mercoledì 14 giugno 2017

La Stampa 14.6.17
Quando l’avversario politico non ha il diritto di esistere
Pci “ateo e totalitario”, Dc “piovra”, Nenni “patetico”. Uno studio curato da Orsina e Panvini sulla delegittimazione reciproca in Italia dal ’45 a oggi
di Massimiliano Panarari


Prima dello storytelling negativo e dei negative spot, la politica non rifuggiva certo dal «corpo a corpo». Anzi. Ma faceva chiaramente ricorso ad altri metodi e format. E visto che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi (come diceva il prussianissimo generale Carl von Clausewitz), l’arma utilizzata in abbondanza nel passato - e mai dismessa - era quella della delegittimazione dell’avversario che veniva convertito in nemico totale.
Una tematica su cui l’accademia, tra storiografia (i lavori di Fulvio Cammarano e Stefano Cavazza, di Paolo Pombeni e di Angelo Ventrone) e politologia (Marc Lazar, fra gli altri), ha cominciato organicamente a lavorare negli ultimi anni. E da poco è uscito un libro che affronta in modo sistematico la questione, La delegittimazione politica nell’età contemporanea. Nemici e avversari politici nell’Italia contemporanea (vol. 1), curato dagli storici Giovanni Orsina e Guido Panvini (Viella, pp. 300, € 26); e sempre Orsina è il curatore dell’ultimo numero monografico del Journal of Modern Italian Studies (22/2017) dedicato a questa tematica nell’Italia dal 1945 al 2011.
Una lunga tradizione
La delegittimazione viene inquadrata nei termini di una tendenza di lunga durata (con radici nello stesso percorso di costruzione della nazione italiana), ma che ha conosciuto una serie di «salti di qualità» - come la «demonizzazione» degli avversari - a partire dal secondo dopoguerra, via via fino a Tangentopoli. Ad accomunare i sistemi istituzionali che si sono succeduti all’indomani dell’Unità è stata infatti la minaccia costante della crisi di regime: la delegittimazione reciproca ha finito così per svolgere un ruolo rilevante nei processi di formazione delle culture politiche nei decenni finali dell’Ottocento, per propagarsi successivamente nei partiti di massa, e vivere una delle stagioni più intense nel contesto della Guerra fredda.
La conflittualità in politica rappresenta la normalità, ma il di più rappresentato dalla delegittimazione consiste, come scrivono i curatori, nel «processo secondo cui uno o più soggetti negano ad altri il diritto di governare una nazione, e in termini più radicali addirittura di esistere, sostenendo che essi sono incompatibili con uno o più valori sui quali è fondata la sfera pubblica, indipendentemente dal fatto che quei valori siano o non siano iscritti nella Costituzione». La prima è una delegittimazione «per sfiducia», la seconda è «istituzionale», con alcune «regole di fondo»: a codificarla e costruirla sono le élite e gli intellettuali, che possono anche subirla, mentre non viene delegittimata la loro base (almeno prima dell’ingresso nella fase postmoderna, che ha fatto saltare anche queste linee di demarcazione).
Il gruppo di studiosi che ha contribuito al volume ha analizzato soprattutto riviste e periodici della nostra storia repubblicana, la cui cultura politica si è imperniata sulla frattura tra anticomunismo e comunismo, a colpi - da una parte - di «fattore K» e conventio ad excludendum, e - dall’altra - di una «delegittimazione dei delegittimanti» che proclamava l’incompatibilità dell’ideologia anticomunista con la Costituzione e i valori repubblicani.
Per la Democrazia cristiana, erano in particolare due fogli della destra interna - Concretezza (fondata nel 1955, e diretta da Giulio Andreotti) e Il Centro (nato nel ’62) - a suonare i tasti della delegittimazione contro i comunisti che avrebbero sicuramente tolto la libertà, instaurando il totalitarismo e imponendo il materialismo ateo, e contro il Psi cavallo di Troia del togliattismo. Sempre in ambito anticomunista, a menare le danze delegittimatrici ci pensarono Il Borghese longanesiano e, come racconta il capitolo di Eugenio Capozzi, alcune testate del movimento della Maggioranza silenziosa (Lotta europea, Iniziativa democratica e Resistenza democratica) che cannoneggiavano la «canagliocrazia» e la «rettorica partigiana» «paravento del comunismo».
Conflitto esacerbato
In campo avverso, si esercitò nel tiro al piattello della delegittimazione la stampa del Pci, per la quale la Dc era una «piovra», i cui tentacoli si erano infiltrati in ogni anfratto del potere e accarezzavano senza sosta la tentazione di instaurare un clima integralista e clericale, mentre la svolta autonomista del «patetico» e «miserabile» Pietro Nenni avrebbe portato il Partito socialista a «una serie di fallimentari fughe in avanti». C’era poi la galassia dei periodici della sinistra extraparlamentare, che negli anni Sessanta bersagliavano il riformismo, il governo del centro-sinistra e il gruppo dirigente del Pci che si era «imborghesito». E con il «regime» democristiano non furono per niente tenere neppure varie riviste dell’intellettualità azionista come Il Ponte, L’Astrolabio e Resistenza (studiate nel saggio di Luca Polese Remaggi).
La storia della politica nazionale può così venire letta come un pendolo tra il conflitto esacerbato - di cui la delegittimazione è una delle maggiori espressioni - e i tentativi da parte delle classi dirigenti di scongiurare le possibili crisi di regime.