il manifesto 17.6.17
Intervista a Susanna Camusso
Camusso: «Ripartiamo dal lavoro, sui voucher il governo è minoranza nel paese»
Intervista. «Approvare i nuovi voucher con norme inserite di soppiatto nella manovrina è la dimostrazione che il governo sa di non avere il consenso su questi temi»
di Nina Vaoti
Susanna Camusso, la Cgil torna stamattina in piazza San Giovanni a quasi tre anni dall’ultima manifestazione contro il Jobs act. Con quali sentimenti e aspettative?
Da un lato con l’orgoglio dei risultati ottenuti dalla nostra organizzazione che grazie ai milioni di firme e al ripristino della responsabilità solidale negli appalti ha riportato il lavoro ad essere un punto centrale anche se di scontro. Dall’altro con preoccupazione per un Paese che non riesce a fare un salto di qualità su questi temi.
Quale livello di partecipazione vi attendete?
Abbiamo segnali molto positivi per il livello di attenzione durante la preparazione della manifestazione e numeri molto importanti sulla petizione che abbiamo lanciato sullo “Schiaffo alla democrazia”. Mi ha molto colpito il livello di conoscenza della questione voucher (il 76 per cento degli italiani, Ndr) che testimonia come le condizioni del lavoro siano il punto di preoccupazione delle persone. Per tutti questi motivi ci attendiamo una grande partecipazione.
Prima di indire la manifestazione non pensavate che il voto definitivo sui voucher ci potesse essere così presto. E invece con due fiducie il Parlamento ha già approvato le nuove norme.
Le hanno inserite di soppiatto nella manovrina correttiva che non c’entrava niente con il lavoro. È la dimostrazione che il governo non è in grado di portare avanti una battaglia a viso aperto su questi temi anche perché sanno di non avere il consenso. Lo hanno fatto con un uso quanto meno disinvolto delle regole producendo uno strappo democratico gravissimo su uno strumento fondamentale come il referendum e il rispetto della volontà popolare.
Pensate che il presidente Mattarella potrebbe intervenire?
Sappiamo che il Capo dello Stato ha ricevuto diversi appelli in questa direzione e siamo fiduciosi che sarà come sempre garante della Costituzione.
Se la legge sarà promulgata, voi avete già annunciato un ricorso alla Corte Costituzionale. Quale sarà lo strumento e quali i tempi immaginabili perché sia discusso?
I nostri giuristi stanno valutando la strada migliore anche rispetto alle tempistiche, ma finché la legge non sarà in Gazzetta ufficiale non possiamo anticipare niente. Anche riguardo al referendum sull’articolo 18 bocciato dalla Consulta stiamo portando avanti il ricorso alla Corte di Giustizia europea.
Tornando ai nuovi voucher lei si è spiegata la ragione dell’accelerazione imposta da Pd e governo? Il ministro Finocchiaro ha in qualche modo ammesso che servisse uno strumento per le piccole imprese in vista della stagione balneare per alberghi e stabilimenti…
Questo riferimento mi conferma l’evidenza che il governo ascolta soltanto le imprese e vuole favorire la soluzione più economica e con meno tutele per il lavoro stagionale. Posso raccontare un aneddoto indicativo: un presidente di una società di calcio mi ha detto che i voucher erano necessari per pagare gli steward durante le partite. Gli ho chiesto: “Ma prima come li pagavate?”. La risposta è stata: “Con il lavoro somministrato”. Che notoriamente ha più tutele ed è meglio pagato rispetto ai voucher. Dunque è falso che non esistano altri strumenti. Ricordo che la Consulta ha accettato il nostro referendum sostenendo che non esistesse una definizione di lavoro accessorio: ebbene, i nuovi voucher non la stabiliscono, stabiliscono solo il tetto di 5 mila euro annui. Significa che con i voucher puoi fare qualsiasi lavoro non riconoscendo ferie, malattia, maternità e rinunciando a qualsiasi diritto, primo fra tutti le norme sulla sicurezza sul lavoro.
In piazza ci saranno molti parlamentari che appoggiano la vostra protesta ma che hanno votato Sì o sono usciti dall’aula sulla fiducia alla manovrina. Come li accoglierà?
Chiunque voglia sostenere le nostre ragioni e la nostra battaglia contro il precariato è il benvenuto. Di certo avremmo preferito più determinazione in Parlamento nell’opporsi a questo schiaffo alla democrazia. Detto questo penso però che sia venuto il tempo della costruzione e quindi chiederò a tutti i parlamentari presenti in piazza di mettere al centro il tema del lavoro e dei suoi diritti.
La vostra proposta di legge è stata incardinata in commissione Lavoro alla Camera. Pensa che entro la fine della legislatura si possa ottenere già qualche risultato? Se potesse scegliere un provvedimento, qual è quello che le sta più a cuore?
Lo spero, proprio per dare il segno di un cambiamento politico ormai necessario. Se dovessi scegliere sarei incerta tra due cose: tutele per i licenziamenti illegittimi e regolamentazione della rappresentanza delle imprese, per intenderci basta a contratti pirata firmati da associazioni di imprese senza rappresentanza. Cosa che proporremmo anche al tavolo del 4 luglio con Confindustria sul cosiddetto “Patto della fabbrica”.
Dalla sua risposta sui risultati in Parlamento mi sembra di cogliere apprezzamento per una eventuale ricostruzione del centrosinistra a patto che sia basata su un cambio di politiche del lavoro. È così?
Non entro nella discussione di questi giorni. Dico solo che da tempo come Cgil sentiamo la necessità che la politica torni ad affrontare il tema del lavoro. Si tratta di politiche di sinistra e vorremmo tornare a metterle in fila e a discutere con soggetti che siano interessati a farlo.
Il Fatto 17.6.17
Intervista a Susanna Camusso
“Governo succube dei poteri forti, sinistra senza programmi”
“I voucher dimostrano che la politica non vuole interferire nelle imprese: ma la gente sa che abbiamo ragione”
di Luca De Carolis
Quanto accaduto sui voucher dimostra la debolezza della politica, la sua paura di interferire sui poteri economici. Ormai si rassegna”. Oggi il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, sarà in piazza San Giovanni a Roma per una manifestazione nazionale organizzata dal suo sindacato. E il tema centrale sarà la marcia indietro del governo sui voucher.
Tornate in piazza. Ma serve ancora farlo, nel 2017?
Serve eccome, per dimostrare che esiste un’altra idea, un’altra proposta. Non si tiene aperta una prospettiva diversa stando zitti.
Magari è solo una battaglia di retroguardia, che lascia indifferenti i più.
Secondo un sondaggio che abbiamo commissionato, per la maggioranza degli intervistati facciamo bene a protestare. Ma la cosa più interessante è che la gente è informata, sa di cosa si parla.
Però il governo ha reintrodotto ugualmente i voucher: solo per timore del vostro referendum?
La paura di confrontarsi con i cittadini ovviamente è stato il primo fattore. Ma c’è anche un altro timore, quello di cambiare rotta rispetto a politiche sul lavoro che ormai sono tutte nel segno della precarietà, e dell’abbattimento dei diritti.
Il Pd sotto Renzi è diventato definitivamente liberista?
Io ricordo che c’era chi, nel 2014, prometteva che la precarietà sarebbe scomparsa. E invece è aumentata.
Si potrebbe obiettare che così va il mercato, ovunque.
No. Il tema vero che da certe forze non emerge un’idea alternativa sul lavoro e sulla società, o su come si regola la globalizzazione. Si preferisce delegare alle imprese, e lasciare che affrontino la crisi precarizzando il lavoro, con una competizione al ribasso.
I voucher però servono alle imprese. Altrimenti dilagherebbe il lavoro nero.
Il lavoro nero è cresciuto, nonostante i voucher. E per le imprese ci sono i contratti stagionali, quelli per i fine settimana o a giornata.
Il Pd non avrà idee, ma non è che a sinistra vada meglio. In Senato Mdp, Sinistra Italiana e i rappresentanti di Campo progressista hanno votato in ordine sparso sui voucher. Brutto, no?
Io auspico che questa sia una fase interlocutoria, di ricostruzione. E che il lavoro resti una discriminante su cui unirsi.
Il no alle nuove forme di lavoro non sa di rosso antico?
Faccio notare che Corbyn in Gran Bretagna ha ottenuto una grande affermazione coniugando la difesa dei diritti sociali con la modernità. Non sono concetti in contraddizione, nonostante quelli che dipingono i diritti come un retaggio novecentesco.
Oggi Campo Progressista sarà in piazza con voi.
Le nostre piazze sono aperte a tutti. E preferisco gioire per chi ci sarà piuttosto che lamentarmi per gli assenti.
Ma per unirsi la sinistra ha davvero bisogno di un federatore come Pisapia?
Non si deve partire da un leader, ma da un programma condiviso.
Alternativo a quello di Renzi?
Alternativo a certe politiche, come quelle sul lavoro. I nomi lasciano il tempo che trovano.
Non pare. Ha visto che attenzione verso Romano Prodi? Pisapia lo ha addirittura riproposto come candidato premier.
È la dimostrazione che la politica della rottamazione non solo non rinnova, ma impedisce il ricambio e la formazione di una nuova classe dirigente. La politica fatta sui social e a colpi di primarie non costruisce: mancano luoghi di partecipazione.
Oggi scenderete in piazza. E poi?
Faremo ricorso alla Consulta sui voucher, per violazione dell’articolo 75 della Carta (quello che regolamenta il referendum, ndr). Nessun giurista finora ci ha smentito. E porteremo avanti la nostra Carta dei diritti del lavoro.
il manifesto 17.6.17
La piazza dei nostri laburisti
di Norma Rangeri
Oggi in piazza San Giovanni ci saranno i dimenticati in carne e ossa, italiani e immigrati, lavoratori condannati alla precarietà, disoccupati, giovani che un lavoro non lo hanno mai visto. Sono una parte del nostro mondo, le loro battaglie fanno parte delle nostre radici.
