sabato 17 giugno 2017

Il Sole 17.6.17
A sinistra serve un programma, non dibattiti ideologici
di Paolo Pombeni


Baruffe a sinistra e nostalgia dell’Ulivo? C’è da sperare che l’attuale fase del dibattito sulle alleanze future fra il Pd, inevitabilmente renziano, e l’arcipelago che sta alla sua sinistra non ricada nella coazione a ripetere l’esperienza di alleanze fondate solo su transitorie e ambigue tregue ideologiche. Qualche sentore del genere c’è, perché alla fine tanto l’Ulivo quanto la famosa “Unione” fondavano l’accordo sulla pregiudiziale della diga contro la destra e contro Silvio Berlusconi, pensando che poi sul concreto programma di governo si sarebbero trovati aggiustamenti strada facendo. Così non fu.
Ora sembra che di nuovo la spinta all’accordo debba venire dall’obiettivo di sbarrare la strada ad un possibile ritorno di Berlusconi al governo: nostalgia del tempo che fu, più che analisi realistica di una situazione in cui il vecchio e ormai ex Cavaliere è tutt’altra cosa e in cui la destra ha altro volto e obiettivi accanto a un fenomeno di nuova marca come il movimento di Grillo e Casaleggio. Naturalmente ora come allora il tutto viene confezionato in un gran dibattito su cosa sia veramente di sinistra, nel rifiuto o meno della leadership di Renzi, nella apertura ai sussulti di un’opinione pubblica in cui si trova di tutto, dalle eterne mosche cocchiere alle ambizioni dei movimenti civici di uscire dal recinto dei partiti.
Ora come allora per cavarsi d’impaccio si spera nella mediazione del “papa straniero”, anzi in questo caso nel ritorno del “papa emerito”, cioè Romano Prodi. Eppure vi è non poca ambiguità in questo approccio, per la semplice ragione che Prodi una “linea” l’ha già buttata sul tavolo, ed è quanto sta scritto nel suo libro Il piano inclinato (Il Mulino). Chi l’ha letto si chiede ad esempio come possano pensare che quello che scrive Prodi sul pasticcio dei voucher possa suonare come un supporto alla linea di Mdp e Sinistra italiana, che la sua realistica analisi della crisi dei sindacati e il suo appello a favore del lavoro giovanile possa conciliarsi le intemerate dei filo-Cgil che abbondano nel campo che vuole definirsi progressista (e l’elenco potrebbe continuare).
L’idea di usare il Professore come testa d’ariete per ridimensionare e magari mettere fuori gioco Renzi non è una grande idea. Un Pd senza leadership e riconsegnato allora inevitabilmente alle lotte di corrente, per non dire di fazione, non potrà avere un ruolo di governo innanzitutto rispetto alle componenti della sinistra radicale con cui formare la futura maggioranza (ammesso ovviamente che i risultati elettorali vadano in quella direzione).
Il tema da porre per un’ipotesi di alleanza di governo che tenga insieme la sinistra riformista e la sinistra radicale (lasciamo perdere le elucubrazioni sul “centro” che servono solo per lanciarsi scomuniche) è inevitabilmente quello del programma, ma non del programma ideologico (nessuna nostalgia per il famoso “librone” dell’Unione), bensì di quello che contiene l’analisi realistica dei nodi da affrontare e la proposta delle azioni che ci si impegna a fare per scioglierli.
Senza un’impostazione di questo tipo si finirà, nel migliore dei casi, di ripercorrere il piano inclinato che fra anni Cinquanta ed anni Sessanta portò all’evirazione dell’alleanza di centrosinistra. Anche allora si perse tempo da parte della Dc a chiedere ai socialisti di abiurare alle loro costruzioni ideologiche e da parte del Psi a chiedere al partito cattolico di prestare fideiussioni per la sua apertura alle riforme di struttura. Allora però a soffiare sul fuoco c’erano le gerarchie cattoliche che volevano sabotare l’apertura a sinistra da un versante e il Pci che voleva sabotarla dall’altro. Erano forze più cospicue e con maggior peso sociale delle varie fazioni che oggi, aiutate magari dal sistema mediatico, lavorano per condizionare o per fare fallire la riuscita di un impianto classicamente bipolare della politica italiana.
Perché l’impianto bipolare, piaccia o meno, suppone convergenze di natura riformistica (per default si dice “al centro”) fra le componenti dei due poli e non fughe nell’utopismo che spesso è solo una maschera per garantire, dall’una e dall’altra parte, il mantenimento di sicure rendite di posizione nel teatrino della politica.