Il Sole 11.6.17
I diari del sindacalista
Trentin e la bussola del cambiamento
di Giuseppe Berta
Tra
la fine degli anni 80 e l’inizio dei 90 il sindacato italiano andò
incontro a una complessa e contraddittoria stagione di mutamento che
doveva incidere durevolmente sui suoi assetti interni. Le confederazioni
dei lavoratori passarono da una fase di lacerazioni e contrasti a una
ricomposizione unitaria che avvenne grazie al Protocollo Ciampi del
1993, l’accordo che diede il via al prolungato periodo della
concertazione, assicurando ai sindacati un ruolo pubblico che finì col
generare un inaridimento delle loro strategie contrattuali e di
rappresentanza.
Quell’epoca di crisi e di trasformazione del
sindacato e delle sue strategie coincise col momento finale della
carriera di Bruno Trentin, segretario generale della Cgil dal 1988 al
1994. Trentin era la figura di maggiore spicco, per rilievo politico,
carisma e prestigio culturale, della scena sindacale. E tuttavia i suoi
Diari di quegli anni, pubblicati dalla Ediesse grazie alla cura
affettuosa e tenace di Iginio Ariemma, rivelano con quali dubbi e anche
travaglio interiore egli abbia assunto la più alta responsabilità
all’interno di un sindacato cui apparteneva da quarant’anni.
Quando
Trentin, allora sessantaduenne, prese su di sé quel compito, con una
certa intima riluttanza, la Cgil non attraversava una buona congiuntura.
Nell’estate del 1988 alla Fiat era stato siglato un accordo separato,
che la Fiom aveva rifiutato di sottoscrivere quando sembrava cosa fatta.
Il segretario generale Antonio Pizzinato, un caparbio operaio di Sesto
San Giovanni, era osteggiato all’interno dell’organizzazione, al punto
che sarebbe stato costretto ad abbandonare la carica. La scelta cadde su
Trentin, il quale l’accolse con un senso profondo della crisi cui era
soggetta l’azione collettiva dei lavoratori. Chi legga ora, a distanza
di quasi un trentennio, le sue pagine di diario, spesso segnate da un
intenso disagio e da una dolorosa percezione di inadeguatezza che non
risparmia nessuno, tantomeno l’autore, non tarderà a rendersi conto di
quanta fatica e sofferenza personale sia costata a Trentin un’opera di
direzione destinata a rimanere come uno sforzo solitario, largamente
incompreso, soprattutto nelle file della sua organizzazione.
La
missione contrattuale del sindacato appariva acefala a Trentin, ove non
fosse stata orientata da una volontà acuta di trasformazione. Ciò che
mancava al sistema sindacale era la considerazione della portata del
mutamento che stava avvenendo entro il mondo del lavoro. La quotidianità
delle confederazioni procedeva con i suoi rituali senza misurarsi con
un cambiamento tale, secondo Trentin, da alterare la nozione stessa
della prestazione di lavoro. Così, le lunghe annotazioni di diario
testimoniano di una disaffezione del segretario generale della Cgil
verso le pratiche interne della confederazione, scandite dalle logiche
delle correnti, dal personalismo dei dirigenti, dall’insipienza della
politica.
Trentin vorrebbe che fosse la bussola del mutamento a
determinare la strategia sindacale e invece si ritrova a scontrarsi con
opportunità contingenti e, a volte, opportunismi personali. Di qui la
piega risentita della sua scrittura, il rifugio privato in cui può
esprimere fino in fondo il suo spaesamento di fronte alle «miserie»
delle situazioni nelle quali deve operare. I diari testimoniano delle
sue grandi passioni private come la montagna e la lettura, dove accumula
senza tregua note e osservazioni che progetta di far confluire in un
libro destinato a rimanere come il proprio segno sulla corteccia di un
albero (diverrà La città del lavoro, la sua riflessione più ambiziosa,
edita da Feltrinelli).
Grazie a queste risorse private Trentin
combatte la depressione che lo incalza, specie nei giorni più oscuri,
come nell’estate del ’92, quando obtorto collo firma l’intesa con cui il
Governo Amato fa fronte alla crisi finanziaria del Paese. Trentin
apporrà la sua firma soltanto per offrire le proprie dimissioni un
attimo dopo, dicendo di averlo fatto unicamente per non pregiudicare una
situazione già di per sé gravissima. L’anno seguente, la Cgil
sottoscriverà invece con convinzione il Protocollo Ciampi, di cui
Trentin sarà un protagonista. Ma nella sfera privata, in procinto di
lasciare la Cgil, la sua attenzione è concentrata sul mutamento
economico e sociale che permetterà di coniugare lavoro e libertà.
Era
un’utopia quella di Trentin? Almeno in parte sì, anche perché la
dimensione utopica gli era congeniale. Ma aveva probabilmente ragione a
credere che l’azione sindacale per rigenerarsi deve calarsi nelle grandi
trasformazioni del lavoro del proprio tempo e cercare nella
soggettività dei nuovi lavoratori l’impulso per il futuro.