Nello sfascio generale dei partiti, la Cgil resta un’organizzazione con una storia, un seguito di massa e un programma alternativo disegnato con il nuovo statuto dei diritti dei lavori insieme alle proposte di un’altra politica economica contro la crisi. Ieri impegnata nel referendum in difesa della Costituzione, oggi la Cgil è all’attacco sull’ultima vergogna del governo Renzi-Gentiloni che prima ha gambizzato il referendum contro i voucher, poi ha inserito la nuova normativa nel pacchetto della manovrina economica imposta con la novantreesima fiducia.
Se quel referendum fosse stato celebrato, gli italiani non si sarebbero astenuti e sarebbe stato un voto sulle condizioni sociali del lavoro, un voto tutto politico.
Susanna Camusso e Maurizio Landini, i leader sindacali di piazza San Giovanni, potrebbero ben essere i volti del partito laburista italiano.
I due sindacalisti hanno nulla da invidiare ai Corbyn, ai Sanders, agli Igliesias, agli Tsipras. Sarebbero le persone giuste al posto giusto per un partito con la testa a una nuova programmazione economica europea e con il cuore tra le periferie sociali che nessuno ascolta più, salvo mettersi sui giornali a interpretarle dopo i risultati elettorali.
Piazze come quella di oggi riassumono le idee, nonostante la crisi abbia coinvolto tutti, Cgil compresa, di una forza di lotta e di governo, come tutta la variopinta galassia che si muove a sinistra del Pd ripete ogni giorno di voler diventare.
E, a proposito del Pd, non sarà secondario osservare che il suo segretario, con il jobs act e i voucher, a piazza San Giovanni non sarebbe bene accolto. Lui sta su un altro pianeta, esprime una cultura del lavoro e dell’impresa che con la sinistra non si intende.
La piazza e la leadership piddina rappresentano due mondi diversi.
E non è ben chiaro come potrebbero, questi due mondi, ritrovarsi domani alleati in un centrosinistra di governo. Prima di arrampicarsi sugli specchi delle future alleanze, bisognerebbe rispondere a questa semplice domanda: che partito di sinistra è quello che vedrebbe oggi espulso dalla piazza del lavoro il suo leader?
Un’altra visione del lavoro e in sostanza dell’identità politica di un partito che vive di illusioni ottiche.
Andrebbe smontata, per esempio, quella che mostra in bella evidenza le battaglie per i diritti civili come il necessario e sufficiente marchio di fabbrica di una moderna sinistra doc. Necessario non c’è dubbio, ma non sufficiente.
Si può essere liberali, di destra e a favore dei diritti civili, viceversa non si può essere liberali o di destra e battersi per i diritti che i lavoratori portano oggi in piazza.
A cominciare dal ripristino dell’articolo 18, sostituito con il marketing politico del contratto a tutele crescenti. Quanti sinceri liberal democratici di destra sono per l’articolo 18? E quanti sono contro la vergogna dei voucher e di tutti gli altri strumenti di flessibilità che schiacciano il lavoratore al rango di merce sul mercato?
Destra e sinistra esistono ancora, basta volerle vedere.
Per questo oggi il Pd di Renzi, paladino dei diritti civili (ma sempre con moderazione: unioni civili sì ma stepchild-adoption no; ius soli sì ma temperato…) e inflessibile avversario dei diritti del lavoro, è un partito che ha cambiato la sua natura.
Per questo sembra fantascienza solo immaginare la sua presenza tra i lavoratori di piazza San Giovanni.
Paradossale ma non troppo, la storica piazza romana, viceversa, accoglierebbe benvolentieri papa Francesco, specialmente dopo il suo discorso all’Ilva di Genova. Dove il papa ha espresso un pensiero avanzato sul lavoro ma non solo. Il suo giudizio sulla bandiera renziana del “merito” è una lucida analisi sulla mistificazione di chi la sventola come principio di uguaglianza quando è vero che il “merito”, al contrario, esclude i più svantaggiati, colpevolizza chi viene respinto perché emarginato da ogni competizione che non ristabilisca l’uguaglianza dei punti di partenza.
In una società diseguale come la nostra, un pensiero di sinistra, una forza di sinistra non può che lottare contro una politica che regala diseguaglianze (mai viste così profonde nel secolo scorso nei paesi europei), come fossero eventi naturali e non frutti avvelenati di un’economia capitalistica globale, brutale e arida che desertifica le nostre società come la siccità che sta desertificando il pianeta.
Il Fatto 17.6.17
Diego Fusaro
“Non ci sono fondi per garantire a tutti la cittadinanza”
di Fabrizia Caputo
Il capitale non vuole creare cittadini attivi, portatori naturali di diritti; vuole masse di schiavi apolidi, senza radici, precari e senza etica, ci vuole tutti migranti e disponibili per le pratiche della valorizzazione illimitata del valore. Lo ius soli è un’opera di sottrazione dei diritti che ci renderà tutti ‘egualmente cittadini e tutti egualmente irrilevanti’”, scrive Diego Fusaro sul sito del Fatto.
Questa non è una visione futura molto pessimistica per una legge che nel concreto consentirà a dei ragazzi nati o cresciuti in Italia e che frequentano le scuole regolarmente di ottenere la cittadinanza?
È evidente che se un diritto diventa accessibile a tutti, non ci saranno automaticamente più i fondi per garantirlo, trasformandolo a questo punto in una merce. L’obiettivo, ripeto, è quello di trasformarci in consumatori apolidi. Ossia ci rende tutti eguali nel senso di tutti egualmente irrilevanti. I privilegi verranno chiamati diritti per poi essere distrutti in nome della lotta ai privilegi, come successo con l’articolo 18.
Molti però stanno facendo confusione, altri stanno cavalcando l’onda con la questione immigrazione aumentando la paura del diverso.
Chi ha paura dei migranti è sciocco e non c’entra con la legge. Chi specula con i migranti non vuole integrarli. Io mi riferisco al fatto che la tendenza generale resta l’annientamento del concetto di cittadinanza per sostituirlo con il concetto che se un cittadino ha dei diritti, dipende da quanti in realtà ne può comprare. Il consumismo detterà la legge dei diritti. Lo ius soli è un grimaldello fondamentale perché ciò avvenga.
Lei prima ha detto che questa legge in realtà annullerebbe i diritti invece di darli. Di preciso questi bambini a chi toglierebbero i diritti?
La legge è buona se dà dei diritti, e va benissimo che vengano coinvolti i ragazzi che vanno a scuola. A me interessa la questione che se da un lato estendi, dall’altro devi togliere. È giusto che diventino cittadini ma non ci sono i fondi per garantirlo e quindi dove li troveranno? Togliendoli ad altri, anzi, privatizzando e tagliando l’essenziale. Il vecchio modello dello Stato sovrano si sta disgregando lasciando il posto a quello del consumatore che non ha diritti ma consuma solo merci, diventando egli stesso una merce. Quindi si rischierà che la priorità non saranno più i diritti del cittadino, ma le merci che esso consuma.
Ma non si rischia di negare i diritti di alcuni per salvaguardare quelli altrui?
No, sono favorevole al fatto che vengano accolti i ragazzi che nascono in Italia, che vanno a scuola e che vengano inclusi in un senso di appartenenza alla comunità. Io mi limito a fare analisi filosofiche e purtroppo prevale il lato negativo: che vede la privatizzazione e la lotta tra gli ultimi. Si distruggerà il concetto di cittadinanza , con tutti i diritti che in passato implicava. Si diventa invece cittadini in astratto, mentre in realtà si svuota il concetto di cittadinanza per far posto a quello di consumo. La realizzazione dell’incubo capitalista; la penso altrimenti, come il titolo del mio libro “Pensare altrimenti”.
Va bene, ma oltre alle teorie lei allora nel concreto cosa avrebbe fatto?
La mia soluzione era quella di andare a colpire i ceti alti e non in basso. Questa legge rientra nel progetto di smantellamento che hanno messo in piedi. Se diventano tutti cittadini sarà un passo avanti, bisogna vedere come accadrà. Quindi, sullo ius soli io dico sempre che la ragione si riassume nel noto detto spagnolo “todos caballeros”, dove ovviamente se sono tutti “caballeros”, nessuno è veramente “caballero”.
di Fabrizia Caput
Il Fatto 17.6.17
Rula Jebreal giornalista palestinese
“Sono solo diritti, chi non li approva è un razzista”
di Gianluca Roselli
Essere contro la legge sullo ius soli è un atteggiamento razzista e discriminatorio. E anche ottuso, poiché significa non rendersi conto della realtà che ci circonda”. Rula Jebreal è una giornalista palestinese con doppia cittadinanza, israeliana e italiana. La seconda l’ha ottenuta dopo dieci anni di permanenza nel nostro Paese. Rula è da sempre in prima linea sui temi dei diritti civili e dell’immigrazione a livello italiano e internazionale.
Ha visto la bagarre scoppiata in Senato due giorni fa?
Sì e la cosa non mi sorprende, perché la Lega da tempo fa della paura degli immigrati, dell’odio verso il diverso il punto centrale della sua agenda politica, che evidentemente non ha altri argomenti. Soffiano sul fuoco delle paure, vendono terrore ai loro elettori. Un modo di ragionare simile alle idee sulla purezza della razza che si facevano in Italia e in Europa negli anni 20 del secolo scorso, con fascismo e nazismo.
Cosa le piace dello ius soli?
Che finalmente vengano dati diritti a chi è già italiano, ai bambini che sono nati e cresciuti in Italia, che studiano qui, parlano perfettamente la lingua e fanno parte di questa cultura. Bambini che si sentono diversi dai loro compagni di scuola bianchi e italiani. Con questa legge ci si adegua ai principali Paesi europei e agli Stati Uniti.
Chi nasce in America è americano, uno dei capisaldi della cultura a stelle e strisce.
Certo. Nemmeno Donald Trump ha pensato di negare questo sacrosanto diritto che è alla base della società americana, dove tantissimi nativi americani sono figli di immigrati, pensiamo solo a Barack Obama o a Steve Jobs. E dove tanti intellettuali, scienziati, docenti e giovani laureati da tutto il mondo continuano ad andare proprio perché, tutt’oggi e nonostante Trump, è una società aperta.
