnare loro i nostri programmi scolastici? Bialik, Chernichowsky, Sholom Aleichem, la Bibbia? Cosa dobbiamo fare?». Non ebbe una risposta.
Sei mesi prima della guerra il Mossad aveva stabilito che in caso di guerra l’esercito avrebbe dovuto entrare in Cisgiordania solo per eliminare i centri della resistenza palestinese dai quali partivano gli attacchi dei fedayn. Un’occupazione sarebbe stata “una catastrofe”. In un memorandum segreto che affrontava gli aspetti politici ed economici di un’occupazione, il centro studi delle Forze armate, il Collegio della difesa nazionale, sottolineò che fra il 2035 e il ’50 la popolazione araba avrebbe superato quella ebraica. Se agli arabi d’Israele si fossero aggiunti quelli di una Cisgiordania annessa, il partito palestinese sarebbe stato il secondo in parlamento. L’alternativa all’estensione agli arabi dei diritti goduti dagli ebrei, sarebbe stata la riduzione della libertà, la chiusura dei palestinesi in zone isolate. Razzismo e oppressione che «noi come popolo e come ebrei aborriamo, che porrebbero Israele in una luce negativa e in una posizione internazionale difficile», concluse il generale Elad Peled, il comandante del Collegio di difesa.
Nel settembre 1967, tre mesi dopo la guerra, fu inaugurato il primo insediamento ebraico, Kfar Etzion, a Sud di Betlemme. «Nessuno in Israele ha il diritto di cedere uno iota della Terra d’Israele che possediamo», stabilì Yitzhak Nissim, il rabbino capo sefardita di allora. Il conflitto politico, il risorgimento nazionale di due popoli, l’ebraico e il palestinese, sarebbe inesorabilmente scivolato verso lo scontro religioso. Cinquant’anni più tardi, è ormai incapace di liberarsene.

Il Sole 4.6.17
Quando Lutero era cattolico
Adriano Prosperi, a 500 anni dalle tesi di Wittenberg, ha raccontato l’esperienza spirituale del fondatore del protestantesimo risalendo alle inquietudini del monaco da giovane
di Massimo Firpo


Libri, convegni, seminari, conferenze commemorano ovunque in questo 2017 il quinto centenario delle tesi di Wittenberg, con cui Lutero diede avvio alla Riforma protestante. Fresco di stampa è questo poderoso Lutero di Adriano Prosperi, una biografia del monaco sassone che ne segue l’esperienza religiosa fino alle grandi scelte del 1520-21, alla scomunica di Leone X, alla messa al bando dell’Impero, al ritiro nel castello della Wartburg e all’avvio dell’immane impresa della traduzione della Bibbia in tedesco. Una biografia che si arresta nel momento in cui, consumata la rottura con Roma, Lutero affronta temi politici e organizzativi e si impegna in inesauribili controversie, fino a diventare il venerato padre fondatore di una nuova Chiesa. Restano quindi fuori dal quadro vicende importanti quali la discussione con Erasmo sulla libertà dell’arbitrio del 1524-25, la durissima presa di posizione contro i contadini in rivolta del ’25, la dieta d’Augusta del 1530 in cui fu formalmente presentata la definitiva confessio fidei detta appunto augustana, il consolidarsi del luteranesimo in tutta l’Europa settentrionale fino alla morte del riformatore sassone nel ’47.
Non una biografia completa ed esaustiva, dunque, ma la narrazione dell’esperienza spirituale di un monaco travagliato da angosciose inquietudini sul proprio destino ultraterreno e il suo maturare con tale forza e determinazione da sfociare infine in una profonda frattura della christianitas europea. Il Lutero ancora cattolico, insomma, nonostante i suoi libri di fuoco, il Lutero che intende riformare la fede ben più che la Chiesa, lontanissimo dal volerla abbattere, che vorrebbe anzi salvare dagli errori di coloro che ne sono diventati gli illegittimi tiranni. «Lutero non fu e non si sentì mai né eretico né ribelle... Fu un riformatore, non un eretico», scrive Prosperi, nel delineare un suggestivo profilo del giovane Lutero, come già aveva fatto nel 1928 il grande storico francese Lucien Febvre in un piccolo libro diventato un classico, e nel 1946 il valdese italiano Giovanni Miegge in un’opera poi rimasta incompiuta.
Lo stesso sottotitolo del libro chiarisce che ad essere indagati sono «gli anni della fede e della libertà», gli anni della scoperta della giustificazione per sola fede nel valore salvifico del sacrificio di Cristo, che libera il cristiano da ogni vana fiducia nei propri meriti, e con essa dalle inutili pratiche devozionali sulle quali la Chiesa basava il suo potere. Era l’esito del fallimento della sua illusione che a portarlo alla salvezza eterna potesse essere la via dell’ascesi monastica, pur percorsa con rigorosa tenacia e serietà. Ne scaturì una crisi umana e religiosa approdata infine alla scoperta del Vangelo, con il suo annuncio di un Dio misericordioso che non per giustizia ma per grazia giudica l’umanità corrotta dal peccato originale. Per liberarsi dal peso opprimente della minaccia che facevano gravare su di lui parole come peccato, colpa, dannazione Lutero dovette passare attraverso un’«inaudita, intollerabile sofferenza», scrive Prosperi, superata solo «interrogando con i mezzi di una straordinaria intelligenza e cultura la fonte dove proprio Dio aveva dato la sua legge», la Bibbia, per coglierne il significato autentico.
