venerdì 16 giugno 2017

La Stampa 16.6.17
Slavoj Zizek
Perché non possiamo non dirci comunisti
Il filosofo sloveno ritira domani il premio Hemingway mentre arriva in libreria “Il coraggio della disperazione”


Nella scena finale di V for Vendetta (2006), migliaia di londinesi disarmati mascherati da Guy Fawkes marciano verso il Parlamento; lasciato senza ordini, l’esercito permette loro di entrare nel palazzo: il popolo s’impadronisce del potere. Quando Finch chiede a Evey quale sia l’identità di V, lei risponde: «Era tutti noi». D’accordo: un bel momento d’estasi, ma venderei mia madre come schiava per poter vedere V for Vendetta,
parte II: che cosa succede il giorno dopo la vittoria del popolo? Come (ri)organizzerebbero la vita di tutti i giorni?
Sulla scia delle grandi proteste popolari degli ultimi anni – assembramenti di centinaia di migliaia di persone nei luoghi pubblici, da New York, Parigi e Madrid ad Atene, Istanbul e il Cairo – l’«assemblage» [...], i suoi effetti performativi, la sua capacità di sfidare le relazioni di potere esistenti sono divenuti un argomento di moda nella riflessione teorica. E tuttavia verso di esso dovremmo mantenere una certa distanza scettica: nonostante i meriti, lascia immutato il problema fondamentale di come passare dagli assembramenti di protesta all’imposizione di un nuovo potere, e della diversità del funzionamento di questo nuovo potere dal vecchio. [...]
I rifugiati
Un’idea sotterranea circola fra i delusi della sinistra radicale, ripetizione più morbida della scelta terroristica successiva al movimento del 1968 (Action Directe in Francia e la Baader-Meinhof in Germania, ad esempio): solo una catastrofe estrema (preferibilmente ecologica) può risvegliare le masse e dunque dare nuovo impeto all’emancipazione radicale. La sua versione più recente riguarda i rifugiati: l’ingresso di un ingentissimo numero di rifugiati può forse rivitalizzare l’estrema sinistra europea. Trovo questo ragionamento osceno: a parte il fatto che una simile evenienza intensificherebbe enormemente la violenza xenofoba, il suo aspetto puramente folle sta nel mirare a colmare la lacuna dovuta all’assenza di proletari importandoli dall’estero, e dunque a ottenere la rivoluzione tramite un attore rivoluzionario surrogato…
Certo, potremmo sostenere che le ripetute sconfitte della sinistra siano solo tappe in un lungo processo formativo che potrebbe condurre alla vittoria: ad esempio, Occupy Wall Street ha creato le condizioni per il movimento di Bernie Sanders, che è forse a sua volta il primo passo verso un movimento di sinistra ampio e organizzato. E però, il meno che si possa dire è che, a partire dal 1968, il sistema di potere ha dimostrato una straordinaria abilità nell’utilizzare i movimenti di contestazione come fonte del proprio rinnovamento. Ma se il quadro è così desolato, perché non rinunciamo e non ci rassegniamo a un modesto riformismo? Il problema è, semplicemente, che il capitalismo globale ci mette davanti a una serie di antagonismi che non è possibile controllare e neppure contenere entro la cornice della democrazia capitalista globale.
Robot e lavoro
Lo slogan «i robot lavoreranno al posto vostro e lo Stato dovrà pagarvi il salario» è stato escogitato nientemeno che da Elon Musk, personaggio emblematico della Silicon Valley, fondatore di SolarCity e di Tesla: la forza-lavoro del futuro parrebbero essere i computer, le macchine intelligenti e i robot. E a mano a mano che gli impieghi umani verranno svolti dalle tecnologie, le persone avranno meno da lavorare e finiranno per dovere essere mantenute da trasferimenti governativi [...] Dunque oggi l’unica vera domanda è questa: sosteniamo la predominante accettazione del capitalismo come fatto di natura (umana), o l’odierno capitalismo globale contiene antagonismi abbastanza forti da impedirne l’indefinita riproduzione?
Ci sono quattro antagonismi di questo tipo. Riguardano (1) I beni comuni della
cultura nel suo senso più ampio di capitale «immateriale»: le forme immediatamente socializzate di capitale «cognitivo», in primo luogo il linguaggio, i nostri mezzi di comunicazione e istruzione, per non parlare della sfera finanziaria, con le assurde conseguenze della circolazione incontrollata di denaro virtuale;
(2) I beni comuni della natura esterna, minacciata dall’inquinamento umano: i vari pericoli specifici – il riscaldamento globale, la moria dei mari, ecc. – sono tutti aspetti del deragliamento del sistema complessivo di riproduzione vitale sulla terra;
(3) I beni comuni della natura interna (l’eredità biogenetica dell’umanità): con le nuove tecnologie biogenetiche, la creazione di un Uomo Nuovo – nel senso letterale di un cambiamento della natura umana – diviene una prospettiva realistica; e, da ultimo ma non da meno,
(4) I beni comuni dell’umanità stessa, dello spazio condiviso sociale e politico: più globale diventa il capitalismo, più sorgono muri e apartheid, che separano chi è DENTRO da chi è FUORI. La divisione globale viene accompagnata dal nascere di tensioni fra nuovi blocchi geopolitici (lo «scontro di civiltà»). Questo riferimento ai beni «comuni» giustifica la rinascita della nozione di comunismo: essa ci consente di vedere le progressive «recinzioni» dei beni comuni come un processo di proletarizzazione di coloro che vengono così esclusi dalla stessa sostanza della propria vita. Solo il quarto antagonismo, il riferimento agli esclusi, giustifica il termine «comunismo»: i primi tre riguardano di fatto la sopravvivenza economica, antropologica, persino fisica dell’umanità; il quarto, in ultima analisi, riguarda la giustizia. [...]
Il compito che ci troviamo ad affrontare è proprio la reinvenzione del comunismo, un cambiamento radicale che si spinge molto oltre una vaga nozione di solidarietà sociale. Poiché, nel corso del processo storico del mutamento, è il suo stesso scopo a dover essere ridefinito, possiamo dire che il «comunismo» va reinventato in quanto nome di ciò che emerge come scopo dopo il fallimento del socialismo.