La Lega di Salvini non l’ha sorpresa, ma i 5Stelle?
Le loro oscillazioni politiche sono per me incomprensibili. Vorrei che avessero una proposta chiara sulla politica estera e sull’immigrazione, e invece non ce l’hanno. Sembrano andare avanti divisi, alla giornata, senza una visione. Lo stesso Beppe Grillo ha una moglie iraniana e dovrebbe essere sensibile a certi temi.
Lega e Fratelli d’Italia paventano lo spauracchio dell’emergenza demografica, dell’invasione dell’Italia da parte degli stranieri.
Se vogliamo parlare di una legge sull’immigrazione, sono pronta alla discussione e al confronto, anche sui limiti d’ingresso da porre. L’emergenza immigrazione è un fenomeno mondiale che riguarda tutti i Paesi e l’Italia in particolare, per la sua geografia. Altri Paesi non hanno barconi in arrivo dalla Libia ogni settimana. Ma lo ius soli non c’entra nulla con questo. Ripeto: si tratta di dare diritti ai bambini che sono nati in Italia e si sentono stranieri in patria. Mettere insieme le due questioni è disonestà intellettuale.
La destra usa anche lo spauracchio del terrorismo.
Altra distorsione della realtà e strumentalizzazione politica. Basti vedere gli attentati compiuti in Usa negli ultimi anni, realizzati nella maggior parte dei casi da cittadini bianchi e cristiani. Se ci facciamo dettare l’agenda dal terrorismo, allora gli integralisti islamici e i combattenti del jihad hanno già vinto. La questione è culturale e politica, e riguarda direttamente noi italiani: che Paese vogliamo essere, in che direzione vogliamo andare? Il nostro modello è l’Arabia Saudita, dove la cittadinanza non viene mai concessa e si rimane sempre “ospiti lavoratori” senza diritti, oppure il mondo anglosassone?
Belle domande.
Mi piacerebbe che alle prossime elezioni, in campagna elettorale, le forze politiche parlassero della difesa dei diritti di quelle persone che non ne hanno, in tutti i campi.
Il Fatto 17.6.17
Appelli & coltelli: il risiko furbetto della “sinistra unita”
La valanga - Tutti si appellano a tutti: per favore, smettetela. Perché avete sostenuto le larghe intese con la destra e il Jobs Act?
di Marta Fana e Francesca Fornario
Abbiamo letto gli appelli di Rifondazione e Possibile a Sinistra Italiana “per una sinistra unita contro questo governo”. Gli appelli di Sinistra Italiana a Mdp che sostiene questo governo. Gli appelli di Mdp “per unire il fronte del No al referendum” a Pisapia che ha votato Sì al referendum. Gli appelli di Pisapia a Renzi (“Non è un mio avversario, il mio avversario è il centrodestra”: cioè l’alleato di Renzi). Gli appelli di Renzi e del Pd a Confindustria e a Berlusconi (“Silvio, lascia Salvini!”). Gli appelli di Berlusconi a Salvini, di Salvini a Meloni, di Meloni a Casa Pound, di Casa Pound a Nina Moric che si candida con la promessa di rispedire gli immigrati a casa loro (se vince, torna in Croazia). Li abbiamo letti tutti gli appelli, compresi quelli, inascoltati, di Cuperlo a Cuperlo: “Se il Pd fa l’accordo con Berlusconi i nostri elettori ci abbandoneranno!”. E torneranno a votare per Berlusconi.
Renzi ha poi sfanculato Mdp (“Ai fini elettorali è ininfluente”: il Pd è in grado di perdere anche senza D’Alema) e ha sfanculato Pisapia (“Con lui solo se lascia D’Alema, da D’Alema e Bersani solo risentimento personale”: vero anche questo, volevano essere loro a sfasciare il Pd). Pisapia ha sfanculato Sinistra Italiana, compiacendosi che “al nostro appello per unire il centrosinistra hanno risposto in molti”. Tranne il centro e la sinistra, dettaglio che non inficerà l’allargamento del Campo Progressista dopo l’endorsement di Bindi, Letta, Tabacci: “Uniti contro chi ha distrutto la democrazia”. La Democrazia cristiana. Dopo il voto inglese Renzi ha cambiato idea: niente più voto anticipato e nuovo appello a Pisapia (se Corbyn vinceva, metteva la foto profilo di Marx). Dopo le amministrative ha cambiato idea di nuovo, fomentato dalla débâcle dei 5Stelle che perdono ovunque si presentano senza Bersani come avversario: “Elezioni il prima possibile e si torna al bipolarismo: ai ballottaggi centrodestra contro centrosinistra”. Dopo anni che andavano d’accordo. Segue appello di Pisapia a Prodi a sfidare Renzi alle primarie e sfanculamento di Prodi a Pisapia mentre la Cgil lancia alla sinistra l’appello contro i voucher e il governo sfancula la Cgil e vota la fiducia sui voucher alla vigilia della manifestazione Cgil contro i voucher, per consentire alla minoranza Pd e a sei senatori di Pisapia di partecipare a tutte e due. Pure Mdp sfancula la Cgil: “Non possiamo far cadere il governo prima che venga approvata la legge sulla tortura”. Bisogna spiegare loro che la tortura non è punibile se ci si sottopone spontaneamente.
Tutti, da Prodi ai comunisti passando per Cuperlo e Pisapia, hanno però risposto positivamente all’appello di Falcone e Montanari per fare la sinistra unita.
Alla luce di ciò, vorremmo rivolgere alla sinistra l’appello a non rivolgere altri appelli. L’aspirante elettore di sinistra ha perso il conto degli appelli della società civile e dei partiti che aderiscono agli appelli della società civile. Li legge tutti, ma poi si domanda cose semplici.
Tipo: ho capito l’appello all’unità, ma come lo difendiamo il lavoro con chi lo ha precarizzato attraverso i voucher e prima ancora con il Pacchetto Treu, la Legge Biagi, la riforma Fornero e il Jobs-Act (votato tra gli altri da da Speranza e Bersani) al punto che il 60% dei nuovi occupati sbandierati da Renzi sono a tempo determinato? Come la difendiamo la Costituzione con chi, come Pisapia, ha votato le riforme costituzionali di Verdini dettate dalla Jp Morgan? Con chi il 25 Aprile sfila con le bandiere gialle e blu per ricordare il contributo alla resistenza dei daltonici? Come lo difendiamo il ripudio della guerra con chi, come D’Alema, ha bombardato il Kosovo e voluto gli F-35?
Come combattiamo le “Disuguaglianze crescenti” alle quali fa appello ogni appello se invece di denunciare gli effetti non condanniamo le cause e chi le ha determinate, impoverendo lavoratori e pensionati nel salario e nei diritti e ingrassando i profitti delle imprese e le rendite finanziarie?
Come redistribuiamo i redditi con chi ha tolto la tassa sulla prima casa anche a quel 10% di Italiani che possiede il 35% dei redditi nazionali? Come tuteliamo il diritto alla casa con chi vi ha investito lo 0% del Pil, mentre 4 milioni di persone sono senza tetto? Come garantiamo i servizi pubblici con chi li ha esternalizzati e ridotti tagliando le risorse e bloccando le assunzioni? Con chi ha voluto il pareggio di bilancio in costituzione, il fiscal compact, le trivelle, il Ttip e il Ceta? Come tuteliamo le pensioni con chi ha votato l’allungamento dell’età pensionabile e di pensione ha difeso solo la propria, sostenendo che non si possono equiparare le pensioni dei parlamentari a quelle dei cittadini (avranno pensato: dove li trovi centomila euro per ogni cittadino?). Come tuteliamo i lavoratori con chi ha regalato alle imprese l’equivalente di due finanziarie, lasciando che 6 milioni di lavoratori scivolassero sotto la soglia di povertà? Come garantiamo ammortizzatori sociali a tutti con chi, con i soldi pubblici, ha salvato le banche e non i lavoratori? Come assicuriamo l’uguaglianza davanti alla legge se lo stato requisisce la refurtiva ai ladri ma non espropria le aziende che sfruttano i lavoratori? E la giustizia sociale se non togliamo alle imprese il dominio su quanto, cosa e come si produce e si lavora? Come tuteliamo l’istruzione e l’ambiente chi ha votato lo “Sblocca Italia”, la “Buona scuola”, l’alternanza scuola-lavoro che obbliga gli studenti a lavorare gratis? (Alcuni li hanno messi a sostituire la carta igienica nei bagni! E questa era la parte che si svolgeva a scuola).
Soprattutto – sarà una domanda scema – come la facciamo la sinistra con chi ha sostenuto quattro governi di larghe intese con la destra? Con chi ancora salva il Governo al vaglio dei voucher e del decreto Minniti, che stabilisce che chi chiede asilo dovrà svolgere “lavori socialmente utili” (se gli immigrati vogliono integrarsi in Italia, che si abituino a lavorare gratis!)
Andiamoci piano con questi generici appelli all’unità perché il rischio, se a ridosso delle elezioni fai un appello a tutti, è che tutti lo sottoscrivano. Per convenienza elettorale. Compresi quelli che si sono ravveduti a metà, tipo Speranza che propone di non cancellare il Jobs Act ma di eliminare solo la norma sui licenziamenti collettivi o Bersani che si accontenta di un ritocchino (“Non dico di ripristinare l’articolo 18 ma almeno il 17 e mezzo”, ha detto, per ricordarci come ha fatto Renzi a diventare segretario del Pd).
Corbyn, Sanders, Mélenchon, Iglesias hanno dimostrato che i voti non si sommano: si conquistano. L’aspirante elettore di sinistra non vuole una sinistra unita. Vuole una sinistra credibile.