Ma il suo appassionato impegno pastorale, i suoi doveri di confessore e professore, la sua convinzione che la fine dei tempi fosse ormai imminente gli imposero di non rinchiudere nel suo cuore quella scoperta, ma di comunicarla al mondo, di farne partecipe «l’uomo comune» e di perseverare in questa battaglia fino in fondo, a qualunque costo: anche se la sua riflessione teologica e le polemiche controversistiche lo avrebbero portato in breve tempo a un conflitto sempre più aspro contro la prassi pastorale e il magistero della Chiesa, fino a negarne l’autorità e la struttura gerarchica, fino alla denuncia del papa Anticristo. In quei primi anni Lutero si dedicò anima e corpo a diffondere il suo messaggio di fede e di speranza, non a costruire una nuova Chiesa; ma quando i contadini si ribellarono, non esitò a esortare i principi a una durissima repressione, stringendo con loro un’allenza destinata ad avere un ruolo decisivo nell’imprimere sulla storia tedesca il marchio di un primato dell’obbedienza che avrebbe consegnato le Chiese luterane a una lunga subalternità al potere politico, come si sarebbe constatato anche durante il nazismo.
Sintesi di grande respiro anche dal punto di vista narrativo, il libro ricostruisce il quindicennio in cui Lutero venne scoprendo la libertà del cristiano, l’autentico significato della parola di Dio rivelata nella Bibbia (sola Scriptura), la grazia divina come unica fonte di redenzione e quindi la giustificazione per fede (sola fides). Tutt’altro che mera raccolta di «appunti e racconti tratti da una lettura cursoria dei suoi scritti» queste pagine ariose e al tempo stesso dense gettano uno sguardo penetrante sul primo Lutero, sulla «terribile serietà» con cui – dopo la conversione e il voto di farsi monaco – affrontò gli studi teologici e l’obbedienza alla regola agostiniana che la sua scelta implicava, nonché i compiti pastorali e di insegnamento affidatigli dai superiori. E lo fanno tenendo conto dei contesti in cui la sua esperienza si svolse, della realtà politica e sociale della Sassonia elettorale di Federico il Saggio, della crisi profonda dell’istituzione ecclesiastica in capite et in membris tra i pontificati rovereschi e quelli medicei, dello sfaldarsi della tarda scolastica sotto i colpi della cultura umanistica, del ritorno ad fontes che essa proponeva, della riscoperta della Bibbia che ne conseguiva. A ciò si aggiunga la nuova e rapidissima circolazione delle idee consentita dalla diffusione della stampa, che in breve tempo trasformò l’intensa esperienza di fede e riflessione teologica di Lutero in un messaggio destinato a estendersi a tutta l’Europa. Non a caso egli stesso vide nell’arte tipografica una manifestazione della provvidenza di Dio, affinché la riforma della fede cristiana potesse affermarsi e consolidarsi.
Da quella frattura, iniziata con le 95 tesi del 1517, sarebbero nate due Europe contrapposte, scrive Prosperi, destinate a combattersi per secoli, fondata l’una sul «governo esterno della condotta morale» e l’altra sulla «coscienza morale come guida». E sarebbero nate due immagini contrapposte di Lutero: quella del padre di tutti gli altri riformatori cinquecenteschi, «l’oceano» dal quale avevano tratto alimento «tutti li altri heretici non altrimente che li fiumi recevano l’acque dal mare,... zwingliani, calviniani, anabattisti et altri», secondo la definizione di un suo seguace italiano; e quella del progenitore di tutte le rivoluzioni dei secoli seguenti, dal quale – come scrisse un cardinale dell’Ottocento – erano nati «come parti titanici il Voltaire, il Rousseau, il d’Holbach, il d’Alembert, il Diderot, il Mirabeau, il Turgot, il Danton, il Robespierre», e infine «tutti i socialisti e comunisti» e «tutti i focosi liberali dei nostri tempi». Fantasie paranoiche dell’integralismo cattolico ottocentesco, senza dubbio, ma anche oggi, quando molta acqua è passata sotto i ponti, quando papa Francesco si incontra con la pastora di Lundt, in Svezia, e parla della comune fede cristiana, le differenze restano profonde. La rocciosa realtà della storia si sottrae alle ardite acrobazie esegetiche dei teologi, sempre solerti nell’adeguare alle esigenze del presente le immutabili verità di ieri. Né si può dimenticare – come ha sottolineato Hans Schilling in un’altra biografia – quali e quanti mutamenti furono indotti nella Chiesa cattolica dall’esigenza di reagire alla sfida luterana, senza la quale non ci sarebbe stata una Controriforma destinata a durare ben oltre le invettive del cardinale Alimonda. Per molti e non trascurabili aspetti della sua storia, insomma, conclude Prosperi, «Roma può ringraziare Lutero, anzi lo sta già facendo».
