La Stampa 17.6.17
“L’Italia sarà regista del piano di difesa nel cuore dell’Africa”
Il
capo di Stato maggiore della Difesa Graziano: i nostri militari
istruttori d’eccellenza per contrastare terrorismo, instabilità e
migrazioni
di Francesco Grignetti
Anche alla
Nato ormai sono convinti che esiste un Fianco Sud, tanto è vero che nel
febbraio scorso è nato un Comando specifico con sede a Napoli. Ma la
difesa avanzata del Fianco Sud si è spostata in avanti. È arrivata al
cuore dell’Africa. E ormai nei documenti militari si parla sempre più di
Niger, Mali, Ciad, Burkina Faso. Per il generale Claudio Graziano, capo
di Stato maggiore della Difesa dal 2015, non è una sorpresa. «Nel 1992
ero al comando di una missione in Mozambico. Poi sono stato in
Afghanistan e in Libano. Ho vissuto davvero da vicino la trasformazione
che ci ha portati fin qui dalla Guerra Fredda».
Generale, parliamo allora di questo Fianco Sud che va molto oltre la crisi libica?
«Il
cosiddetto Fianco Sud, oltre ad essere una minaccia multiforme che noi
militari identifichiamo nel triangolo terrorismo-instabilità-migrazione,
include una realtà molto vasta che va dalla Penisola Arabica al Medio
Oriente, al Corno d’Africa, all’Africa del Sahel. L’istituzione di
questo nuovo Comando Nato, su cui il ministro Roberta Pinotti si è molto
spesa nelle sedi internazionali, è un indubbio successo
politico-diplomatico dell’Italia. Da lì si coordineranno meglio le
operazioni in corso nell’area, sia Nato, sia europee. Ma ci sarà anche
una sorta di cabina di regia per quella che è divenuta la nostra
vocazione principale: il “capacity building”, la creazione di forze di
sicurezza che sono un tassello importante per la stabilità».
Molti, di fronte al bollettino quotidiano degli sbarchi, si attendono interventi diretti dei militari.
«Guardi,
per dirla chiaramente, il “capacity building” è un impegno di lungo
termine, ma ineludibile. Attualmente noi italiani abbiamo 7000 militari
schierati in 30 missioni all’estero. Ormai sono quasi tutti istruttori
d’eccellenza: prepariamo forze convenzionali e forze speciali; i
carabinieri addestrano in maniera eccellente forze di polizia locali.
Anche l’addestramento degli uomini della Guardia costiera libica da
parte della missione europea Sophia è positivo: sembrano avere la
volontà di intervenire. Ma chiaramente quella libica è una situazione in
progress».
Prospettive?
«Vi è indubbiamente nel Fianco Sud
una certa debolezza delle organizzazioni statuali. Vi è una certa
povertà. Vi sono pericolose reti criminali. Ed è interesse
internazionale stabilizzare questi Paesi prima che le crisi precipitino.
È evidente però che la stabilità economica ha una sua fondamentale
importanza».
Eppure questa frontiera si va spostando in avanti. È
notizia di pochi giorni fa che la Ue finanzierà con 50 milioni di euro
una Forza congiunta per il controllo dell’area sub-sahariana. È
immaginabile che nuovi istruttori italiani andranno da quelle parti?
«La
fascia del Sahel, che è anche la fascia della povertà, è senza dubbio
la nuova frontiera del Fianco Sud. Ma i militari possono essere solo una
parte delle risposte. Il processo problematico dell’Africa,
probabilmente per colpa dell’Europa, è nato molti anni fa. Che in Africa
ci fosse un problema, lo sapevamo. Che ci siano milioni di persone
potenzialmente in movimento, sappiamo anche questo. Finalmente però c'è
una strutturazione. Precisiamo comunque che in Mali ci siamo già, visto
che partecipiamo alla missione Eutm (European Union Training Mission,
ndr) con 12 istruttori. E che abbiamo la leadership di un’altra missione
Eutm di altrettanta importanza in Somalia, con 130 militari. Stiamo per
assumere anche la guida della missione europea antipirateria Atalanta. E
non dimentichiamo che siamo massicciamente presenti in Iraq con altri
1500 uomini, che stanno addestrando le forze da combattimento irachene».
E in Libia?
«Come
è noto, curiamo i feriti di Misurata e la popolazione. Forniamo anche
assistenza e istruzione al personale sanitario locale. Il che è
anch’essa una forma di “capacity building”, cercando evidentemente anche
di guadagnare consensi in un’area così delicata. Dopodiché assistiamo
anche i feriti dell’altra parte: ce ne sono in cura sia al Celio sia
all’ospedale militare di Milano... Sulla Libia posso dire che la crisi
viene da lontano. Un po' per effetto delle primavere arabe, un po’ per
la peculiare situazione interna, che risente del tribalismo, era in
crisi già il regime di Gheddafi. Poi venne la rivoluzione. E
l’intervento Nato è stato successivo. Non faccio valutazioni politiche,
ma è una situazione verso la quale l’Italia ha un oggettivo interesse
specifico».
Generale, non la preoccupa il moltiplicarsi dei focolai?
«Il
numero di queste crisi, e anche il loro andamento ciclico, ci fa
pensare che dovremo convivere con una situazione di instabilità a lungo
termine. La trasformazione che stiamo facendo delle forze armate, vedi
il Libro Bianco, che speriamo di portare a compimento presto, prevede di
avere delle forze armate capaci di operare in un lungo periodo».
Il cittadino comune però vede missioni militari che non si esauriscono mai.
«Capisco
che ci si interroghi. In Libano ci stiamo dal 1976. Ma se i tempi del
dialogo non sono ancora maturi, andare via da lì, come da tanti altri
teatri, vedi anche il Kosovo, sarebbe pericoloso. Sono le parti che ci
chiedono tempo. E non avrebbe senso lasciare aree dove le crisi comunque
le controlli, per poi accorrere a tamponarle dall’esterno».