La Stampa 17.6.16
Le fondazioni socialiste europee scaricano il presidente D’Alema
La motivazione: “Ha sostenuto la scissione dei democratici”
di Francesca Schianchi
Cari amici, è con «profondo senso di responsabilità» che condividiamo le nostre preoccupazioni: Massimo D’Alema, che in Italia ha sostenuto la scissione dal Pd, non può più essere il presidente della Feps, la Foundation for European Progressive Studies. Firmato, sette fondazioni europee di primo piano.
Il preavviso di licenziamento del nostro ex premier è stato recapitato via lettera nei giorni scorsi a tutti i vertici dell’organizzazione che, a Bruxelles, riunisce le fondazioni vicine ai partiti socialisti del continente. Incluso lui, che la presiede con un certo compiacimento dal 2010 («mi occupo quasi esclusivamente di questioni europee e internazionali», ripete sovente), riconfermato all’unanimità un anno fa: il 28 di questo mese si terrà l’Assemblea generale che dovrà rinnovare gli organi ma, stavolta, è a un passo dal benservito. Ieri, la fondazione portoghese Res Publica ha avanzato una candidatura alternativa, già sostenuta da molte altre firmatarie della missiva contro di lui: l’europarlamentare di Lisbona Maria João Rodrigues.
D’Alema, scrivono le sette fondazioni, è «figura chiave di un nuovo movimento politico che competerà con entrambi i partiti membri del Pse in Italia: il Pd e il Psi. Riteniamo questa azione incompatibile con il mandato di guida e rappresentante della Feps». I vertici della grande organizzazione europea devono «agire con saggezza, mostrare solidarietà, preservare l’unità e promuovere lealtà ai nostri valori fondamentali»: se non fosse chiaro, aggiungono che «noi, membri della Feps, meritiamo una leadership rinnovata». A firmare le due secche paginette, oltre a Res Publica, la Friedrich Ebert Stiftung tedesca, la francese Jean Jaurès, la spagnola Pablo Iglesias, la svedese Olof Palme International Center, la ceca Masarykova Demokraticka Akademie e la maltese Ideat.
I rapporti tra il promotore di Articolo 1 e il Pse sono burrascosi dai tempi della sua campagna per il no al referendum del 4 dicembre: con il segretario, il bulgaro Sergei Stanishev, c’è stato un fitto carteggio dopo che D’Alema in tv consigliò anche al Pse, schierato per il sì in linea col partito affiliato Pd, oltre a Merkel e Jp Morgan, di «farsi i fatti loro». Peggio ancora dopo la scissione dai dem: «Un errore storico, una totale mancanza di lealtà verso il Pd e verso il Pse», la bollò Stanishev. Tanto che, da quelle parti, si aspettavano spontanee dimissioni del leader di Italianieuropei dalla presidenza della Feps. Non sono arrivate: ora sono alcuni importanti membri a chiederle. Sette fondazioni italiane fanno parte della Feps, quella che rappresenta il Pd è la Eyu, presieduta dal renzianissimo Francesco Bonifazi: ufficialmente non si sono schierati, ma si può intuire come la pensino. Ancora una decina di giorni e si arriverà al voto. E chissà che non sia lo stesso D’Alema, annusata l’aria, a fare un passo indietro: in fondo, ha già dichiarato che «se i pugliesi lo chiedessero in massa» gli toccherebbe fare il sacrificio di ricandidarsi in Parlamento.
Repubblica 17.6.16
Il retroscena
Il progetto del segretario esclude Mdp e ogni altra leadership
Le perplessità del Professore
Il listone Renzi da Calenda a Pisapia Prodi avverte: “Con i veti si rischia”
di Goffredo De Marchis
ROMA. «Prodi è sempre il più lucido di tutti» e «l’incontro con lui è andato persino meglio di quello con Veltroni». Matteo Renzi ha raccontato il colloquio con il Professore di giovedì partendo da queste due osservazioni. Un modo per dire che va tutto benone, cioè che, a suo giudizio, Prodi non finirà per mettere i bastoni tra le ruote al Pd. E al segretario. Non sposerà la linea Pisapia, «non uscirà dalla logica del partito che ha fondato». La sua idea, quella di Renzi s’intende, è che alla fine l’unico modo per tenere unito il centrosinistra sarà un listone fatto di diverse sigle per la Camera (dove c’è la soglia del 40 per cento che vale il premio) e la coalizione al Senato. Prodi è d’accordo? Per il momento si è limitato a spiegare al suo interlocutore che «il Consultellum è preferibile alla legge proporzionale finto tedesca » e che «troppi veti finiranno per far naufragare il tentativo di unire». Vale per il Pd e per la sinistra.
Renzi ha dovuto spiegare a lungo come si era arrivati all’accordo sulla legge elettorale che secondo il Professore decretava la fine dell’alternanza. «Non era un cedimento al proporzionale, tantomeno alle larghe intese. Era un patto istituzionale che cercava di avere dentro tutti, come dovrebbe essere quando si cambiano le regole del gioco». Per Prodi, invece, è una fortuna che sia saltato e sarebbe un disastro se tornasse a galla. Arturo Parisi, che era presente all’incontro, è uno sponsor della legge uscita dalla Consulta come male minore. Anzi, ha spiegato che con qualche correttivo (preferenze di genere, adeguamento delle soglie) può essere perfino migliorata. Prodi non è convintissimo di questa tesi, ma ringrazia il cielo che sia fallita l’intesa con Berlusconi «altrimenti il proporzionale finto tedesco ce lo saremmo tenuti per 20-30 anni. Così, forse, ci si può riprovare già a partire dalla prossima legislatura».
Il sostanziale via libera a mantenere le due leggi attualmente in vigore, spinge Renzi a rilanciare il listone di centrosinistra. La lista coalizionale che va dal Pd, a Carlo Calenda (ovvero all’area liberal- popolare di Alfano e Lorenzin, al netto del recente scontro) a Pisapia. Ci sarà un simbolo con tutte le sigle, almeno alla Camera, senza far sparire il logo del Pd che resta il partito maggiore. «Le tecnicalità le vedremo più avanti », dicono al Nazareno. Ma un “triciclo”, una lista a tre gambe come questa, presuppone l’esclusione di Mdp e quindi dei bersaniani perché nelle intenzioni di Renzi dovrebbe essere in continuità con le riforme del suo governo. Qui si affaccia la preoccupazione di Prodi “per i troppi veti”, per la cattive intenzioni di escludere e regolare dei conti. Perciò, osserva, che “niente è stato risolto”. Il colloquio si è rivelato soprattutto un approccio.
Potrebbe bastare un passo indietro del segretario a favore di un altro candidato premier, Gentiloni per esempio? Nell’incontro non se n’è parlato e comunque per i renziani è “un’ipotesi marziana. Cancellare Matteo significa cancellare il Jobs act e le riforme dei mille giorni. Non esiste”. Il tema incontra il mutismo di Prodi, ma è vero che in qualche conversazione qualcuno lo ha sentito dire: “Non dimentichiamoci che quello lì ha vinto le primarie”.
Comunque, Renzi è soddisfatto. Il mini vertice lo tiene dentro le dinamiche del centrosinistra. Invece la suggestione della lista coalizionale, vista da sinistra, appare veramente una chimera. Indigeribile per Bersani e D’Alema e probabilmente difficile per Pisapia. Che adesso deve tenere unita la sua area. Per questo ieri ha mandato una lettera a Susanna Camusso aderendo alla manifestazione contro i voucher della Cgil.
Repubblica 17.6.17
Caos scioperi se basta un annuncio
Marco Ruffolo
QUANDO il sacrosanto diritto di sciopero diventa l’arma odiosa con cui una miriade di piccole sigle sindacali mette in ginocchio un’intera nazione, ci si deve interrogare sulla tenuta di una legge che evidentemente non riesce, così come non è mai riuscita, a tutelare gli interessi della collettività. A impedire che si rimanga intrappolati in ambulanza nel traffico cittadino, che si resti abbandonati senza notizie in stazioni ferroviarie e aeroporti, o in piedi per ore sotto il sole a sperare nell’arrivo di un bus. A impedire che saltino appuntamenti, lavori, contratti, visite mediche. Un nutrito coro politico grida ora che la misura è colma e che bisogna rimetter mano alla legge che regolamenta lo sciopero nel trasporto pubblico. In realtà è da quindici anni che se ne parla e almeno tre proposte legislative giacciono nei cassetti di Palazzo Madama. Circa un anno fa il governo Renzi sembrò voler sbloccare l’impasse, ma alla fine non se ne fece nulla.
Già, ma che cosa si può fare? Come si fa a togliere ai piccoli sindacati il potere di bloccare città, stazioni e aeroporti? Proviamo a capovolgere la domanda: come fanno Cub-Sgb, Usi-Ait e Cobas Lavoro privato (le sigle che hanno indetto lo sciopero di ieri) a creare il caos in tutta Italia pur non rappresentando la maggioranza dei lavoratori? Questi sindacati contano in realtà sul fatto che le aziende dei trasporti, non sapendo quanti dipendenti aderiranno allo sciopero, non potranno informare adeguatamente gli utenti sui servizi garantiti e non (a parte quelli essenziali). A questo punto basterà l’annuncio stesso dello sciopero a creare il blocco totale o comunque a massimizzare il disservizio. Una delle soluzioni, proposta dal presidente della commissione Lavoro del Senato Maurizio Sacconi, è quella di prevedere che ciascun lavoratore comunichi all’azienda 24 ore prima dello sciopero la propria eventuale adesione individuale. In questo modo, l’azienda stessa avrà subito un quadro preciso dei servizi che potrà o non potrà garantire.
Una seconda proposta cerca invece di impedire un altro barbaro rituale messo in pratica non di rado dalle piccole sigle sindacali: quello di convocare lo sciopero, attendere che la notizia venga annunciata da radio e tv e poi revocarlo all’ultimo momento. Lo stipendio si prende lo stesso ma il caos è comunque assicurato perché molti treni e voli resteranno cancellati e perché molti viaggiatori avranno già rinunciato loro malgrado al servizio pubblico. Per evitare questo scempio — ecco la proposta — basterebbe imporre che la revoca fosse comunicata con largo anticipo.
Si spera che il governo trovi finalmente la forza di far proprie queste proposte.