Adriano Prosperi, Lutero. Gli anni della fede e della libertà , Mondadori, Milano,pagg. 580, € 28

Il Sole 4.6.17
Niccolò Cusano (1401-1464)
Un filosofo extraterrestre
Diede una lettura «buona» del Corano, si oppose alle crociate e nell’universo divino non escluse ci fosse vita sugli altri pianeti
di Maria Bettetini


Pur tra guerre, corruzione, miseria, il Quattrocento europeo continua a stupire con grandi menti, che sono anche uomini d’azione, condottieri, pensatori o artisti. Ecco Nicola da Kues, della diocesi di Trier, nato dal comandante di battello Iohan Krebs, commerciante sulla Mosella, e da Katharina Roemer nel 1401. Niccolò e Cusano sono nomi acquisiti dopo, negli anni romani. Nicola non nasconderà mai le origini borghesi, sia per dimostrare di essere diventato vescovo e cardinale con le proprie forze, sia nei numerosi casi in cui si è scontrato con le famiglie nobili, cercando di limitare le prevaricazioni contro i diritti e i possedimenti ecclesiastici.
La sua forza è nello studio, sempre intenso, mai interrotto, e nella affannosa ricerca di testi antichi che gli permettano di superare le ormai fruste e rigide posizioni dell’aristotelismo scolastico. Platone, Plotino, Proclo e lo Pseudo-Dionigi stanno tornando nelle terre europee, le prime traduzioni dal greco al latino ne permettono comprensione e circolazione, un “nuovo” neoplatonismo fa respirare gli intellettuali del Rinascimento.
I tramiti si chiamano, tra gli altri, Marsilio Ficino, Pietro Balbi, Niccolò Cusano. Ora per la prima volta un unico volume racchiude il testo latino, la traduzione, il commento delle opere di Cusano: le filosofiche, le teologiche e le tre più importanti tra le matematiche, sulla quadratura del cerchio, sui complementi matematici e sulla perfezione matematica, ossia sulla possibilità di arrivare alla perfezione attraverso la famosa coincidenza degli opposti, lasciandosi così condurre dalle realtà matematiche «penitus all’assoluto divino ed eterno», quasi all’assoluto.
Il volume, che supera le tremila pagine, è curato con grande perizia da Enrico Peroli. Molti sono i documenti che permettono una buona ricostruzione dell’ambiente e della vita del cardinale di Kues, che se pur ebbe amici famosi, come Enea Silvio Piccolomini, fu spesso avversato per l’intransigenza, e dovette addirittura fuggire dalla diocesi di Bressanone di cui pur era vescovo. Molto giovane lasciò la casa dei genitori per studiare prima a Heidelberg, poi a Padova, dove si laureò in giurisprudenza (divenne doctor decretorum).
Durante un breve soggiorno a Roma ascolta, e non per la prima volta, Bernardino da Siena che invita ad abbandonare i fasti mondani e probabilmente ha grande influenza sul futuro moralizzatore e riformatore della Chiesa, perseverante fino all’ultimo nonostante l’evidente fallimento di tutte le sue campagne. Il ritorno in Germania coincide con le prime letture platoniche, tra queste il Liber de causis, e la fascinazione per le opere di Raimondo Lullo.
Sono gli anni della battaglia tra conciliaristi e papisti, e qui accade qualcosa che sarà fondamentale per la vita di Nicola: inizialmente segue i suoi maestri tra le file conciliariste, sostenendo dunque che l’ultima parola spetta alla maggioranza dei vescovi. Poi però, dopo grandi litigi, aderisce alla minoranza e da quel momento sostiene la posizione del Papa e del suo primato. Una via al successo? Una scelta dottrinale? Uno sgarbo diventato poi presa di posizione? Non lo sappiamo. Sappiamo però che subito Eugenio IV lo manda a Costantinopoli a trattare per la riunificazione delle chiese orientale e occidentale. L’immersione nel mondo culturale greco, il possesso di tanti nuovi manoscritti filosofici, fanno dimenticare il politico che voleva controllare il potere del Papa e che dichiarava un falso la donazione di Costantino (così nella Concordanza cattolica), e promuovono invece il pensatore della coincidenza degli opposti.
Tra il 1438 e il 1440 Cusano compone la sua opera più nota, La dotta ignoranza, e incomincia quella sulle Congetture. Sa di proporre una novità, di agire con «audacia», promette al lettore «cose mai prima udite». Il mondo non è più ordinato tra finito e infinito, vero e falso, sensi e intelletto. La ragione non lo comprende e domina secondo la logica. Nulla è ovvio. Dio è oltre il principio di non contraddizione, in lui gli opposti si annullano e uniscono; l’universo è un grande organismo vivo, ma non è altro rispetto all’infinito divino, ne costituisce semmai un aspetto, una sua contrattura, un suo “modo”, diranno poi altri.
