il manifesto 16.16.17
Sul Russiagate nessuno vuole l’impeachment
Stati
uniti. È chiaro che Trump sta negoziando la sua sopravvivenza politica
con gli odiati «amici» del Grand Old Party, che ricambiano l’odio ma
sono consapevoli che la sua caduta potrebbe trascinarli con sé, non solo
nelle prossime elezioni di medio termine ma anche per un lungo periodo.
Il tema al centro del negoziato è molto chiaro, è semplice: la lobby
trasversale antirussa gli chiede di abbandonare del tutto e
definitivamente l’idea di una relazione speciale con Putin, che è il
perno della sua politica, estera e affaristica
di Guido Moltedo
Nel
giorno del suo 71° compleanno, il 14 giugno, Donald Trump ha appreso
una notizia che – dovesse trovare conferma e avere sviluppi- si può
riassumere così: nel prossimo futuro altri anniversari del genere non li
festeggerà più alla Casa bianca, ma più probabilmente, da
ex-presidente, in una delle sue opulente magioni.
L’indiscrezione
del Washington Post fa pensare proprio questo, quando rivela che «il
procuratore speciale dell’inchiesta sul ruolo della Russia nelle
elezioni del 2016 interrogherà alti dirigenti dell’intelligence come
parte di una più ampia indagine che ora include l’esame dell’ipotesi se
il presidente abbia tentato di ostruire la giustizia». Dunque, se il
Russiagate sembra ormai coinvolgere il presidente stesso, nel suo ruolo
attuale, è logico pensare che la via verso la sua messa in stato
d’accusa è ormai aperta, almeno dal punto di vista legale. Ma dal punto
di vista politico?
Il Washington Post da tempo sta cercando di
fare il bis del Watergate, lo scandalo scoppiato in seguito alle
rivelazioni dei suoi due reporter Bernstein e Woodward, che portò alle
dimissioni di Richard Nixon, prima che al Congresso si aprisse la
procedura d’impeachement. Rispetto ad allora, il botto sarebbe a livelli
nucleari, dal momento che la vicenda spionistica che vede di nuovo al
centro un presidente, chiama in causa questa volta una potenza
straniera, e quale potenza straniera, il nemico numero uno per
antonomasia.
Già, ma forse proprio per questo, la tenacia
investigativa del Washington Post non produrrà la conseguenza di cui
ormai tutti parlano e che molti auspicano: la destituzione del
presidente.
La faccenda è troppo grossa e gravida di conseguenze,
perché si voglia davvero aprire il vaso di Pandora del Russiagate. Mica
ne uscirebbero malconci solo il presidente e i suoi accoliti.
Chissà quanti altri ambienti, per non dire dell’insipienza dei servizi segreti che verrebbe esaltata dallo scandalo.
E con quali risvolti sul piano internazionale?
Se
il circuito mediatico è sempre più elettrizzato all’idea di vedere
messo ko il presidente repubblicano, già pregustando l’impennata di
copie vendute e gli indici d’ascolto alle stelle, non si può dire lo
stesso del mondo politico, sia in campo repubblicano sia perfino in
quello democratico. Come mai nessuno dei big ha finora pronunciato la
parola che comincia per «i»? I repubblicani, che hanno la maggioranza al
Congresso, sono in vista di un turno di elezioni di medio termine dove
possono provare a conservarla, la maggioranza. È meglio affrontarlo con
un presidente sotto inchiesta giudiziaria o con un presidente irrequieto
finalmente al loro guinzaglio?
È chiaro che Trump sta negoziando
la sua sopravvivenza politica con gli odiati «amici» del Grand Old
Party, che ricambiano l’odio ma sono consapevoli che la sua caduta
potrebbe trascinarli con sé, non solo nelle prossime elezioni di medio
termine ma anche per un lungo periodo. Il tema al centro del negoziato è
molto chiaro, è semplice: la lobby trasversale antirussa gli chiede di
abbandonare del tutto e definitivamente l’idea di una relazione speciale
con Putin, che è il perno della sua politica, estera e affaristica.
Una proposta che non potrà rifiutare.
Nei
giorni scorsi, nello Utah, ospite Mitt Romney, si sono ritrovati i
vecchi capi repubblicani che durante la campagna elettorale ne avevano
dette di tutti i colori, ben ricambiati, su Trump e sulla pericolosità
della sua elezione. Tutti uniti dall’ossessione anti-russa. Niente di
tutto ciò, questa volta, anzi solo parole gentili e rispettose per
Trump, perfino dal bisbetico McCain, tutti pronti a dare una mano al
vecchio The Donald.
E così, sempre nel giorno del compleanno di
Trump, il senato ha votato con 97 voti a favore e due contrari
l’indurimento delle sanzioni alla Russia, una clamorosa smentita della
linea presidenziale. I democratici, a livello di pezzi grossi, non sono
ancora scesi in campo con la bandiera dell’impeachment. Ancora alle
prese con un dibattito interno inconcludente e privi di una leadership
condivisa, osservano la saga repubblicana nella convinzione che la
tregua raggiunta tra Gop e Trump non abbia vita lunga, nell’idea che The
Donald non si farà mai mettere al guinzaglio e continuerà con la sua
condotta eccentrica.
Così, meglio che resti sulla graticola
mediatica, piuttosto che lo sconquasso di sistema prodotto da un
impeachment, avvantaggiandosi nel frattempo dell’imbarazzo dei
repubblicani, almeno fino al voto di midterm. Sullo sfondo, la polemica
sull’ultima delle quotidiane sparatorie, con Trump nell’inedita e
letteralmente incredibile veste di presidente che fa appelllo all’unità
degli americani. Lui, il presidente che ha costruito la sua fortuna
sulla divisione e l’odio sembra sgomento di fronte a un far west dove
anche lui stesso, non solo politicamente, è ad alto rischio.