il manifesto 21.6.17
Portare in parlamento il mondo della sinistra e di chi non vota più
Sinistra. Costruire nuova rappresentanza fuori dai giochi autoreferenziali della politica
Tomaso Montanari
C’è
una spaccatura profonda, a sinistra. Ma non è quella tra le sigle, i
nomi, i cartelli: è quella tra chi è dentro il gioco autoreferenziale
della «politica» praticata e chi ne è fuori. Una spaccatura che
contribuisce in modo decisivo ad allargarne una ancora più profonda:
quella tra chi vota e chi non vota più.
Per questo gli interventi
centrali dell’assemblea di domenica al Brancaccio sono stati, per me,
quelli di Andrea Costa (Baobab) e Giuseppe De Marzo (Rete dei numeri
pari, Libera).
Hanno fatto capire come non esista più nessun
rapporto tra il loro lavoro quotidiano (politico, se ce n’è uno) e
l’idea stessa di rappresentanza parlamentare. Detto in altri termini:
chi ogni giorno davvero cambia lo stato delle cose a favore degli
ultimi, cioè chi riduce concretamente le diseguaglianze, ha ormai messo
la croce sull’idea stessa di incidere sul processo democratico.
La
proposta che Anna Falcone ed io abbiamo fatto è quella di portare quel
mondo in Parlamento. Di riannodare i fili tra questa sinistra delle cose
e i partiti (come Sinistra Italiana e Possibile) che combattono la
stessa battaglia, ma che da soli non bastano.
La partecipazione e la rappresentanza come strumenti per costruire eguaglianza.
Non
per caso queste due cose sono intrecciate nell’articolo 3 della
Costituzione, che abbiamo eletto a bussola di questo processo. E invece
sono anni che giochiamo al bricolage dello Stato avendo rinunciato allo
Stato, che è il bene comune da cui dipendono tutti gli altri beni
comuni.
I giornali ne parleranno solo quando questo processo sarà diventato inarrestabile: ed è a questo che stiamo lavorando.
Per
ora di cosa parlano, i giornali? Del risiko di cui sopra. Le cui
coordinate fondamentali, se ho ben capito, sono le seguenti: per una
parte del gruppo dirigente fuoriuscito dal Pd è difficile tornare sotto
l’ombrello di Matteo Renzi. Ma (come avverte Michele Serra) bisogna che
questa «sinistra» stia con Renzi, perché sennò non va al governo.
Quale
la via d’uscita? Eccola: Giuliano Pisapia otterrà «discontinuità». Una
volta ottenuta, si tornerà al centro-sinistra unito, dove il centro è il
Pd di Renzi.
Lo schema è ancora
Bertinotti-che-condiziona-a-sinistra-Prodi: ma con Pisapia e Renzi. Cioè
tutto uguale, anzi tutto incredibilmente spostato a destra. Se il
finale sarà questo vedremo un’astensione record e un Movimento 5 Stelle
di nuovo al comando.
Noi diciamo: un’altra strada è possibile.
Abbiamo
detto con forza che l’obiettivo dovrebbe essere costruire
rappresentanza. E abbiamo provato a spiegare perché non ci convince più
la retorica della governabilità, della sinistra maggioritaria, della
sinistra di governo.
Intendiamoci: la sinistra (intesa come coloro
che hanno interesse a redistribuire la ricchezza) è maggioritaria nelle
cose perché, come dicevano a Zuccotti Park, «siamo il 99%». Ma la
realtà è che in questi ultimi vent’anni la sinistra italiana ha
scambiato i fini con i mezzi: il governo è diventato un fine, e ci siamo
dimenticati a cosa serviva, governare. «Ci siamo dimenticati
dell’uguaglianza», ha scritto Romano Prodi nel suo ultimo libro.
Domenica
ho fatto una lista (parziale) di ciò che dobbiamo al centro-sinistra:
riscritture della Carta votate a maggioranza; chiusura
sull’immigrazione; precarizzazione del lavoro; privatizzazioni,
liberalizzazioni, alienazioni di patrimonio pubblico; deliberata assenza
di una legge sul conflitto di interessi; smantellamento finale della
progressività fiscale; federalizzazione dei diritti; e, sì, anche una
guerra costituzionalmente illegittima (non ho detto illegale) che
rappresenta il contributo dell’Italia alla stagione delle «operazioni di
polizia internazionale».
Per essere chiari: tutto questo precede
Renzi. E serve a dire che il problema sarebbe stato immenso anche se
fossimo ancora al governo Letta.
Renzi ha rappresentato un salto
di quantità mostruoso, ma non una discontinuità di politiche. Si può
dire che le sue scelte – continuate, salvo dettagli, da Gentiloni –
radicalizzano un processo ventennale che ha fatto dell’Italia il paese
europeo in cui la diseguaglianza è maggiormente cresciuta. Che è
esattamente il processo per cui la Sinistra si è ridotta al nulla, e
metà del Paese, quella sommersa, non vota più.
Ecco: deve essere chiaro che la rotta è invertita. Che la rotta è diametralmente opposta a tutto questo.
Al
netto di qualche fischio, il messaggio dell’assemblea di domenica è che
l’unico modo per fare davvero unità a sinistra è proprio invertire la
rotta, e puntare ad un orizzonte diverso. Per farlo ci vuole un processo
aperto a tutti coloro che vogliono condividere una nuova rotta: quella
(per esempio) dell’articolo 18, di una vera progressività fiscale, di
una seria tassa patrimoniale, di una strutturata politica di accoglienza
dei migranti, di un consumo di suolo zero, di una scuola pubblica e
un’università non aziendali, di una tutela pubblica del patrimonio
culturale.
Spero che saremo in tanti: perché se l’obiettivo è
costruire (come dice Corbyn) «a country for the many, not the few»,
allora ci vuole una sinistra di tutte e di tutti.