Anche l’intelligenza umana dunque, per quanto può, deve disporsi a seguire questa apertura all’infinito, che più che di concetti e differenze si serve di congetture e somiglianze. Cusano si spingerà anche a parlare di vita sugli altri pianeti (se l’universo è vivo…), a rifiutare il geocentrismo, perché solo Dio è centro e circonferenza del mondo intero. E pensare che queste idee un po’, come dire, hyppies, erano di un uomo criticato per la sua fedeltà al Papa.
Dopo il fallimento di Costantinopoli (che sarebbe caduta in mano musulmana nel 1453), Nicola viene infatti inviato a riformare la Chiesa in Germania e a ricondurla all’obbedienza. Accusato di panteismo dai tomisti, sbeffeggiato come «Ercole papista contro i tedeschi», fallisce anche in questa impresa, i principi e i nobili tengono ben stretti molti beni della Chiesa, la gestione del clero e dei monasteri è a dir poco corrotta e fondata su ricchezza e piacere invece che su sante vite, ma nulla cambia. E nulla cambierà fino alla Riforma e alle guerre immediatamente successive, con la soppressione, di fatto, di clero e monasteri. Continua questo doppio binario, per Nicola da Cusa: la fermezza della riforma, tentata anche da cardinale e vescovo a Bressanone, e insieme l’afflato mistico di opere come i Dialoghi dell’idiota, del sempliciotto che a confronto del retore appare ignorante ma capace di comprendere, dotato appunto di «dotta ignoranza».
Gli ultimi anni trascorrono a Roma, dove l’amico Enea Silvio è diventato papa col nome di Pio II. L’accordo è grande tra i due, sul valore degli studi e dei manoscritti. Il disaccordo anche, sul tema dell’ultima crociata, che il Papa chiedeva contro l’Islam.
Da parte sua Nicola ha scritto un’interpretazione “buonista” del Corano, è soprattutto convinto dell’inutilità e della cattiveria delle guerre di religione, molto ha scritto a favore della pace. Muore a Todi nel 1464, quando obbediente sta per raggiungere Pio II alle navi in partenza per la crociata, ad Ancona. Pochi giorni dopo muore però anche il Papa, la crociata non si farà: quel sognatore di Niccolò Cusano ha infine vinto una partita per la pace.
Niccolò Cusano, Opere filosofiche, teologiche e matematiche , testo
latino a fronte, a cura di Enrico Peroli, Bompiani, Milano, pagg. 3.070, € 75

Il Sole Domenica 4.6.17
Medioevo
Montaperti madre di tutte le battaglie
Guelfi e ghibellini, Siena e Firenze, le immagini dantesche: non sono tanti i «casus belli» così vivi nella nostra memoria
di  Gianluca Briguglia


Certo non sarà il nostro corrispettivo della battaglia di Hastings - che nel 1066 diede inizio all’epopea inglese di Guglielmo il Conquistatore e a tutto quel gioco di identità che l’Ottocento volle riconoscere in quella data -, non sarà la nostra battaglia di Bouvines - che fece del 1214 una tappa importante nel “romanzo” della nazione francese -, ma la battaglia di Montaperti del 4 settembre 1260 è un evento che ha saputo trovare un suo posto nell’immaginario culturale italiano di tutte le epoche, soprattutto perché chiunque si sia imbattuto in Dante, anche alle scuole superiori, ne ha sentito parlare.
Il ghibellino Farinata degli Uberti - quello che addirittura sembrava «avesse l’inferno a gran dispitto» - fu uno dei protagonisti politici delle vicende che condussero alla battaglia, e Bocca degli Abati, che Dante scaraventa nell’inferno più cupo e doloroso, fu il guelfo fiorentino, traditore dei guelfi e dei fiorentini, che durante la battaglia (forse) tagliò la mano al portabandiera della sua propria parte.
È a partire da questi personaggi danteschi - ma storici e ben reali -, dall’immagine dello «strazio e ’l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso», e dall’interesse che le vicende fiorentine e toscane hanno sempre esercitato sulla nazione, che almeno il nome della battaglia è rimasto impresso, e almeno come ricordo di studi e come antefatto un po’ favolistico di quei racconti.
Ma la battaglia fu una vera battaglia e vide affrontarsi la guelfa Firenze e la ghibellina Siena, con tutte le città e le loro forze alleate. Fu un momento importante, un episodio chiave nel magmatico scontro e incontro tra poteri in conflitto, tra progetti alternativi di riordino della Toscana e dell’Italia, nella trasformazione di istituzioni, nei ripetuti colpi di Stato e nella costruzione di reti di alleanze internazionali. Firenze fu duramente sconfitta, al punto che il suo sistema di governo e le sue istituzioni caddero. Molte famiglie di parte guelfa abbandonarono la città prima ancora che arrivassero i nemici vittoriosi e molti dei loro palazzi, delle case, delle torri, dei loro mulini furono distrutte o danneggiate. L’arrivo dei cavalieri teutonici a Firenze, che costituivano una parte importante della coalizione ghibellina, segna il rovesciamento delle istituzioni guelfe e dà il via a una rapida ghibellinizzazione delle principali città della Toscana.