E tuttavia, al di là dei rimedi parziali che possono essere trovati, resta sullo sfondo una domanda che sono in pochi a porsi tra i sindacati e tra gli stessi politici: è possibile garantire il diritto allo sciopero dei lavoratori del trasporto pubblico senza interrompere il servizio stesso, senza cioè calpestare un diritto altrettanto costituzionale della collettività? La risposta in realtà esiste già e sta in due parole: “sciopero virtuale”. I dipendenti lavorano lo stesso e il loro monte stipendi di quel giorno viene versato a un fondo nel quale finisce anche un prelevamento operato ai danni dell’azienda, una specie di penale (doppia o tripla rispetto agli stipendi a cui rinunciano i lavoratori). L’idea, caldeggiata già anni fa dal senatore del Pd, Pietro Ichino, garantirebbe il servizio pubblico e consentirebbe attraverso il fondo (gestito da azienda e sindacati) di finanziare opere di pubblica utilità oltre a una campagna di informazione sulle ragioni dello sciopero. Ma siamo pronti per questo salto di civiltà?
Il Fatto 17.6.16
Roma, manifestanti Atac sotto la sede dei Radicali. Il segretario Magi propone il referendum: “Renzi? dimostri di crederci”
Una quindicina di manifestanti dell'Atac, durante lo sciopero del trasporto pubblico locale, ha intonato cori contro il capogruppo in consiglio Riccardo Magi, reo di portare avanti una battaglia perché nel 2019 ci sia una gara pubblica aperta a tutti per l'affidamento del servizio. A breve inizierà la raccolta firme: "L'azienda è usata da sempre come bacino di voti. Se il Pd ci crede, ci dia una mano ai banchetti"
di Valerio Valentini
Più informazioni su: Atac, M5S, Matteo Renzi, Roma, Sciopero
“Ah Magi, vie’ giù, facce ‘sta magia”. È questo lo slogan che hanno intonato alcuni scioperanti dell’Atac davanti al portone della sede dei Radicali italiani, a Roma. Erano una quindicina, i manifestanti che in tarda mattinata si sono staccati dal raduno in corso a Piazza Venezia per raggiungere la vicina Via di Torre Argentina. Alcuni di loro hanno innalzato delle lettere giganti che, messe in fila, componevano la scritta “#Rd 148 non si tocca”.
“Ecco, già il fatto che si consideri immodificabile un regio decreto del 1931 dice molto della situazione”. Riccardo Magi, segretario dei Radicali, ci scherza su: “Quel provvedimento, che di fatto regola tuttora il contratto dei ferrotranvieri, è una chiara espressione di una concezione corporativistica del lavoro, tipica dell’epoca in cui fu varato”. Coi manifestanti, Magi non si è potuto confrontare (“Mi sarebbe piaciuto, ma a causa del loro sciopero sono arrivato in ritardo”), eppure non gli sfuggono i motivi le ragioni del loro risentimento.
Al centro delle proteste c’è infatti il referendum proposto proprio dai Radicali, che è già stato ritenuto ammissibile in via preliminare dagli uffici del Campidoglio. “Ora – spiega Magi – si parte con la raccolta vera e propria delle firme”. Ne servono oltre 29mila, pari cioè all’1% dei residenti romani. L’obiettivo è indire la consultazione nella primavera del 2018. “Missione che oggi appare più fattibile, visto che anche Matteo Renzi stamattina è sembrato favorevole alla nostra iniziativa”.
L’ex premier, nella sua abituale diretta Facebook dalla sede del Nazareno, ha citato la proposta dei Radicali, è vero, ma ha anche prospettato soluzioni alternative per risolvere il caos dei trasporti pubblici romani, visto che coi referendum il suo partito non ha raccolto grande fortuna ultimamente. “Certo, ma noi ora lo chiamiamo alla prova dei fatti. Lui e tutto il Pd”, precisa Magi. Che aggiunge: “Non ci interessa mettere il cappello dei Radicali su questa proposta: noi vogliamo semplicemente che l’iniziativa vada a buon fine”.
L’obiettivo, sostanzialmente, è quello di mettere a gara il servizio dei trasporti romano a partire dal dicembre del 2019, quando scadrà l’attuale affidamento. “Sia chiaro: non è una privatizzazione. E soprattutto non è una privatizzazione all’italiana, di quelle che finiscono per favorire gli amici degli amici. Noi – prosegue Magi – pensiamo che il bene comune non sia l’Atac, ma il trasporto pubblico”. E dunque l’idea è quella di una gara aperta sia ad aziende pubbliche sia private, che si basi su una misurazione oggettiva dei servizi offerti dai vari partecipanti, e che sia trasparente e competitiva.
E gli eventuali esuberi? “Il testo del quesito da noi proposto dice in modo esplicito che bisogna prevedere delle clausole sociali per la salvaguardia e la ricollocazione dei lavoratoti nella fase di ristrutturazione del servizio”, replica Magi. Il quale è convinto che la messa a gara dei servizi sia, tra l’altro, “l’ultima chiamata per il salvataggio di Atac”. Addirittura? “Sì, perché sarebbe il solo modo per evitare il fallimento definitivo dell’azienda, che ormai è decotta, e la sua conseguente svendita”.
Se si è arrivati a questa situazione, secondo il segretario dei Radicali, lo si deve al conflitto d’interessi che nella Capitale esiste tra il controllore, cioè il Comune, e il controllato, ovvero l’Atac, la cui proprietà appartiene interamente a Roma Capitale. “Tutti i partiti dicono di voler sciogliere questo nodo, ma poi in realtà l’Atac fa troppo comodo. E qualsiasi amministrazione, sia di destra sia di sinistra, la usa come bacino clientelare di voti. Anche il Movimento 5 Stelle, di tutti i suoi propositi rivoluzionari di qualche anno fa, sembra essersi dimenticato”. Magi, par di capire, dalla giunta di Virginia Raggi non si aspetta alcun aiuto: “Ricordo che i grillini all’epoca del sindaco Marino erano i primi sostenitori della messa a gara del servizio a partire dal 2019. Poi, improvvisamente, durante la campagna elettorale dell’anno scorso l’Atac diventò il fiore all’occhiello della città, secondo loro”.
I Cinque Stelle uguali agli altri, insomma? “Guardate, non voglio farne una questione di lotta tra partiti”. Quello di Magi è piuttosto un appello: “Chiunque voglia, a cominciare dal Pd, ora ha l’occasione di dimostrare coi fatti che crede nella nostra iniziativa. Salgano pure sul nostro carro, facciano propria la nostra proposta e ci aiutino a raccogliere le firme. Chissà che poi la magia non ci riesca davvero”.
Il Fatto 17.6.17
Perché i renziani hanno torto anche quando hanno ragione?
di Andrea Scanzi
Ieri, prima di uscire con Rosario Dawson per una sessione sadomaso, ho visto Otto e mezzo. C’era la Ravetto. Ecco: rivedere la Ravetto in prima serata a Otto e mezzo mi ha dato come la sensazione di salire a bordo della De Lorean e andare a ritroso nel tempo, come in Ritorno al futuro. Un tuffo nel passato. Un brutto passato, anche se pure questo presente mica scherza. Opposta alla Ravetto, aka Lady Blackberry, c’era la Moretti, aka Ladylike. Bella sfida. Un po’ come guardare Akragas contro Lupa Roma in differita su TeleFava sapendo già il risultato perché te l’ha detto Nardella su Whatsapp.
Davvero alti livelli: sfida al vertice. La cosa che più mi ha colpito – anzi l’unica – è stata che io ero sostanzialmente d’accordo con la Moretti (si parlava di ius soli e ius culturae), pur se con qualche distinguo ben sintetizzato da quel manettaro empio di Travaglio in collegamento, ma la Moretti non ce la faceva proprio a farsi dare ragione. Ascoltarla era sconfortante. La sua pochezza argomentativa si rivelava accecante, rutilante, debordante.
Si è poi toccato il tema dell’immigrazione e quindi dell’operato di Minniti. Anche qui la Moretti aveva buone carte da spendere, ma ha recitato a memoria la lezioncina come (immagino) quando andava volontaria a scuola alle interrogazioni di storia. E ha fatto dormire tutti. Anche il solito Travaglio, in collegamento dal bunker del Fatto, dove era appena stato effettuato il sacrificio umano giustizialista delle ore 20 (consiste nel frustare Gozi al grido di “Davigo imperatore delle galassie!”).
Ecco il problema, uno dei tanti, del renzismo: riescono a non convincere neanche quando dovrebbero. Riescono ad avere torto anche quando ragione. In confronto a renzini e renzine, almeno quelli/e che vanno in tv e hanno posizioni di vertice, persino una Ravetto balbettante sul tema dei migranti sembra accettabile. O comunque, non la peggiore. Come ha fatto il “centrosinistra” a ridursi così? Una prece.
Il Fatto 17.6.17
Il Pd scarica il teste Marroni per salvare l’indagato Lotti
In Senato - Per non subire l’iniziativa delle opposizioni i dem presentano una mozione – che non nomina il ministro – per cacciare il dirigente che l’ha coinvolto
di Wanda Marra
Ancora una volta il problema di Paolo Gentiloni, di Matteo Renzi e del Pd si chiama Luca Lotti, indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio nell’inchiesta Consip. Il gruppo dem a Palazzo Madama ieri ha presentato una mozione per chiedere la rimozione dell’amministatore delegato di Consip, Luigi Marroni (in origine renziano), mai indagato e teste chiave anche per aver rivelato che tra coloro che lo informarono dell’inchiesta c’era proprio Lotti. La mozione occulta non solo la posizione, ma persino il nome del ministro.
