il manifesto 18.6.17
Gramsci il rivoluzionario ridotto a pedagogo
Casi
critici. Il rapporto con l’Urss, l’eliminazione di Bordiga dalla
segreteria del Pci, Torino e la fase armata del partito... Angelo d’Orsi
(da Feltrinelli) tratteggia un «Gramsci» ancorato a un’idea
«intellettuale» del capo comunista: superata
di Giorgio Fabre
L’ultima
«fatica» di Angelo d’Orsi s’intitola Gramsci Una nuova biografia
(Feltrinelli «Storie», pp. 387, euro 22,00). Il «nuova» del titolo si
riferisce al fatto che ne esiste una «vecchia», quella gloriosa e
godibilissima di Giuseppe Fiori, che risale a cinquant’anni fa; rispetto
a quella, questa ha rinnovato la bibliografia (con qualche lacuna).
Mentre non contiene documenti o dati nuovi.
Non ci si sofferma qui
sulla recensione impietosa del libro fatta da Nunzio Dell’Erba e
pubblicata nel suo blog sull’Avanti! l’8 maggio scorso con il titolo Gli
studi e gli scritti su Gramsci, tra fanatismo e pregiudizi storici.
Dell’Erba ha rilevato diversi svarioni contenuti nelle sole prime pagine
del libro: notizie presentate per nuove che invece non sono tali
(clamoroso che a p. 24 d’Orsi scriva che «solo in tempi recenti» si sia
arrivati alla conclusione che Gramsci era affetto dal morbo di Pott,
diagnosticato dal professor Arcangeli nel 1933 – come segnala peraltro
lo stesso d’Orsi a p. 345), errori nei riferimenti bibliografici, fonti a
stampa usate ma non citate e così via. La recensione è perfino troppo
impietosa, ma le osservazioni valgono un po’ per tutto il libro.
Questa
«nuova» biografia non è neppure leggibilissima ed è tirata via, forse
al fine di cogliere la scadenza dell’anniversario della morte. Inoltre,
si sofferma a lungo su dettagli pruriginosi ma non certo fondamentali e
perfino problematici come le vicende à trois o addirittura à quatre del
grande sardo con le sorelle Schucht (chissà se è tutto vero). O dedica
pagine e pagine che ribadiscono la ragione «pedagogica» (addirittura
«ossessione pedagogica», a p. 315) che avrebbe sospinto fin da giovane
il leader comunista.
Comunque sia, la vita di Gramsci continua a
essere rilevantissima e poi, richiede ancora di essere esplorata. Magari
anche attraverso questo libro. Interessante è ad esempio che d’Orsi
discuta come «filo-mussoliniano» un controverso articolo di Gramsci del
1914; ma occorre ancora lavorarci.
Segnalo poi in particolare un
punto non secondario: quanto Gramsci fu effettivamente un concreto
rivoluzionario e un capo rivoluzionario? Per d’Orsi fu soprattutto uno
studioso di lingue e un filosofo. Sottolinea ad esempio che a Torino nel
1920-’21, nel momento più delicato della sollevazione operaia, «mancava
un Lenin» (p. 118). È un punto ancora in gran parte da chiarire. La
storiografia del Pci del dopoguerra, tutta proiettata a costruire
l’immagine di un partito «di governo», ha avuto difficoltà a fare i
conti con quella fase rivoluzionaria – e militarizzata – della propria
storia. E invece le officine torinesi nel 1920 ma anche parecchi anni
dopo, erano armate fino ai denti. Si veda in proposito il bel saggio di
Roberto Gremmo La militarizzazione degli operai torinesi, uscito su
«Storia ribelle» nell’autunno 2005 (Gremmo ha in uscita, per
settembre-ottobre, un intero volume di documenti). E il partito era
anche militarizzato.