Duccio Balestracci, professore di Storia medievale all’Università di Siena, in un libro molto godibile e ricco di informazioni e suggestioni, riapre il dossier sulla battaglia Montaperti per meglio raccontare la storia di quegli anni. Balestracci utilizza, in modo parallelo e quasi cinematografico, le fonti di entrambe le parti, Siena e Firenze, o almeno le fonti che sono rimaste, alcune degli anni più vicini alla battaglia, ma molte anche dei decenni e dei tempi successivi, quelle della memoria collettiva che ciascuna delle città in causa ha coltivato. Il libro non si limita per nulla a raccontare la battaglia, con i suoi preparativi, i suoi discorsi, i suoi soldati, i suoi tradimenti, la sua storia di guelfi e ghibellini, ma sfrutta quell’evento per sciogliere l’inviluppo geopolitico, commerciale, culturale e ideologico che di Montaperti è il retroterra.
Nello scacchiere italiano è in gioco in quegli anni molto di più, cioè il destino degli eredi di Federico II, Corrado, Manfredi, re Enzo, la penetrazione in Italia degli Angioini, il ruolo ideologico dell’impero, l’azione costante dei papi, la fluidità e il dinamismo delle reti commerciali delle città italiane. Questa ragnatela di interessi economici, culturali e ideologici viene nel libro smontata e rimontata per meglio comprenderla. La morte di Federico II, nel 1250, imperatore germanico e re del vasto regno di Sicilia, che comprende gran parte dell’Italia meridionale, segna la necessità di un ridisegno di tutte le forze in campo, il bisogno di un nuovo ordine che non riesce però a imporsi. Firenze e Siena, per scelte strategiche e geopolitiche ben precise, si trovano ad essere lo snodo toscano di filiere di interessi che si irradiano su tutta l’Italia e l’Europa. Firenze è inserita in un’alleanza fluida contro lo svevo Manfredi, re di Sicilia, figlio di Federico II, che sembra volere proseguire la politica aggressiva del padre e rafforzare la sua influenza in Toscana. Per questo Firenze si considera naturale alleata del papa, il quale vorrebbe sbarazzarsi degli Svevi a favore della dinastia francese degli Angiò. Per Firenze c’è dunque in gioco anche l’accesso e il rafforzamento della rete commerciale verso Francia e Mediterraneo. Siena rappresenta, in quel momento, gli interessi contrari e il collegamento con le reti che fanno capo alla presenza germanica in Italia, al sud e al nord. Questione imperiale e questione meridionale sono così legate.
E poi naturalmente c’è la competizione tra le due città maggiori della Toscana per il sistema di influenze sulla regione, che è anche la proiezione della lotta tra famiglie all’interno di ogni città e c’è la tensione crescente fra tutte le città toscane per la presenza di reti di fuoriusciti, di alleanze trasversali tra famiglie di diverse città, di pressione continua dall’esterno, di tanti piccoli casus belli scongiurati. Tutto questo trova sbocco, precario e non definitivo, solo nello scontro di Montaperti. La vittoria ghibellina è importante, è militare, politica, istituzionale. Ma il nuovo assetto non durerà molto. Sei anni dopo, re Manfredi sarà costretto ad affrontare Carlo d’Angiò, il guelfo che ambiva al regno di Sicilia, nella battaglia di Benevento. Questa volta la vittoria è guelfa ed è totale. Firenze torna alle famiglie guelfe, cambia istituzioni, il ghibellinismo toscano entra in una crisi profonda. E la battaglia di Montaperti è consegnata alle memorie della letteratura e del racconto.
Duccio Balestracci, La battaglia
di Montaperti , Laterza, Bari-Roma, pagg. 244, € 20

Il Sole 4.6.17
A 80 anni dalla morte
Rosselli senza pregiudizi
La ricostruzione del percorso intellettuale dell’antifascista italiano proposta da Pecora mostra che «Socialismo liberale» non è un punto di arrivo, ma un passaggio evolutivo
di Mario Ricciardi


Nei prossimi giorni cade l’anniversario della morte di Carlo Rosselli, che fu ucciso il 9 giugno 1937, insieme al fratello Nello, a Bagnoles-de-L’Orne, da un gruppo di sicari appartenenti alla “Cagoule”, un'organizzazione politica di estrema destra che aveva legami col fascismo. A ottanta anni di distanza ormai sono pochi i testimoni sopravvissuti di quella stagione drammatica della nostra storia nazionale, segnata dalla dittatura, dal conflitto spagnolo e, infine, dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Mentre guardiamo con rammarico all’affievolimento della memoria dell’antifascismo che questo cambio generazionale comporta, possiamo accogliere con interesse e curiosità l’opportunità, che il trascorrere del tempo ci offre, di riesaminarne l’eredità politica e morale. Questo è proprio lo spirito che anima il nuovo libro di Gaetano Pecora, uno dei più sensibili e acuti studiosi del pensiero politico italiano contemporaneo, che si propone di tracciare un bilancio critico del percorso di Carlo Rosselli attraverso la rilettura unitaria dei suoi scritti.
