domenica 11 giugno 2017

Il Sole 11.6.17
Storie atomiche
Le particelle nate in cantina
Settant’anni fa un esperimento tutto italiano sanciva la nascita della fisica subnucleare
di Vincenzo Barone


La scienza non procede linearmente, per accumulo, ma errando (in tutti i sensi), e una confutazione – come insegnava Karl Popper – vale più di una conferma. Guardiamo per esempio che cosa accadde settant’anni fa, in quel 1947 che a buon diritto può considerarsi l’anno di nascita della moderna fisica delle particelle.
Come in ogni storia che si rispetti, c’è un antefatto. Nel 1935 il più grande fisico teorico giapponese del XX secolo, Hideki Yukawa, aveva ipotizzato che le forze nucleari tra protoni e neutroni (responsabili della struttura dei nuclei atomici) fossero dovute allo scambio di una particella sconosciuta, duecento volte più pesante dell’elettrone. Quando, l’anno successivo, due ricercatori americani, Carl Anderson e Seth Neddermeyer, scoprirono una particella – chiamata «mesotrone» – che aveva proprio quella massa, i conti sembrarono tornare alla perfezione e i fisici si convinsero di aver raggiunto un punto fermo nella comprensione del mondo subatomico. Le cose dovevano rivelarsi più complicate.
A riaprire i giochi fu un bellissimo esperimento condotto nel pieno della seconda guerra mondiale da un gruppo di giovani scienziati italiani, non ancora trentenni: Marcello Conversi (1917-1988), Ettore Pancini (1915-1981) e Oreste Piccioni (1915-2002). Nell’estate del 1943, dopo il bombardamento del quartiere romano di San Lorenzo, vicino alla Città Universitaria, Conversi e Piccioni decisero di trasferire i loro apparati sperimentali negli scantinati del liceo Virgilio, considerato più sicuro perché vicino al Vaticano. Il trasporto degli strumenti per le vie di Roma avvenne con un carretto tirato a mano da un manipolo di studenti, mentre Edoardo Amaldi faceva da battistrada in bicicletta. Nel laboratorio improvvisato del Virgilio, che ospitava anche le armi di una formazione partigiana e un radiotrasmettitore del Partito d’Azione, cominciarono le misure sull’assorbimento dei mesotroni nella materia (Pancini, nel frattempo, era andato a fare il comandante dei GAP in Veneto). Come dirà Amaldi, principale artefice con Gilberto Bernardini della sopravvivenza e dello sviluppo della fisica italiana nel dopoguerra, «mantenere funzionante a tutti i costi questo esperimento era diventato una specie di simbolo della nostra volontà di continuità culturale e politica».
Dopo la liberazione di Roma, l’esperimento poté tornare all’università e a partire dalla primavera del 1945 riprese con l’apporto di Pancini. Ci volle ancora un anno di misure per giungere a una conclusione sorprendente: il mesotrone, pur avendo la massa giusta, non interagiva con i nuclei e non poteva quindi essere la particella di Yukawa. Il risultato, esposto in una breve nota sulla Physical Review all’inizio del 1947, fece subito il giro della comunità scientifica internazionale, destando un grande clamore. Tramontava l’ipotesi che la particella scoperta da Anderson e Neddermeyer fosse il mediatore della forza nucleare, e al tempo stesso sorgevano nuove domande. Che tipo di particella era il «mesotrone»? Qual era il suo ruolo?
Alcuni mesi di intenso lavoro teorico e sperimentale chiarirono la questione. Le osservazioni cruciali furono effettuate, sempre nel 1947, a Bristol e videro protagonista un altro grande fisico sperimentale italiano, Giuseppe Occhialini (un po’ più anziano dei suoi colleghi romani), assieme all’inglese Cecil Powell e al brasiliano César Lattes. Studiando le tracce di raggi cosmici su lastre fotografiche, questo brillante terzetto mostrò che il mesotrone – chiamato poi «muone» – era un corpuscolo prodotto dalla disintegrazione di una particella primaria leggermente più pesante, il «pione», la vera particella di Yukawa, lungamente cercata. E il muone? Nessuno lo aveva previsto e non se ne sentiva la necessità. Era – nelle parole colorite di Murray Gell-Mann, teorizzatore dei quark – «il bambino non desiderato che mette fine ai giorni dell’innocenza».
Le scoperte di Roma e di Bristol spalancavano un mondo nuovo, il mondo subnucleare, governato da due forze fondamentali, la forza forte e la forza debole, e fatto di tantissime particelle oltre a quelle ordinarie (protone, neutrone ed elettrone): particelle che sentono la forza forte, come il pione (se ne troveranno in seguito parecchie decine e si scoprirà che sono tutte composte da quark), o che interagiscono per effetto della forza debole, come il muone. Oggi sappiamo che l’ars combinatoria della natura produce l’immensa varietà delle cose a partire da dodici mattoni elementari, sei quark e sei leptoni (uno dei quali è il muone).
Tra tutti i protagonisti di questa storia, la disattenta Accademia svedese delle Scienze premierà con il Nobel nel 1950 il solo Powell, ma l’importanza dell’esperimento di Conversi, Pancini e Piccioni è testimoniata dalle parole di un grande fisico, solitamente avaro di elogi, Robert Oppenheimer, il quale, alla fine del 1947, ebbe a dire che i risultati dei tre italiani avevano prodotto «una vera rivoluzione nel nostro modo di pensare». Una rivoluzione nata in una cantina romana, sotto le bombe.
vincenzo.barone@uniupo.it