Il Fatto 11.6.17
Nei diari di Trentin una lezione di etica per tutta la sinistra
di Giorgio Meletti
Intervistato
dall’Espresso, Pier Luigi Bersani ha così commentato la sua uscita dal
partito di cui è stato leader: “Ora mi sento me stesso, libero di dire
quello che penso”. Un’antica tradizione culturale della sinistra
considera il dire ciò che si pensa un lusso anziché un dovere. Sarebbe
ora di calcolare quale prezzo assurdo sia stato pagato finora al pur
nobile dovere di umile discrezione e disciplina.
L’Ediesse,
editrice della Cgil, pubblica in questi giorni i diari di Bruno Trentin
degli anni 1988-1994, quelli in cui guidò il primo sindacato italiano.
Scelta di grande coraggio perché rende noto a tutti che cosa pensasse
Trentin dell’organizzazione per la quale ha speso l’intera vita.
Impressiona come il capo della Cgil, già 30 anni fa, affidasse al suo
diario privato l’analisi della “disperata volontà di un ceto burocratico
di sopravvivere con il suo vecchio bagaglio culturale, (…) un ceto
squalificato e sempre più depotenziato nelle sue stesse capacità
professionali”. E la disperata riflessione “sul cumulo di corruzione, di
vessazioni, di arbitri che regolano la vita del sindacato reale” e su
sindacalisti “che sentono venire meno la barriera di omertà e di savoir
vivre che ha fatto smarrire a molti di loro e di noi ogni ansia, ogni
dubbio di carattere morale sul senso del loro lavoro”.
Quanti
lavoratori hanno assistito al declino inesorabile del sindacato,
pensando le stesse cose di Trentin senza mai trovare una sponda
autorevole per i loro dubbi? Chissà con che rimpianto oggi, ormai
anziani, apprenderanno che Trentin era d’accordo con loro ma riservava
al diario privato le sue analisi più esplicite. È stato un uomo di
immenso spessore culturale ed etico. I suoi diari si raccomandano a
lettori di ogni età per scoprire un carattere di spettacolare nobiltà,
soprattutto in confronto allo stato deplorevole del discorso pubblico
attuale. Così commenta la sua elezione al vertice della Cgil: “È
cominciata la nuova storia della mia piccola vita (…) Mi manca il tempo
per leggere e persino per informarmi. Bisogna che mi difenda”. Non
avrebbe senso il processo postumo alle intenzioni di chi ci ha lasciato,
troppo presto, dieci anni fa. Eppure, leggendo i suoi diari, non si
resiste a chiedersi quale contributo positivo avrebbe dato al destino
dei lavoratori italiani e di tutta la comunità nazionale se certe cose,
anziché affidarle al diario, le avesse dette.
A cavallo tra gli
anni ‘80 e ‘90 il segretario della Cgil osservava profeticamente anche
le manovre di un ceto politico intento a predisporre la distruzione del
Paese. I dirigenti del Pci vivono la svolta di Achille Occhetto dopo
l’89 come “uno scontro di schieramenti, costruito sulle invettive, le
etichette, i posizionamenti dell’avversario”, e il duello tra Massimo
D’Alema e Walter Veltroni per la segreteria del Pds (luglio ’94) è “una
penosa vicenda” che si svolge “in modo isterico, personalistico e
selvaggio”. Giudizi severi ma mai condizionati da avversioni personali,
ché anzi in ogni riga traspare l’affetto per il suo mondo, la sinistra.
Giudizi che si possono anche considerare sbagliati. Non importa.
Ma
la lezione di etica che i diari di Trentin danno a tutta la sinistra
scombussolata di questo 2017 è preziosa. Andiamo verso elezioni
politiche drammatiche, non a una partita alla Playstation. La posta in
gioco non è “vinciamo noi, vincono loro” e neppure il destino della
mitica sinistra, bensì il futuro dell’Italia e dei suoi figli. Tutti i
leader, veri o sedicenti, aspiranti federatori e opportunisti, quelli
che si credono furbi, si leggano i diari di Trentin e imparino a dirci
sempre che cosa pensano davvero. Senza la paura di passare per fessi:
tanto quelli astuti si sono già fatti male da soli.