Per molti il nome di Rosselli è indissolubilmente legato solo al più noto di essi: Socialismo liberale, il saggio che il militante antifascista redige tra il 1928 e il 1929, mentre si trova al confino a Lipari. L’opera fu pubblicata un anno dopo la conclusione della prima stesura, in francese, perché Rosselli nel frattempo era riuscito a riparare a Parigi. Per le generazioni maturate alla fine del secolo scorso l’edizione di riferimento di Socialismo liberale è però quella Einaudi del 1979, a cura e con una lunga introduzione di Norberto Bobbio, che ne proponeva una lettura nel segno della critica del marxismo. Per Bobbio, il saggio di Rosselli consiste di «una parte critica – critica del marxismo e delle varie forme di revisionismo che pretendono di correggere il marxismo senza abiurarlo – e di una parte costruttiva, la proposta di un socialismo non marxista e, al contrario, liberale, anzi antimarxista perché liberale». Esso sarebbe dunque «un libro di teoria e di proposta politica, di una proposta politica che nasce da un’elaborazione teorica». L’aspetto più significativo dello studio di Pecora, che lo rende una lettura di grande interesse, è che esso mette in discussione questa interpretazione del pensiero di Rosselli che, nelle mani di Bobbio, diveniva un precursore, e per certi versi un compagno, in quel “duello a sinistra” (per richiamare il titolo di un fortunato saggio di Luciano Cafagna e Giuliano Amato che vede la luce due anni dopo la riedizione del saggio di Rosselli) che contrapponeva il Psi al Pci. Alla fine degli anni settanta Bobbio è uno degli intellettuali di riferimento dei socialisti, da cui si allontanerà qualche tempo dopo, per dissensi con Craxi. Naturale che egli veda nel saggio di Rosselli, dal titolo così evocativo, un’eredità da rivendicare per i riformisti italiani.
La ricostruzione del percorso intellettuale di Rosselli proposta da Pecora mostra, invece, che Socialismo liberale non è un punto d’arrivo, l’esposizione della teoria compiuta di un socialismo non marxista, ma un passaggio nell’evoluzione tumultuosa del pensiero dell’antifascista italiano. Pochi anni dopo averlo scritto, l’autore ne mette già in discussione alcune premesse, e in particolare il primato delle libertà, rivalutando motivi provenienti proprio dal pensiero di Marx. La discontinuità rilevata da Pecora, in realtà, non sorprende, una volta che si rifletta sul fatto che Rosselli non scrive come accademico – per quanto impegnato, come fu Bobbio per tutta la vita – ma come militante, dirigente politico e uomo d’azione. In questo senso, egli ha un rapporto con le idee meno condizionato dall’esigenza sistematica tipica dell’accademia. Le sue riflessioni sono plasmate dalle letture quanto dalle alterne vicende di una lotta politica che, nella fase finale della sua vita, ha raggiunto lo stadio del conflitto armato, con il suo coinvolgimento diretto nella guerra di Spagna.
Dobbiamo dunque abbandonare del tutto l’idea di un Rosselli socialista e liberale? Nella pagine finali di questo studio, Pecora sostiene che, anche negli scritti posteriori alla pubblicazione di Socialismo liberale, mentre sta attuando una vera e propria “svolta a sinistra”, in particolare nel campo dell'economia, che lo avvicinerà alle posizioni dei comunisti, nelle riflessioni di Rosselli sarebbe all’opera il lievito di una diversa concezione del valore della libertà, ispirata probabilmente dalla lettura di Croce. Si tratta di un liberalismo meta-politico, diverso da quello che si affaccia brevemente nel libro del 1930, che Bobbio enfatizzava in chiave antimarxista. Una tesi suggestiva, che appare comunque plausibile alla luce della singolare capacità che il pensiero di Croce ha avuto di colorare la sensibilità etica, e l’atteggiamento politico, di tanti intellettuali antifascisti, anche quelli apparentemente più lontani dai percorsi dell’idealismo. In un momento in cui stiamo assistendo forse al declino di un lungo ciclo di egemonia, nei partiti progressisti, del socialismo liberale, e a una rinascita dell’interesse per Marx, la nuova interpretazione di Rosselli proposta da Pecora potrebbe renderlo attuale proprio per la sua spinta radicale. In ogni caso, sottratto alla lettura politica degli interpreti contemporanei, come Salvemini e Togliatti, o cresciuti sotto il Fascismo, come Bobbio, Rosselli viene consegnato da Pecora alla storia, e ci appare per questo in una luce diversa. Meno monumentale, forse, e più umana. Un esploratore piuttosto che l’ispiratore di una dottrina.Gaetano Pecora, Carlo Rosselli, socialista e liberale. Bilancio critico di un grande italiano , Donzelli, Roma, pagg. 224, € 19
In vista dell’anniversario degli 80 anni dalla morte, è uscito da Nino Aragno «L’opera della destra», saggio del 1928 di Nello Rosselli, a cura di David Bidussa, in libreria in questi giorni

La Stampa 4.6.17
Carlo e Nello Rosselli
Le radici indispensabili della nostra democrazia
I fratelli antifascisti furono uccisi 80 anni fa in Francia da emissari di Mussolini. L’idea di un socialismo liberale
di Mirella Serri


Stavano calando le ombre della sera, il 9 giugno 1937, quando all’improvviso una Peugeot tagliò la strada alla scassata Ford su cui viaggiavano Carlo e Nello Rosselli. Avevano accompagnato alla stazione la moglie di Carlo e si dirigevano verso l’Hotel Cordier, nella località termale di Bagnoles-de-l’Horne. Un’altra macchina sopraggiunse alle loro spalle e li bloccò. I due fratelli feriti dai colpi di rivoltella vennero finiti con il pugnale. Gli assassini, che non verranno mai puniti, appartenevano all’organizzazione segreta francese fascista la Cagoule e agivano su mandato di Mussolini, desideroso di eliminare i suoi acerrimi avversari.
