Corriere 2.6.17
Žižek : assurdo temere l’automazione
La scienza è l’orgoglio dell’Occidente
«Mi oppongo allo strapotere di Internet, ma l’avvento dei robot è un progresso»
di Luca Mastrantonio
Il
filosofo sloveno Slavoj Žižek si dichiara in ostaggio della Norvegia,
confinato nelle isole Svalbard, dove è stato in vacanza e da dove, in un
certo senso, non è mai tornato. «Non voglio sembrare paranoico, ma ogni
volta che apro la mia casella di posta elettronica o vado su un motore
di ricerca spuntano fuori offerte di viaggio, sconti per hotel,
suggerimenti su cosa fare in Norvegia. Ci sono stato con mio figlio, un
bel viaggio, sì, ora è finito! Cosa voglio dire? Non ci rendiamo conto
di quanti dati regaliamo e quanto siamo spiati dalle grandi aziende
digitali», racconta al «Corriere» Žižek, di cui è uscito da poco il
saggio Disparità (Ponte alle Grazie) e che sta per pubblicare con lo
stesso editore un altro libro, Il coraggio della disperazione , che esce
il 15 giugno in coincidenza con la partecipazione del filosofo al
premio Hemingway di Lignano Sabbiadoro, da lui vinto quest’anno.
Perché c’è questa differenza tra libertà percepita e libertà sottratta?
«Abbiamo
paura dell’esclusione, di restare fuori dal posto dove tutti vogliono
apparentemente esserci: club esclusivi, ma da milioni di iscritti! Come
Facebook o Twitter».
Come ci si può difendere?
«Ho un
cellulare che manda solo sms, per sicurezza, e non sono sui social, per
mancanza di tempo. A chi ci passa ore e ore farei fare lavori
socialmente utili. Un’idea stalinista, ma meno totalitaria di certe reti
social. Non potete farne a meno? Siate consapevoli però che consegnate
la vostra vita a degli algoritmi che possono venire utilizzati da
autorità statali e, peggio ancora, da aziende che privatizzano alcune
funzioni di controllo sulla società. Ha ragione Julian Assange su
Google: è, di fatto, una privatizzazione della Nsa».
La «disparità» è un concetto applicabile a vari ambiti: dall’economia alla tecnologia. Dov’è più evidente?
«Prendo
una coppia di concetti del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, che non è
di sinistra: la più grande disparità è tra quelli sono in e quelli che
sono out , tra i cosiddetti Paesi civilizzati, che hanno alti standard
di diritti sociali, libertà e sicurezza, e quelli che ne sono fuori.
Sloterdijk usa il termine “cupola”, per indicare un muro di vetro,
concavo, che ci fa vedere fuori e ci protegge, come in certi film di
fantascienza, alla Stardust . È un paradosso: a 25 anni dalla caduta del
Muro di Berlino viviamo in un mondo apparentemente più unito, e in
effetti ci sono meno differenze tra gli Stati, ma sono aumentate le
divisioni interne, sempre più profonde, e trasversali: ci sono abissi
tra ceti diversi e dentro uno stesso ceto, per motivi culturali e
religiosi, non solo economici».
Il muro di Trump rende il discorso
evidente. Nel suo talent reality show «The Apprentice» era noto per
come mandava via chi veniva eliminato.
«Anche se non verrà
costruito, il messaggio è arrivato. Il muro è psicologico, simbolico,
televisivo, con un effetto di realtà: distingue chi è in da chi è out .
Anche Brexit e il referendum di Erdogan vanno contro l’universalismo dei
diritti, a favore di una visione local-nazionalista per cui ognuno
comanda a casa sua; e va bene anche agli anti-imperialisti africani come
Mugabe, che apprezza Trump e il suo “America first”, che diventa
“Zimbabwe first”».
È fantapolitica immaginare Mark Zuckerberg, il padre di Facebook, come campione anti-Trump?
«Sarebbe
un’altra sciagura! Non mi piacciono gli imprenditori privati che
controllano lo spazio pubblico di milioni di vite. A Davos mostrano il
capitalismo dal volto umano, sembrano interessati a risolvere i problemi
del mondo e demonizzano i nazionalismi, ma mentono! I nazionalismi sono
la reazione al capitalismo e ci danno un falso senso di sicurezza, che è
pericoloso. I social network hanno meccanismi simili a regimi poco
democratici. In Cina vogliono misurare con algoritmi la fiducia sociale
dei cittadini in base a quello che fanno sul web, se guardano siti
dissidenti o pornografici. Come nella fiction Black Mirror : all’inizio
della seconda stagione, in un futuro vicino, la condizione sociale di
ognuno di noi dipende dai like che prende sul web».
Oggi si parla molto di «fake news», ma la disparità tra «vero» e «falso» è antica.
