il manifesto 9.6.17
Pisapia e il miraggio del vecchio centrosinistra
di Piero Bevilacqua
E’
indubbio che l’idea di Giuliano Pisapia di federare i gruppi frantumati
e dispersi della sinistra contiene elementi di dinamismo politico da
apprezzare. Soprattutto alla luce dell’inerzia che oggi sembra
paralizzare quel campo, incapace peraltro di far leva e valorizzare le
forze che si sono aggregate intorno alla campagna referendaria coronata
da successo il 4 dicembre. Ma l’apprezzamento si arresta qui. Per il
resto la sua iniziativa appare il vecchio tentativo di ricucitura di un
ceto politico diviso, in vista della competizione elettorale. Come
ricordano Anna Falcone e Tomaso Montanari (il manifesto, 6 giugno).
In
tutta la condotta che ha caratterizzato la sua manovra nelle ultime
settimane – soprattutto l’ambizione di ricomporre un centro-sinistra con
il Pd di Renzi – mostrano una superficialità di lettura della
situazione italiana sconcertante e drammatica. Ma come legge Pisapia, se
non le tendenze di fondo del capitalismo degli ultimi 30 anni, la
storia italiana degli ultimi 3 anni? Davvero Renzi è personaggio da
confederare in un nuovo (?) centro-sinistra? E qui non voglio riferirmi
alla persona.
Negli ultimi giorni, peraltro, i suoi ex alleati, da
Alfano a Cicchitto, hanno aggiunto pennellate shakespeariane al
ritratto del leader, campione di tradimenti e menzogne. I cattolici,
quando sono inclini al cinismo, per una misteriosa chimica teologica,
diventano imbattibili in materia.
Ma è più importante osservare la
politica che egli ha condotto con il suo governo negli ultimi 3 anni. I
cui risultati fallimentari sono facilmente osservabili nel ristagno
sostanziale dell’economia, nella persistenza inscalfita della
disoccupazione, nella crescita della povertà assoluta e relativa, nella
crescente marginalità del Sud, nella riduzione delle risorse alla
ricerca e all’Università.
Quello che stupisce in coloro che si
ostinano a voler trascinare Renzi nella famiglia della sinistra è il non
riuscire a vedere che dietro la facciata pubblicitaria del giovane
condottiero c’è una politica non solo moderata, ma vecchia, la stessa
che da anni sta condannando il Paese a una lenta consunzione.
E’
sufficiente esaminare tre iniziative strategiche del suo governo per
comprendere che l’allora presidente del consiglio ha condotto delle
politiche esattamente inverse alle necessità della fase storica attuale.
L’abolizione
dell’Imu sulla prima casa – strizzata d’occhio ai ceti abbienti – ha
accentuato la tendenza storica alle disuguaglianze sociali, quella
ricostruita su grandi serie da Thomas Piketty, quella denunciata oggi
persino dall’Ocse, come una causa rilevante della stagnazione economica
internazionale.
Da noi la disuguaglianza ha una connotazione
ancora più grave: essa si presenta come emarginazione delle nuove
generazioni: disoccupazione, precarietà, lavoro gratuito, alti costi
delle rette universitarie, scarse risorse per la ricerca, per il welfare
delle giovani coppie (case, asili, scuole materne).Le figure che
portano creatività, energia e spirito innovativo in ogni ambito della
vita sociale vengono messe ai margini.
Ebbene su questo punto
occorre oggi a sinistra una intransigente chiarezza. L’idea di una
politica che raccolga i consensi dei ceti moderati è una vecchia pratica
che può portare a qualche successo elettorale, ma che non va alla
radice dei problemi. Alle famiglie dei ceti moderati occorre dire con
coraggio, che senza una importante redistribuzione della ricchezza,
senza un loro apporto economico al rilancio del Paese i loro figli e
nipoti andranno via, l’esclusione sociale si accrescerà, L’Italia avrà
un incerto futuro. E nessuno deve dimenticare che da noi la marginalità
sociale si trasforma in humus per la criminalità grande e piccola.
Il
secondo punto strategico riguarda il lavoro. Con il Jobs act Renzi ha
continuato la vecchia politica di flessibilità del lavoro. E’ la stessa
all’origine della crisi mondiale iniziata nel 2008. I bassi salari e la
precarietà del lavoro negli Usa, surrogati dall’indebitamento delle
famiglie per il sostegno alla domanda, costituiscono il modello di
sviluppo che è rovinosamente crollato. E occorrerebbe ricordare che sul
piano storico esistono le prove del fatto che la disponibilità di
manodopera a buon mercato ritarda gli investimenti in innovazione
tecnologica.
Ai primi del ‘900 i trattori hanno rapidamente
conquistato le spopolate campagne degli Usa. In Italia la vasta presenza
del bracciantato povero ha ritardato a lungo l’ingresso delle macchine
in agricoltura.
Infine la Buona scuola. Può sembrare il punto
strategicamente meno rilevante. Al contrario, è quello che mostra il
provincialismo e l’arretratezza culturale del progetto di Renzi. Mandare
i nostri studenti in qualche fabbrica a “fare esperienza”, è una
battaglia di retroguardia. Riporta le lancette della storia all’età
delle manifatture. Oggi i profitti capitalistici non sono assicurati da
una qualche manovalanza ben addestrata, ma dalla creatività, dalla
invenzione, dalla capacità di immaginare nuovi prodotti e servizi.
Serve
cultura, sapere complesso, non abilità manuale ed esperienza aziendale.
Anche sotto il profilo strettamente capitalistico è utile studiare
Platone, piuttosto che assistere alla confezione degli hamburger da
McDonald.