Quest’anno sono numerose le manifestazioni che si terranno in Italia e in Francia per gli 80 anni dall’efferato omicidio e non c’è nulla di agiografico o di puramente celebrativo nel ricordo dei due valorosi antifascisti: stranamente, infatti, quanto più passa il tempo tanto più efficaci e attuali si rivelano le parole di Piero Calamandrei dedicate ai due storici e politici che «si distinsero nel pensiero e nell’azione». Proprio così: i Rosselli sia per le rocambolesche imprese con cui fecero espatriare leader e compagni oppositori del regime sia per le loro scelte politiche - dal sogno europeo di abbattimento delle frontiere e di «libera circolazione dei popoli» all’utopia molto concreta di un socialismo liberale e critico nei confronti del marxismo - furono degli intellettuali «eretici» e all’avanguardia, capaci di prefigurare non solo la successiva lotta di liberazione ma anche i nostri tempi.
Rispettivamente classe 1899 e 1900, Carlo e Nello, dopo la separazione dei genitori, vissero con la madre Amelia Pincherle: scrittrice, autrice di testi teatrali, nata in una famiglia ebrea non praticante, femminista anticonformista e repubblicana, fu proprio lei che segnò i figli con il fuoco della passione politica. Carlo, con i suoi occhialetti cerchiati di metallo, e Nello, con l’aria simpatica e spavalda, erano ancora studenti e già si cimentavano su democrazia e violenza sul giornaletto Noi giovani e poi proseguiranno sul foglio clandestino Non mollare! Le camicie nere in ascesa intanto si applicavano alla distruzione della sede del Circolo di cultura fondato da Gaetano Salvemini e poi della villa dei Rosselli. Carlo reagì con aplomb: «Io sono di ottimo umore e l’altra sera ho bevuto alla distruzione compiuta! I signori fascisti… aspetteranno a lungo la mia rinuncia alla lotta». Altro che rinuncia: con Ferruccio Parri, Carlo fu la mente dell’avventuroso espatrio dalla Liguria in Corsica, a bordo di un motoscafo, di Sandro Pertini e del grande vecchio dei socialisti riformisti, Filippo Turati. Al rientro in Italia Rosselli e Parri vennero arrestati e condannati prima al carcere e poi al confino. Ma ecco Carlo pronto a sfidare ancora una volta la sorveglianza fascista con Emilio Lussu: raccolti da un potente fuoribordo che si era posizionato nei pressi di Lipari, l’isola del confino, si diressero in Tunisia. E poi in Francia dove nel 1929 Carlo fonderà il movimento di «Giustizia e Libertà» e poi pubblicherà Socialisme libéral, nato anche dalla sua esperienza di studio a Londra-capitale del laburismo: un saggio che Palmiro Togliatti definirà con astio un «magro libello antisocialista» di «un ideologo reazionario».
Per sostenere le forze repubblicane spagnole contro i rivoltosi dell’esercito filomonarchico, l’infaticabile Rosselli organizzò un battaglione intitolato a Giacomo Matteotti ucciso dai fascisti il 10 giugno 1924. Dopo un celebre discorso in cui pronuncerà la storica frase «Oggi qui, domani in Italia», imbraccerà il fucile e quindi, essendo stato ferito presso Monte Pelato, raggiungerà con Nello Bagnoles per curarsi. I due fratelli erano così sicuri della forza della democrazia da non credere che gli emissari della dittatura li avrebbero potuti raggiungere proprio lì.