«Intanto
non demonizzerei la fiction in sé, a volte ci apre gli occhi. Penso ai
film distopici di Hollywood come Hunger Games: nato per ragazzi, mostra
alcuni problemi della nostra società meglio di tanti politici. Con la
guerra fredda c’erano due grandi narrazioni: il mondo libero contro il
mondo giusto, il liberismo contro il comunismo e ognuna produceva fake
news . Oggi è solo aumentata la possibilità di produrle e diffonderle.
La vera opposizione è tra modernità e relativismo. Penso alla destra
creazionista americana che rifiuta Darwin e alla sinistra
decostruzionista che vede ovunque il fascismo del potere e propone una
visione relativistica; la prima nega la biologia, la seconda, in America
Latina, equipara medicina e stregoneria. La scienza è unica, dobbiamo
essere orgogliosi di questa invenzione dell’Occidente».
La
tecnologia ci promette un mondo in cui i robot lavoreranno al posto
degli uomini. Molti temono di perdere il posto di lavoro. Timori
fondati?
«È assurdo. Dovremmo essere felici che l’auto si guidi da
sola e ci lasci guardare un film, leggere un libro, baciare una donna.
Sennò dobbiamo rinunciare alla lavatrice che ha permesso alle donne di
emanciparsi dal lavoro di lavandaie. È falsa la dicotomia uomo/robot, le
nostre vite sono già automatizzate, sempre più digitali; e sta mutando
la nostra coscienza, il rapporto con la vita e la morte».
Si riferisce agli assassini in diretta streaming sui social network?
«Il
punto fondamentale è lo schermo. Vediamo tutto lì, e ciò crea
l’illusione di una distanza, che sia un gioco. Non è un caso che sia
parallelo il boom di social network e videogame: si forgia una nuova
soggettività, in prima persona totale, del tutto immersa in una realtà
virtuale, da trance, da gioco. Si regredisce alla soggettività di Tom e
Jerry, i cartoon dove in una puntata si muore e in quella dopo si è
vivi. Così i videogiochi ti possono trasformare in zombie. Attraverso lo
schermo viviamo il tempo in modo circolare. Muori, giochi, muori
ancora, riparti. Niente trascendenza, solo ripetizione».
Se tutto può finire sullo schermo, nulla resta fuori dalla scena, nulla è osceno. È la fine dell’oscenità?
«Oggi
è tutto apparentemente visibile. A livello di piccole storie possiamo
vedere tutto: video rubati, intercettazioni, gossip. Con mille pezzetti
di gossip crei una biografia di Trump. Ma sui grandi processi sociali ed
economici, che anche da lui dipendono, siamo all’oscuro: sono più
oscuri e imprevedibili. Chi poteva profetizzare la crisi del 2008? E il
razzismo in Europa? Le nostre vite sono oscure a livello globale. Fin
troppo chiare a livello personale».
Il porno invade il nostro immaginario. Siamo schiavi del voyeurismo?
«Le
racconto una storiella. Un ragazzo è solo, su una isola deserta, con
una modella bellissima, diciamo Claudia Schiffer; in mancanza di
alternative, lei si concede e, dopo, il ragazzo le chiede un ultimo
favore: “Posso disegnarti i baffi e fingiamo che sei mio amico?” Lei
accetta, e lui che fa? Le racconta che ha fatto l’amore con Claudia
Schiffer! Abbiamo bisogno di testimoni, voglia di raccontare. La
sessualità è sempre potenzialmente esibizionista, con parole o immagini.
Non c’è però percezione tra esibizionismo privato e dimensione
pubblica, con YouTube o altri sistemi che possono portare l’esib
izionismo a ossessioni patologiche».
Anche i legami cambiano. Cosa ne pensa del «poliamore»?
«Sono
contrario. Avere più partner che soddisfanno aspetti diversi non è vero
amore. L’amore vero è disperato: scelgo te perché non posso
sopravvivere senza. Sono romantico in questo, monogamo e violento.
L’amore è violenza, sopraffazione su se stessi e gli altri, è esclusivo.
E osceno, oggi, perché i sentimenti sono estromessi da un mondo dove il
porno regna sempre di più».
Lei è ateo. In cosa crede?
«Nello
Spirito santo. Cito il mio amico Rowan Douglas Williams, arcivescovo
inglese, per cui il cristianesimo dice: Dio è morto, c’è solo lo Spirito
santo, che è una visione collettiva. Io ci credo in maniera
materialistica: ci siamo solo noi, ma almeno ci siamo. Trovo pericolosa
la visione spirituale pseudo-orientale che sta prendendo piede. I
torturatori peggiori spesso sono mistici. Non parlo solo dei terroristi
dell’Isis, ma del Brasile all’epoca della dittatura, dove molti
torturatori della polizia avevano una visione mistica della religione».