lunedì 19 giugno 2017

il manifesto 18.6.17
Gramsci il rivoluzionario ridotto a pedagogo
Casi critici. Il rapporto con l’Urss, l’eliminazione di Bordiga dalla segreteria del Pci, Torino e la fase armata del partito... Angelo d’Orsi (da Feltrinelli) tratteggia un «Gramsci» ancorato a un’idea «intellettuale» del capo comunista: superata
di Giorgio Fabre

L’ultima «fatica» di Angelo d’Orsi s’intitola Gramsci Una nuova biografia (Feltrinelli «Storie», pp. 387, euro 22,00). Il «nuova» del titolo si riferisce al fatto che ne esiste una «vecchia», quella gloriosa e godibilissima di Giuseppe Fiori, che risale a cinquant’anni fa; rispetto a quella, questa ha rinnovato la bibliografia (con qualche lacuna). Mentre non contiene documenti o dati nuovi.
Non ci si sofferma qui sulla recensione impietosa del libro fatta da Nunzio Dell’Erba e pubblicata nel suo blog sull’Avanti! l’8 maggio scorso con il titolo Gli studi e gli scritti su Gramsci, tra fanatismo e pregiudizi storici. Dell’Erba ha rilevato diversi svarioni contenuti nelle sole prime pagine del libro: notizie presentate per nuove che invece non sono tali (clamoroso che a p. 24 d’Orsi scriva che «solo in tempi recenti» si sia arrivati alla conclusione che Gramsci era affetto dal morbo di Pott, diagnosticato dal professor Arcangeli nel 1933 – come segnala peraltro lo stesso d’Orsi a p. 345), errori nei riferimenti bibliografici, fonti a stampa usate ma non citate e così via. La recensione è perfino troppo impietosa, ma le osservazioni valgono un po’ per tutto il libro.
Questa «nuova» biografia non è neppure leggibilissima ed è tirata via, forse al fine di cogliere la scadenza dell’anniversario della morte. Inoltre, si sofferma a lungo su dettagli pruriginosi ma non certo fondamentali e perfino problematici come le vicende à trois o addirittura à quatre del grande sardo con le sorelle Schucht (chissà se è tutto vero). O dedica pagine e pagine che ribadiscono la ragione «pedagogica» (addirittura «ossessione pedagogica», a p. 315) che avrebbe sospinto fin da giovane il leader comunista.
Comunque sia, la vita di Gramsci continua a essere rilevantissima e poi, richiede ancora di essere esplorata. Magari anche attraverso questo libro. Interessante è ad esempio che d’Orsi discuta come «filo-mussoliniano» un controverso articolo di Gramsci del 1914; ma occorre ancora lavorarci.
Segnalo poi in particolare un punto non secondario: quanto Gramsci fu effettivamente un concreto rivoluzionario e un capo rivoluzionario? Per d’Orsi fu soprattutto uno studioso di lingue e un filosofo. Sottolinea ad esempio che a Torino nel 1920-’21, nel momento più delicato della sollevazione operaia, «mancava un Lenin» (p. 118). È un punto ancora in gran parte da chiarire. La storiografia del Pci del dopoguerra, tutta proiettata a costruire l’immagine di un partito «di governo», ha avuto difficoltà a fare i conti con quella fase rivoluzionaria – e militarizzata – della propria storia. E invece le officine torinesi nel 1920 ma anche parecchi anni dopo, erano armate fino ai denti. Si veda in proposito il bel saggio di Roberto Gremmo La militarizzazione degli operai torinesi, uscito su «Storia ribelle» nell’autunno 2005 (Gremmo ha in uscita, per settembre-ottobre, un intero volume di documenti). E il partito era anche militarizzato.
Su questo occorre rimeditare con attenzione i testi gramsciani, come quello anonimo, ma attribuito a Gramsci da Renzo Martinelli (con il quale concordo): intitolato I nostri compiti militari, uscì alla macchia nel giugno 1925 e parla senza mezzi termini di «azione armata e violenta». Se non si analizza Gramsci a 360 gradi si finisce per trasformarlo in un «capo» verboso o, appunto, «pedagogo», mentre fu un autentico capo rivoluzionario, anche duro e spregiudicato: si pensi a come fece fuori Bordiga da segretario del partito, questione qui praticamente ignorata. Questa durezza di Gramsci, insieme alla sua lucidità e acuta intelligenza, sono aspetti che stanno emergendo ancora meglio dall’Edizione nazionale delle sue opere pubblicata dall’Enciclopedia Italiana. Segnalo ad esempio l’ultimo volume degli Scritti, con i testi gramsciani del 1917. Forse, prima di riscrivere una biografia di Gramsci sarebbe meglio aspettare che quell’Edizione giunga quanto meno a buon punto, mentre al suo completamento mancano ancora molti volumi.
L’impressione è che d’Orsi sia rimasto ancorato a una vecchia idea tutta «intellettuale» del capo comunista. Idea che invece, ormai da diversi anni, è stata messa in discussione, per far emergere un Gramsci non solo molto più concreto, ma anche fornito di uno sguardo sul mondo internazionale più solido e perfino più vasto e articolato di quanto si potesse immaginare. Anche su questo il libro è carente. Penso per esempio alle interessanti pagine dei Quaderni sul Mein Kampf e naturalmente al suo rapporto con l’Unione sovietica, temi ultimamente sviluppati da vari studiosi e con i quali d’Orsi ha poca dimestichezza. D’Orsi ignora del tutto il fondamentale saggio di Silvio Pons su «Studi storici» del 2004, da cui sono emersi documenti centrali sul rapporto di Gramsci con l’Urss, un paese (il paese di Stalin) su cui si appoggiò seriamente durante la prigionia, ma anche prima, con buona pace della vulgata antisovietica che si è voluta imporre nel dopoguerra. E poco spazio, su questo punto, d’Orsi lascia persino al libro di Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci e alle pagine, talvolta discutibili ma rilevanti che esso contiene sui rapporti tra Gramsci e Mosca .
Talvolta viene il sospetto che le questioni sovietiche non gli interessino. Succede così anche, forse non a caso, che (p. 262) Anatolij Lunacarskij, il celebre ministro della Pubblica istruzione amico di Lenin e uno dei veri «motori» della rivoluzione, divenga «ambasciatore russo a Roma», il che Lunacarskij non è mai stato. D’Orsi deve aver forse ricavato la notizia da un’infelice voce della Treccani online (http://www.treccani.it/enciclopedia/anatolij-vasilevic-lunacarskij/).
Altro esempio. D’Orsi si sofferma a lungo sulla famosa lettera del 14 ottobre 1926, quella che Togliatti fermò a Mosca perché Gramsci vi aveva espresso dei dubbi sul conflitto in corso tra Stalin e Trotzki. Ma poi ignora completamente la lettera che proprio Pons ha trovato nell’archivio di Stalin, scritta dall’ambasciatore Keržencev (era lui l’ambasciatore a Roma, non Lunacarskij) al capo sovietico. Era del 6 ottobre e annunciava quella del 14, come Gramsci gli aveva chiesto di riferire. Il segretario del Pcd’I aveva indicato all’ambasciatore «tutto il danno» causato dai trotzkisti all’estero, anche al partito italiano. Il vero Gramsci era un politico che conosceva benissimo i rapporti di potere, anche in Unione Sovietica e colloquiava direttamente con Stalin. Negli ultimi anni Gramsci si è rivelato figura ancora più grande di quella forgiata nel dopoguerra da Togliatti. Mentre qui siamo rimasti a una sua immagine solo nazionale, ideologica e filosofica.