Il Sole Domenica 11.6.17
Farsi santificare dal popolo
Con Napoleone inizia la «dittatura per mezzo del plebiscito». Un metodo antiliberale ancora oggi in voga e pieno di rischi
di Nadia Urbinati
L’appello
al popolo misura il rapporto tra governanti e governati. Usato da
leader cesaristi per vantare l’amore del popolo, il plebiscito, in cui
l’appello al popolo si manifesta, ha un rapporto obliquo con la
democrazia, che non è identica al consenso perché regola innanzi tutto
il ruolo del dissenso nella costruzione della maggioranza.
Il
plebiscito occupa un ruolo importante nella storia politica moderna, a
partire prima di tutto dalle costituzioni americane (dove venne usato
per confermare le carte con voto popolare) e poi, soprattutto, dalla
Rivoluzione francese, dove la forma plebiscitaria ha giocato ruoli
diversi e contradditori. In questo libro interessante e utilissimo, Enzo
Fimiani ricostruisce la storia comparata del plebiscito nei Paesi
europei moderni in un lasso di tempo di duecento anni, dal 1791 quando
venne usato in Francia per ratificare la Costituzione, fino al 1991
quando Boris Eltsin usa il “grimaldello plebiscitario” per sancire la
fine dell’URRS. Coloro che nella Francia rivoluzionaria si espressero a
favore dell’appello al popolo posero il problema della legittimazione
popolare delle leggi in maniera diretta: la Costituzione, disse Brissot,
potrà essere “perfetta” solo quando il popolo l’avrà ratificata.
In
effetti il plebiscito sembrò connettere al meglio popolo e Costituzione
e si iscrisse in un processo interessante di interpretazione della voce
sovrana in un tempo di attiva sperimentazione istituzionale, quando la
monarchia era ancora in campo, disposta di lì a poco a scendere in
diretta competizione con il popolo-re per la conquista del potere
sovrano. Pochi anni dopo, Napoleone avrebbe usato il plebiscito per
soddisfare le sue esigenze di “tribuno ambizioso” che cercava
nell’“entusiasmo irriflessivo” dei francesi il viatico supremo. Comincia
con lui la “dittatura per mezzo del plebiscito” che sarà destinata a
godere di larga e sinistra fortuna nell’Europa continentale, fino a
suggellare i regimi totalitari. Condizioni democratiche e condizioni
cesaristiche si sono dunque contese lo scettro mediante il plebiscito.
La svolta più dirompente verso la dittatura consensuale si ebbe con
Luigi Napoleone che, da Presidente della seconda Repubblica ne decretò
la fine con la forza del voto popolare, usato per sottolineare il
vincolo affettivo che lo univa direttamente alla nazione. La domanda
plebiscitaria che lo incoronò era furbescamente privata del punto
interrogativo: «Il popolo francese vuole il mantenimento dell’autorità
di Luigi Napoleone Bonaparte, e gli delega i poteri necessari per
stabilire una Costituzione sulle basi proposte nella sua proclamazione
del 2 dicembre 1851».
Dall’età rivoluzionaria viene la
consuetudine di assegnare all’appello al popolo la sorgente della delega
formale e totale non a governare semplicemente, ma a scrivere una nuova
Costituzione: dal Settecento in poi, la conquista del potere, fosse per
mano dei rappresentati eletti per suffragio o di un capo che si
auto-dichiarava rappresentante ideale dell’unità del popolo, è associata
alla scrittura di norme. La politica costituzionale cercò la
legittimità per via di consenso dunque, che poteva essere una tantum
(come con il ’golpista’ Napoleone III) o il primo atto di una politica
basata sul consenso elettorale. Darsi al capo e dare vita a una
sovranità democratica sono opzioni contraddittorie che possono partire
dal seme plebiscitario, a dimostrazione di quanto ambiguo sia il
principio del consenso popolare.
Un esempio di questa originaria
ambiguità è anche nella storia italiana, la cui unità nazionale sotto i
Savoia avvenne anche attraverso i plebisciti (a suffragio largo e anche
universale maschile) per legittimare un nuovo Stato i cui governi si
sarebbero di lì in poi retti solo sul consenso elettorale di una
ristrettissima minoranza di aventi diritto al voto. All’opposto sta
l’esempio che ci viene dall’epilogo della Resistenza: il referendum
istituzionale che nel 1946 fonda la Repubblica italiana darà vita ad
un’Assemblea costituente che scriverà la nuova Costituzione democratica
che non interpellerà il popolo alla fine dei lavori. Il grande potere
che l’Assemblea si è dato non introducendo l’obbligo del referendum
confermativo rifletteva la diffidenza dei costituenti nei confronti
degli appelli al popolo, usati con pompa propagandistica dal regime
fascista.
Nel plebiscito si manifesta una particolare
predisposizione a semplificare il voto popolare : non solo esso non è
un’istituzione con cadenza regolare ma mantiene un carattere di
eccezionalità (non è identificabile quindi con il referendum); è inoltre
indifferente all’espressione individuale del voto perché conta la
massa. Infine, il suo successo è fortemente associato alla
partecipazione più che alla conta dei voti: indire un plebiscito e
vincerlo su una partecipazione esigua è un segno di sconfitta. Ciò prova
che nonostante la sua identificazione tecnica con la democrazia
diretta, il plebiscitario vuole l’esaltazione dell’opinione e un
consenso entusiasta, non semplicemente una maggioranza di consensi. La
sua norma è, come recita il titolo del libro, “l’unanimità più uno”.
Come tale piace ai leader cesaristi e populisti, mentre incontra la
diffidenza dei democratici liberali.
Enzo Fiminai, L’unanimità più
uno. Plebisciti e potere, una storia europea (secoli XVII-XX) ,
Mondadori, Milano, pagg. XII, 404, € 19,80