Martedì in Senato ci saranno in votazione 6 mozioni sul caso Consip (5 chiedono la rimozione di Luigi Marroni, amministratore delegato della società appaltante) e la maggioranza rischiava di andare sotto. Una figuraccia politica su un tema vitale, che governo e Pd stanno cercando di ammortizzare, presentando una mozione in proprio per chiedere le dimissioni di Marroni. Scaricando l’ad di Consip, anche se dovessero andare sotto sulle altre mozioni che la chiedono, la cosa salterebbe meno agli occhi. Ieri, all’ultimo momento utile, il gruppo in Senato (prima firma, Luigi Zanda, il capogruppo, tra le altre quella del renzianissimo Andrea Marcucci) ha presentato la sua mozione per chiedere la rimozione dei vertici Consip.
Nella premessa si legge: “Risulta che l’amministratore delegato avrebbe testimoniato alla magistratura di aver ricevuto esplicite richieste, da soggetti esterni alla società, finalizzate a orientare gli esiti di importanti gare d’appalto indette dalla Consip”. Pressioni – secondo Marroni – ricevute, tra gli altri, dall’imprenditore Carlo Russo che avrebbe parlato a nome di Tiziano Renzi: ma questo, ovviamente, nella mozione non c’è. Si dice, nel testo Pd, che “non avrebbe provveduto a denunciare tempestivamente alla magistratura i fatti”, né “a revocare o sospendere le relative procedure d’appalto”. Si parla però della rimozione della strumentazione necessaria all’indagine. Si tratta della bonifica del suo ufficio fatta dallo stesso Marroni il 20 dicembre scorso, in seguito alla quale avrebbe trovato delle cimici, posizionate dalla magistratura di Napoli che stava indagava per corruzione in relazione al maxi-appalto da 2,7 miliardi per la gestione degli immobili pubblici. Ai magistrati, Marroni disse allora di essere stato informato dell’inchiesta su Consip da quattro persone, tra cui Lotti. Motivo per cui il ministro dello Sport è indagato. Ma di Lotti nella mozione non si fa cenno. Quasi come se tutto fosse accaduto per caso, a partire dalla bonifica dell’ufficio.
Se ne parla in un’altra delle 4, invece, quella di Idea (il movimento di Gaetano Quagliariello), prima firma Andrea Augello, che chiede la rimozione di Luigi Marroni dai vertici Consip, con una premessa particolarmente insidiosa: “Emergerebbero gravissime dichiarazioni rese alla magistratura dal dottor Marroni, riguardo al ruolo del ministro Luca Lotti”. Nella mozione dem, il nome di Lotti non appare mai. Non è ancora stata depositata, ma lo sarà tra breve, una mozione analoga di Mdp, in cui si mette in luce il ruolo del ministro. Denuncia Miguel Gotor: “La mozione su Consip presentata dal Pd al Senato i senatori di Mdp non la voteranno perché la vicenda di Marroni è indissolubilmente legata a quella di Lotti e il governo avrebbe dovuto mostrare la sensibilità e l’opportunità politica di far dimettere Lotti”. Stessa posizione dai 5Stelle. “I dem lasciano Lotti al suo posto e chiedono la rimozione dell’ad, Marroni, dopo che sono passati oltre 6 mesi da quando si è venuti a conoscenza dell’inchiesta: sono degli ipocriti senza vergogna”.
Per far approvare la propria mozione, il Pd punta sui voti dei centristi. Ma poi potrebbero essere votate anche le altre. Quagliariello rivendica la vittoria politica: finora avevano fatto di tutto per non farla calendarizzare.
Il governo pensa anche che sia giunto il tempo di rimuoverlo. E se a Palazzo Chigi e al Nazareno speravano che potesse ritrattare le accuse, nell’ultimo interrogatorio (solo qualche giorno fa) secondo l’Ansa non l’avrebbe fatto. Alla rimozione finora si era opposto Padoan. Ieri, nessun commento ufficiale dal ministero dell’Economia: ma la posizione non è cambiata. Sono ancora convinti che non si possa rimuovere d’ufficio un ad. Si vedrà.
La Stampa 17.6.17
Province fantasma, nessuno ripara strade e scuole
Ecco il conto dell’abolizione a metà “Tagliati i fondi, non le competenze”
di Paolo Baroni
Le Province con le casse vuote chiudono le strade colabrodo per evitare le cause per danni. L’Unione delle Province: «Senza soldi non possiamo garantire i servizi essenziali». Il paradosso della Sicilia: l’ente cambia nome e i costi legali volano alle stelle.
«Non abbiamo più voce per fare appelli: sono due anni che gridiamo più o meno nel deserto» protesta Achille Variati, sindaco di Vicenza e presidente dell’Unione delle province italiane. L’Upi ha manifestato a Roma a metà maggio, poi a ridosso della festa della Repubblica ha scritto al presidente Mattarella. Messaggio semplice e chiaro: senza le risorse necessarie a breve non saremo più in grado di garantire i servizi essenziali che ci competono come scuole, strade e ambiente. I numeri parlano chiaro: alle Province è stato tolto un miliardo di euro nel 2015 ed un altro miliardo nel 2016. Per il 2017, visto che la loro abolizione col no al referendum alla fine non è andata in porto, il taglio è stato azzerato, ma all’appello mancano almeno 650 milioni per la sola copertura della spesa corrente delle funzioni fondamentali. Degli oltre 2 miliardi di euro di tasse automobilistiche appena 360 milioni tornano ai territori e non parliamo poi degli investimenti, scesi del 62% tra il 2013 e il 2016 a un miliardo e poco più.
Fotografia dello sfascio
Eppure a carico delle Province, che nel frattempo han perso 20mila dipendenti, sono rimasti pur sempre 5.179 edifici scolastici (70% senza certificato di prevenzione incendi), ben 130mila chilometri di strade e almeno 30mila tra ponti, viadotti e gallerie. In base alle rilevazioni dell’Upi già oggi circa 5.000 chilometri di arterie sono chiuse per frane, crolli o smottamenti e su almeno il 52% della rete gli enti sono stati costretti ad inserire un limite di velocità di 30 o 50 chilometri all’ora motivando ragioni di sicurezza. Interventi disperati che in alcuni casi adesso sono impediti perché le amministrazioni non sono nemmeno più in grado di sostenere i costi della segnaletica che si renderebbe necessaria.
L’ultima manovrina ha concesso alle Province 100 milioni di euro da destinare alle strade, poi saliti a 170. Ovviamente questi fondi non bastano, perché anche dopo questo contributo c’è ancora un mezzo miliardo da coprire. «Abbiamo strade talmente disastrate che sembrano quelle di Kabul - spiega Variati -. Credo che il Paese meriti qualcosa di più e la politica, quella grande, deve rendersi conto che se non riesce a dare risposte è come se costruisse l’autostrada dell’antipolitica».
Sviluppi possibili? Se a breve non accadrà nulla e non arriveranno rapidamente nuovi fondi secondo il presidente dell’Upi «molte altre strade che non presenteranno più condizioni minime di sicurezza verranno chiuse». Intanto, a scopo cautelativo, tutti i presidenti di Provincia hanno consegnato un mese e mezzo fa un esposto alla rispettiva procura illustrando il dettaglio la situazione che si è creata, i pochi fondi disponibili e l’elenco infinto delle spese che dovrebbero invece sostenere.
Più buche, più cause
«Più buche nelle strade significa più danni e di conseguenza molte più cause», avverte la presidente dell’Unione delle Camere Civili, Laura Jannotta. In realtà molte richieste di risarcimento, quelle dove in ballo ci sono cifre più contenute, vengono risolte attraverso tavoli di conciliazione e solo una minima parte finisce in tribunale. Dove però, segnala un esperto di infortunistica stradale come l’avvocato romano Settimio Catalisano, «da un po’ di tempo a questa parte i giudici tendono a tutelare più gli enti, visto che sono in difficoltà coi bilanci, che gli utenti della strada. Che in caso di insuccesso, poi si ritrovano a pagare tutte le spese legali. Per cui ora molti ci pensano due volte prima di intentare causa».
Roma caso limite
A Roma, da mesi, la situazione ha superato ogni limite. Secondo i dati diffusi nei mesi scorsi dal Codacons sino a tutto il 2016 erano oltre 5.000 le cause per danni intentate contro il Comune di Roma. In particolare risultavano 3.239 sinistri «non in causa», più altri 1.949 incidenti determinanti da buche o scarsa manutenzione del manto stradale approdati invece in tribunale con tempi medi di indennizzo di 6 anni e mezzo e punte che però arrivano anche a 13. «Cinquemila cause - ha commentato il presidente del Codacons, Carlo Rienzi - rappresentano una spesa immensa per l’amministrazione tra costi legali e indennizzi da riconoscere. Se si provvedesse a rifare le strade a regola d’arte senza ricorrere a rattoppi dell’asfalto, il Comune potrebbe risparmiare centinaia di migliaia di euro l’anno». L’ultimo allarme del Codacons risale oramai a poco più di tre mesi fa. Successo qualcosa nel frattempo? No, anzi sì. «La giunta Raggi ha pensato bene di abbassare a 50, 30 ed in alcuni casi anche 10 km l’ora il limite di velocità lungo le direttrici più critiche, l’Aurelia, la Salaria e la Cristoforo Colombo. In questo modo il Comune si tutela ma questa non può essere la soluzione al problema buche - lamentano i consumatori -. È solo una resa».
La Stampa 17.6.17
La vicenda del ministro Lotti peserà ancora sulle elezioni
di Marcello Sorgi
Alla fine il Pd ha deciso di chiudere - in Parlamento almeno - il caso Consip, che coinvolge il ministro Lotti e il padre di Renzi, Tiziano, facendo saltare la testa dell’amministratore delegato della concessionaria dello Stato per gli acquisti, Marroni. Di qui a poco, infatti, incalzato da una mozione di sfiducia di Quagliariello e Augello, il Senato si sarebbe trovato a discutere delle accuse di Marroni a Lotti, smentite dal ministro, che per questo passaggio dell’inchiesta è già stato fatto oggetto di una mozione di sfiducia, poi respinta. Più insidiosa e più facile da far passare in aula, con l’effetto sostanziale di una seconda sfiducia, si presentava adesso quella di Quagliariello, che puntava ad approfondire la divergenza tra Marroni e Lotti: o sono false le accuse dell’ad, che sostiene di essere stato avvertito dell’indagine che lo riguardava dal ministro, o è falsa l’autodifesa di Lotti, sostiene Quagliariello. È per questo che il Pd ha puntato sulle dimissioni di Marroni, in modo che in Senato non si debba tornare a discuterne.