Su questo occorre rimeditare con attenzione i
testi gramsciani, come quello anonimo, ma attribuito a Gramsci da Renzo
Martinelli (con il quale concordo): intitolato I nostri compiti
militari, uscì alla macchia nel giugno 1925 e parla senza mezzi termini
di «azione armata e violenta». Se non si analizza Gramsci a 360 gradi si
finisce per trasformarlo in un «capo» verboso o, appunto, «pedagogo»,
mentre fu un autentico capo rivoluzionario, anche duro e spregiudicato:
si pensi a come fece fuori Bordiga da segretario del partito, questione
qui praticamente ignorata. Questa durezza di Gramsci, insieme alla sua
lucidità e acuta intelligenza, sono aspetti che stanno emergendo ancora
meglio dall’Edizione nazionale delle sue opere pubblicata
dall’Enciclopedia Italiana. Segnalo ad esempio l’ultimo volume degli
Scritti, con i testi gramsciani del 1917. Forse, prima di riscrivere una
biografia di Gramsci sarebbe meglio aspettare che quell’Edizione giunga
quanto meno a buon punto, mentre al suo completamento mancano ancora
molti volumi.
L’impressione è che d’Orsi sia rimasto ancorato a
una vecchia idea tutta «intellettuale» del capo comunista. Idea che
invece, ormai da diversi anni, è stata messa in discussione, per far
emergere un Gramsci non solo molto più concreto, ma anche fornito di uno
sguardo sul mondo internazionale più solido e perfino più vasto e
articolato di quanto si potesse immaginare. Anche su questo il libro è
carente. Penso per esempio alle interessanti pagine dei Quaderni sul
Mein Kampf e naturalmente al suo rapporto con l’Unione sovietica, temi
ultimamente sviluppati da vari studiosi e con i quali d’Orsi ha poca
dimestichezza. D’Orsi ignora del tutto il fondamentale saggio di Silvio
Pons su «Studi storici» del 2004, da cui sono emersi documenti centrali
sul rapporto di Gramsci con l’Urss, un paese (il paese di Stalin) su cui
si appoggiò seriamente durante la prigionia, ma anche prima, con buona
pace della vulgata antisovietica che si è voluta imporre nel dopoguerra.
E poco spazio, su questo punto, d’Orsi lascia persino al libro di
Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci e alle pagine,
talvolta discutibili ma rilevanti che esso contiene sui rapporti tra
Gramsci e Mosca .
Talvolta viene il sospetto che le questioni
sovietiche non gli interessino. Succede così anche, forse non a caso,
che (p. 262) Anatolij Lunacarskij, il celebre ministro della Pubblica
istruzione amico di Lenin e uno dei veri «motori» della rivoluzione,
divenga «ambasciatore russo a Roma», il che Lunacarskij non è mai stato.
D’Orsi deve aver forse ricavato la notizia da un’infelice voce della
Treccani online
(http://www.treccani.it/enciclopedia/anatolij-vasilevic-lunacarskij/).
Altro
esempio. D’Orsi si sofferma a lungo sulla famosa lettera del 14 ottobre
1926, quella che Togliatti fermò a Mosca perché Gramsci vi aveva
espresso dei dubbi sul conflitto in corso tra Stalin e Trotzki. Ma poi
ignora completamente la lettera che proprio Pons ha trovato
nell’archivio di Stalin, scritta dall’ambasciatore Keržencev (era lui
l’ambasciatore a Roma, non Lunacarskij) al capo sovietico. Era del 6
ottobre e annunciava quella del 14, come Gramsci gli aveva chiesto di
riferire. Il segretario del Pcd’I aveva indicato all’ambasciatore «tutto
il danno» causato dai trotzkisti all’estero, anche al partito italiano.
Il vero Gramsci era un politico che conosceva benissimo i rapporti di
potere, anche in Unione Sovietica e colloquiava direttamente con Stalin.
Negli ultimi anni Gramsci si è rivelato figura ancora più grande di
quella forgiata nel dopoguerra da Togliatti. Mentre qui siamo rimasti a
una sua immagine solo nazionale, ideologica e filosofica.