Pochi giorni dopo il delitto, invece, gli assassini consegnarono i documenti loro sottratti al controspionaggio italiano. Carlo aveva confidato a Salvemini di sentire «l’impegno morale» di dare un esempio alle generazioni del futuro. Parole profetiche. I due fratelli da decenni rappresentano per gli intellettuali democratici e di sinistra un modello di lotta irrinunciabile per la libertà e per la giustizia sociale.

Il Sole 4.6.17
Capitalismo in perenne mutazione
di Valerio Castronovo


La crisi esplosa nel 2008 ha riaperto il dibattito sull’essenza del capitalismo, dopo che da un quarto di secolo, dalla caduta del Muro di Berlino, si era spenta pressoché dovunque l’analisi, a livello scientifico, sulla natura e le vicende di questo fenomeno di cui ci si era occupati così intensamente dall'Ottocento in poi. L’estinzione del “socialismo reale”, impersonato sino al 1991 dall’Unione sovietica e considerato, con la sua economia interamente pianificata entro le rigide maglie dello Stato, l’antagonista storico per eccellenza dell’economia di mercato, e la progressiva trasformazione del modello di sviluppo cinese post-maoista in una sorta di “economia socialista di mercato” (non meglio definibile altrimenti), avevano posto fine, in pratica, all’interesse d’un tempo verso la definizione di un concetto peculiare quanto ibrido e controverso come quello di capitalismo.
A renderlo di nuovo oggetto di una fioritura di studi e discussioni è stata, appunto, la crisi economica manifestatasi negli ultimi anni, in quanto è stata valutata, da più parti, di portata persino peggiore della Grande Depressione degli anni Trenta e perciò tale da minare le fondamenta del sistema capitalistico.
Di qui ha preso l’abbrivio un nuovo saggio sull'argomento, firmato da Jürgen Kocka, uno dei maggiori studiosi della storia del capitalismo, docente alla Freie Universität di Berlino e presidente dal 2001 al 2007 del Wissenschaftorum fur Sozinlforschung della capitale tedesca. Esso consiste sia in una profilo storico delle vicende nel corso del tempo del capitalismo (dai suoi primordi mercantili ai suoi sviluppi nell’età dell’industrializzazione e del colonialismo, sino alla sua attuale configurazione sotto l’egida di una nomenclatura manageriale caratterizzata da crescenti modelli finanziari a breve termine), sia in un’analisi critica degli odierni rapporti fra Stato e mercato e delle linee di tendenza emerse nel mezzo della Grande Recessione ancor oggi non pienamente superata.
Da questo suo lavoro, cha intreccia la ricostruzione delle varie fasi del capitalismo fra Otto e Novecento con la disamina delle tesi interpretative più salienti espresse dalle principali opere classiche sul tema (come quelle di Karl Marx, Max Weber e Joseph A. Schumpeter), si evince innanzitutto il fatto che il capitalismo continua a registrare cicli ricorrenti di espansione e di contrazione, di prosperità e instabilità. Ciò che avevamo finito col dimenticare: tanto si è prolungata in Occidente dal secondo dopoguerra in poi l’epoca della crescita economica e del benessere sociale, sulla scia delle politiche di matrice keynesiana e della diffusione del Welfare. Al punto che la critica tradizionale di timbro radicale del capitalismo aveva cessato da un pezzo sia di imputargli l’immiserimento della classe operaia sia di attribuire alle sue contraddizioni le cause principali di guerre e tensioni internazionali.
Se oggi si è tornati a riflettere sulle connotazioni e le linee di tendenza del capitalismo, lo si deve invece a una serie di motivi che, da un lato, hanno a che vedere con le rilevanti trasformazioni determinate su più versanti da una globalizzazione dei mercati su scala mondiale, da una quarta rivoluzione tecnologica post-fordista come quella indotta dall’avvento del digitale, e dal sopravvento dell’intermediazione finanziaria sull'“economia reale”, sulla produzione di beni e servizi. E che, dall’altro, hanno a che fare nell’ambito della Ue con l’aggravamento dei debiti sovrani, con una cronica disoccupazione, nonché con l’interruzione dell’ascesa sociale del ceto medio e la minaccia di un suo impoverimento.
Si è perciò riscoperta l’estrema variabilità di cadenze e configurazioni del capitalismo, senza tuttavia aver individuato finora quali “tangibili o pensabili alternative” (per dirla con l’Autore) potrebbero incidere su queste sue ricorrenti mutazioni di trend e fisionomia: anche se ciò non esime, beninteso, critici e avversari del capitalismo, da vecchie o nuove sponde, dal compito di cercare e di proporre idee concrete e soluzioni efficaci a tal riguardo.
Oggi intanto risulta essenziale scongiurare che si manifesti anche in Europa una deriva verso quella crescente disparità di reddito e di ricchezza che s’è andata affermando negli Stati Uniti, all’insegna di un modello capitalistico di governo dell’impresa “short-term” che ha finito per avvantaggiare in forme esorbitanti una ristrettissima élite di azionisti e manager di grandi multinazionali e società d’affari.
Jürgen Kocka, Capitalismo. Una breve storia , Carocci, Roma, pagg. 152, € 14