L’inchiesta nata da un caso di corruzione di un funzionario Consip reo confesso si divide in due tronconi. Uno è appunto quello dell’appalto su cui sarebbe stata pagata una tangente, nel quale era stato coinvolto anche il padre di Renzi, a causa di un’intercettazione poi rivelatasi falsa e costruita da un ufficiale dei carabinieri, inquisito a sua volta. L’altro è quello che riguarda Lotti e Marroni, circoscritto alla presunta rivelazione dell’indagine in corso, di cui l’ad sostiene di essere stato avvertito dal ministro. Ma è chiaro che la discussione sulla mozione Quagliariello non si sarebbe limitata a quest’aspetto e avrebbe dato la stura a un dibattito su tutto il caso che Renzi si risparmia molto volentieri, in piena campagna elettorale per le amministrative.
Sarà dunque direttamente il Pd, con un’iniziativa del presidente dei senatori Zanda, a chiedere al governo di far fuori Marroni. Con piena soddisfazione di Quagliariello, che ottiene il risultato che si era prefisso senza neppure dover aspettare il voto sulla mozione, e con i 5 stelle che si augurano che lo stesso Marroni, silurato per cause di forza maggiore, non voglia rinunciare al suo ruolo di accusatore di Lotti. Al di là di queste aspettative, è evidente che l’inchiesta sulla Consip è destinata ancora a pesare, fin quando non arriverà alle conclusioni, sulla vigilia elettorale: su quella breve dei prossimi ballottaggi e su quella, non si sa quanto lunga, delle prossime elezioni politiche.
Il Sole 17.6.17
Tensione tra Pd e sinistra: Pisapia sta con la Cgil, Renzi attacca i mini-gruppi
A poco più di una settimana dai ballottaggi in cui il centrosinistra rischia di perdere città rosse come Genova, La Spezia e Carrara, la distanza tra il Pd e il resto della sinistra si allarga. Ieri Giuliano Pisapia ha scritto alla segretaria della Cgil, Susanna Camusso, schierandosi a favore della manifestazione contro i voucher che si terrà oggi a Roma. L’ex sindaco di Milano e leader di Campo progressista non sarà però a Piazza San Giovanni dove invece hanno già annunciato la loro partecipazione i bersaniani di Mdp che domani saranno anche al Brancaccio con la sinistra che disse «No» al referendum costituzionale. A Roma Pisapia arriverà invece il 1° luglio con una manifestazione a piazza santissimi Apostoli, la piazza dell’Ulivo, dal titolo evocativo «Insieme».
Renzi che continua a tenersi distante dalla campagna elettorale e preferisce tornare alla carica sui costi della politica. Nel mirino del segretario dem la proliferazione dei gruppi alla Camera. «Lungi da me voler fare polemica con la presidente Boldrini ma trovo che sia giusto rispettare le regole della Camera dei deputati. Se fai gruppi con meno di 20 deputati alimenti non solo le spese ma anche la frammentazione politica», attacca Renzi commentando un articolo che raccoglie i dati di Openpolis e che stima in 5 milioni di euro in più il costo per il sostentamento dei mini-gruppi. A stretto giro arriva la replica della presidente della Camera Laura Boldrini. Per cambiare le regole «basta un sì» stigmatizza Boldrini ricordando la proposta di riforma che è già stata ampiamente elaborata. E da segretario Pd , Renzi «può dare un contributo rilevante per risolvere la questione» visto che «nessuno tra i maggiori gruppi ha indicato in cima alle sue priorità questo tema». Attacca Renzi il vicepresidente della Camera, il forzista Simone Baldelli: «Quelle di Renzi sono parole in libertà di chi non conosce il Regolamento, un boomerang per il Pd». Critici anche i 5 stelle: Renzi «ormai si schiaffeggia da solo. È stato il Pd ad autorizzare la costituzione dei gruppetti». Scelta Civica, uno dei partiti che ha subito la maggiore emorragia di eletti, mette le mani avanti e avverte: siamo in regola. Ma i civici si dicono pure «perplessi» per il comportamento della presidente della Camera «che, stando ai fatti, sembra in effetti tenere un comportamento meno rigido di quello fatto registrare al Senato dal presidente Grasso».
Il Sole 17.6.17
A sinistra serve un programma, non dibattiti ideologici
di Paolo Pombeni
Baruffe a sinistra e nostalgia dell’Ulivo? C’è da sperare che l’attuale fase del dibattito sulle alleanze future fra il Pd, inevitabilmente renziano, e l’arcipelago che sta alla sua sinistra non ricada nella coazione a ripetere l’esperienza di alleanze fondate solo su transitorie e ambigue tregue ideologiche. Qualche sentore del genere c’è, perché alla fine tanto l’Ulivo quanto la famosa “Unione” fondavano l’accordo sulla pregiudiziale della diga contro la destra e contro Silvio Berlusconi, pensando che poi sul concreto programma di governo si sarebbero trovati aggiustamenti strada facendo. Così non fu.
Ora sembra che di nuovo la spinta all’accordo debba venire dall’obiettivo di sbarrare la strada ad un possibile ritorno di Berlusconi al governo: nostalgia del tempo che fu, più che analisi realistica di una situazione in cui il vecchio e ormai ex Cavaliere è tutt’altra cosa e in cui la destra ha altro volto e obiettivi accanto a un fenomeno di nuova marca come il movimento di Grillo e Casaleggio. Naturalmente ora come allora il tutto viene confezionato in un gran dibattito su cosa sia veramente di sinistra, nel rifiuto o meno della leadership di Renzi, nella apertura ai sussulti di un’opinione pubblica in cui si trova di tutto, dalle eterne mosche cocchiere alle ambizioni dei movimenti civici di uscire dal recinto dei partiti.
Ora come allora per cavarsi d’impaccio si spera nella mediazione del “papa straniero”, anzi in questo caso nel ritorno del “papa emerito”, cioè Romano Prodi. Eppure vi è non poca ambiguità in questo approccio, per la semplice ragione che Prodi una “linea” l’ha già buttata sul tavolo, ed è quanto sta scritto nel suo libro Il piano inclinato (Il Mulino). Chi l’ha letto si chiede ad esempio come possano pensare che quello che scrive Prodi sul pasticcio dei voucher possa suonare come un supporto alla linea di Mdp e Sinistra italiana, che la sua realistica analisi della crisi dei sindacati e il suo appello a favore del lavoro giovanile possa conciliarsi le intemerate dei filo-Cgil che abbondano nel campo che vuole definirsi progressista (e l’elenco potrebbe continuare).
L’idea di usare il Professore come testa d’ariete per ridimensionare e magari mettere fuori gioco Renzi non è una grande idea. Un Pd senza leadership e riconsegnato allora inevitabilmente alle lotte di corrente, per non dire di fazione, non potrà avere un ruolo di governo innanzitutto rispetto alle componenti della sinistra radicale con cui formare la futura maggioranza (ammesso ovviamente che i risultati elettorali vadano in quella direzione).
Il tema da porre per un’ipotesi di alleanza di governo che tenga insieme la sinistra riformista e la sinistra radicale (lasciamo perdere le elucubrazioni sul “centro” che servono solo per lanciarsi scomuniche) è inevitabilmente quello del programma, ma non del programma ideologico (nessuna nostalgia per il famoso “librone” dell’Unione), bensì di quello che contiene l’analisi realistica dei nodi da affrontare e la proposta delle azioni che ci si impegna a fare per scioglierli.
Senza un’impostazione di questo tipo si finirà, nel migliore dei casi, di ripercorrere il piano inclinato che fra anni Cinquanta ed anni Sessanta portò all’evirazione dell’alleanza di centrosinistra. Anche allora si perse tempo da parte della Dc a chiedere ai socialisti di abiurare alle loro costruzioni ideologiche e da parte del Psi a chiedere al partito cattolico di prestare fideiussioni per la sua apertura alle riforme di struttura. Allora però a soffiare sul fuoco c’erano le gerarchie cattoliche che volevano sabotare l’apertura a sinistra da un versante e il Pci che voleva sabotarla dall’altro. Erano forze più cospicue e con maggior peso sociale delle varie fazioni che oggi, aiutate magari dal sistema mediatico, lavorano per condizionare o per fare fallire la riuscita di un impianto classicamente bipolare della politica italiana.
Perché l’impianto bipolare, piaccia o meno, suppone convergenze di natura riformistica (per default si dice “al centro”) fra le componenti dei due poli e non fughe nell’utopismo che spesso è solo una maschera per garantire, dall’una e dall’altra parte, il mantenimento di sicure rendite di posizione nel teatrino della politica.
Il Fatto 17.6.17
La vera sinistra lasci perdere i Blair e i Clinton
di Gian Giacomo Migone
Tra le tante cattive abitudini della sinistra, in passato ve n’era una sicuramente buona: di collocare i propri obiettivi in un contesto più ampio di quello italiano. Potrebbe orientarci nel campo delle cento pertiche in cui rischiamo di perderci. Parliamone, nei numerosi appuntamenti dei prossimi giorni. Oggi la Cgil guida una protesta sacrosanta contro un governo che, al di là del merito pure inaccettabile, colpisce il diritto dei cittadini a effettuare un referendum indetto a norma di Costituzione. Domani Anna Falcone e Tomaso Montanari, al Brancaccio, propongono di ripartire dalla formulazione di un programma unificante dal basso, mentre Campo Progressista, guidato da Giuliano Pisapia e forse ispirato da Romano Prodi, ha centrato la propria iniziativa sul tema degli schieramenti, sollecitato dall’imminenza delle elezioni politiche. Sullo sfondo resta il tema irrisolto della legge elettorale, all’odg dell’assemblea dei comitati per il no che, il 24, dovrà decidere il proprio futuro. Non dimentichiamo che il 25 si passerà dalle parole ai fatti con i ballottaggi in decine di capoluoghi di provincia (cruciale quello di Genova).
Il resto del mondo c’entra e come, anche se viene raramente menzionato – forse con la sola eccezione di Prodi – dai pur degni protagonisti di queste iniziative. Noi siamo parte di un Occidente che è colpito da una crescente disuguaglianza che si traduce in sofferenza sociale, mancanza di prospettive delle giovani generazioni, guerre tra poveri (migranti e non), azioni militari prive di soluzioni pacifiche, con conseguente indebolimento di istituzioni politiche guidate da protagonisti, in numero e misura crescente corrotti e incompetenti, ma che risultano impotenti. Screditati perché nominalmente titolari di poteri erosi da interessi che nuotano come pesci nel fiume in piena di una globalizzazione che, in un mondo in tortuosa transizione verso un assetto multipolare nemmeno delineato, è privo di regole, in balia di violenze individuali e statuali, indifferente ai pericoli dell’autodistruzione ambientale. Se di tutto ciò siamo fatalisticamente consapevoli in Italia, ci sfugge che siamo a una svolta che potrebbe anche essere catastrofica – la storia del secolo scorso insegna quanto possa comportare l’impoverimento dei ceti medi – ma che offre una nuova e diversa prospettiva. Innanzitutto, risulta sconfitto il tentativo di una sinistra che insegue la destra sul proprio terreno, assimilandone una cultura neoliberista con pretenziosità scientifica screditata. I Blair, i Clinton non resusciteranno (politicamente) e il loro anacronistico emulo nostrano è lui stesso consapevole del suo vertiginoso declino al punto di tentare di anticipare una scadenza elettorale. Nello stesso tempo la destra Tory e quella repubblicana assorbe il populismo reazionario. Chiediamoci, invece, cosa ha portato Jeremy Corbyn a sfiorare la vittoria elettorale, consolidando la propria leadership, e Bernie Sanders a vincere le primarie in 21 stati, con un apparato di partito che ha preferito regalare la presidenza a Trump manipolando regole interne e statuali. In essenza, quattro fattori: 1) un programma classicamente socialdemocratico, d’impostazione neokeynesiana, solidale anche nei confronti degli immigrati; 2) una mobilitazione di giovani che invadono i partiti tradizionali, ma rifiutano di sostenere (nel caso statunitense, votare) la vecchia leadership; 3) una radicalità temperata da uno stile fattuale e moderato, sostenuta da una reputazione di correttezza personale prima che politica; 4) un contenitore politico unico. Le prime tre condizioni sono alla nostra portata, anche se non scontate. Inoltre, l’ostilità nei confronti dell’Europa da parte di Trump e di Putin, rende più evidente la necessità democratica di offrire a mezzo miliardo di persone, una rappresentanza unitaria. Manca la quarta condizione, quella di un partito di sinistra, per una paradossale moltiplicazione di contenitori in risposta a una presso che totale alienazione dell’opinione pubblica dalla forma-partito. Un primo passo nella direzione giusta potrebbe essere una campagna di massa, forse un referendum abrogativo, di ogni norma elettorale (di cui il legalicum vigente è dotato) che consenta ai partiti di nominare parlamentari. Nell’immediato, mentre discutiamo, impegniamoci perché Genova democratica, dopo aver imposto la resa all’esercito tedesco nel 1945, non debba arrendersi al postfascismo affarista di Salvini e della Meloni
Repubblica 17.6.17
Rogo di Londra superstiti infuriati “May si dimetta”
Corbyn attacca: “Sequestrare le case vuote dei ricchi” La Farnesina conferma: “Gloria e Marco sono morti”
di Enrico Franceschini
LONDRA. Un falò di roventi polemiche s’innalza dalla torre bruciata di Londra, nel giorno in cui arriva la conferma della morte dei due ragazzi italiani, Gloria Trevisan e Marco Gottardi: ad annunciarlo è Maria Cristina Sandrin, avvocato della famiglia Trevisan, informata dalla Farnesina. Lo scontro politico potrebbe contribuire a mandare in fumo il governo che Theresa May cerca faticosamente di costruire, costringendo la premier a dimettersi. Il sindaco di Londra Sadiq Khan accusa l’esecutivo di «non avere fatto abbastanza» per prevenire l’incendio. Il ministro degli Esteri Boris Johnson risponde accusando il sindaco di Londra di «ignobile speculazione politica». Ma intanto Jeremy Corbyn propone di sequestrare le case vuote dei ricchi, e nella capitale ce ne sono tante, per dare un alloggio almeno temporaneo agli sfollati del grattacielo: «Sono disabitate, occupiamole», dice il leader laburista. Nel frattempo una dimostrazione di centinaia di persone furibonde assedia il municipio di Kensington, il quartiere teatro del terribile incidente, protestando per le misure di sicurezza inadeguate del palazzo, chiedendo giustizia: per un po’ la folla irrompe nell’aula del consiglio comunale, in un’atmosfera da insurrezione di popolo. Perfino la stampa filo conservatrice attacca May, dopo averla difesa a spada tratta in campagna elettorale, rimproverandole la sua «fredda, insensibile reazione» alla sciagura. La leader dei Tories cerca di compensare visitando i feriti in ospedale, ma è un’ambiente protetto: lascia che siano la regina e il principe William ad affrontare il rancore dei superstiti nei centri di accoglienza. «Il primo ministro», ammonisce il Daily Telegraph, che pure è un giornale di destra, «è in pericolo mortale ». Pericolo politico, s’intende. Circolano dubbi insistenti sul fatto che il suo governo di coalizione potrebbe non nascere. Per il momento, la polizia esclude ipotesi di dolo nell’incendio, ma diventa sempre più chiaro che qualcuno pagheràcaro, per le inadempienze dei sistemi d’allarme e per un incidente che ha scioccato la nazione come e più del terrorismo: se non altro perché questo sarebbe stato più facile da evitare. Come previsto, il bilancio della tragedia della Grenfell Tower continua a crescere: ieri è aumentato a 30 morti e 70 dispersi, vale a dire 100 vittime, ma la polizia ammette che potrebbe essere impossibile identificare tutti i resti e sapere esattamente quante persone sono morte nel rogo a Notting Hill. Davanti all’orrore dell’accaduto cresce anche la gara di solidarietà: un fondo di donazioni per i residenti del grattacielo, organizzato con il crowdfunding, ha raccolto 2 milioni di sterline in due giorni. Montagne di vestiti, scarpe, si accumulano nei centri di soccorso. E ogni giorno vengono fuori nuovi episodi di eroismo: l’uomo che ha preso al volo, «come una palla da rugby», una bambina di 4 anni lanciata dai genitori dal quinto piano invaso dalle fiamme o il figlio che si è portato in spalla la madre disabile dal ventiquattresimo piano fino all’uscita, ma il padre è tra i dispersi.
«Dal dolore alla rabbia», riassume il Times. Il sindaco Khan punta il dito contro il governo in una lettera in cui rimprovera a Theresa May e al governo di non avere fatto abbastanza per prevenire «l’orrendo disastro», né dato risposte adeguate «all’ira della comunità» e neppure assistenza sufficiente agli scampati. «Ignobile politicizzazione», risponde il ministro degli Esteri Johnson, «è incredibile che il Labour suggerisca che questa tragedia sia stata causata dai tagli» alla spesa pubblica. Eppure sembra proprio così: il Guardian rivela che il grattacielo, gestito da un società pubblica, ha usato rivestimenti esterni meno costosi e più infiammabili, risparmiando 2 sterline a metro quadro, in un restauro completato un anno fa. «I nostri vicini sono morti per permettere al governo di risparmiare soldi», gridano i superstiti a Andrea Leadsom, neo leader conservatrice della Camera dei Comuni. E Gavin Barwell, il nuovo capo dello staff di Downing Street, accusato dalla stampa di avere imboscato un rapporto sulla pericolosità di edifici come quello bruciato nei giorni scorsi quando era ministro dell’Edilizia, sempre allo scopo di ridurre i costi, tace rifiutando di rispondere alle domande. Il contrasto fra la regina che ieri è sembrata vicina alle lacrime, visitando i sopravvissuti, e Theresa May accusata di averli “snobbati”, non potrebbe essere più forte. Come se non bastasse, Gerry Adams, presidente dello Sinn Fein, il partito indipendentista nord-irlandese, dichiara che una coalizione fra i Tories e il Dup, il partito unionista nord-irlandese con cui la premier sta negoziando da giorni, sarebbe “illegale”, perché gli accordi di pace del 1998 obbligano la Gran Bretagna a una “rigorosa imparzialità” fra le due parti. Di questo passo, anche il governo May rischia di andare in fumo.
il manifesto 17.6.17
Esplode la rabbia di Grenfell, qui di povertà si può bruciare
Londra. I 5 milioni di sterline messi a disposizione dallo stato non placano gli animi. Presa d'assalto la sede del council, contestata Theresa May. L’assalto al cielo di Corbyn: requisire le case miliardarie sfitte per gli sfollati
di Leonardo Clausi
LONDRA Si parla ora di trenta morti, ma il bilancio ufficiale delle vittime di Grenfell Tower resterà provvisorio a lungo. Ancora ieri sera degli ultimi focolai erano visibili. La polizia dispera di poter identificare quanti ancora nella carcassa dell’edificio, che durante il rogo ha raggiunto una temperatura di oltre mille gradi e ora presenta problemi di stabilità. Mancano settanta persone accertate all’appello. In serata la notizia che 5 milioni di sterline saranno messi a disposizione dallo stato, cosa che non ha affatto placato gli animi, tanto che la sede del council è stata quasi presa d’assalto dai cittadini.
UNA RABBIA VISCERALE, non lontana da quella che portò ai riots nel 2011 dopo l’uccisione di Mark Duggan. Mentre l’inchiesta indetta da Theresa May arriva puntualmente durante la conta delle vittime, Jeremy Corbyn vuole che gli appartamenti miliardari sfitti disseminati attorno vengano requisiti e dati agli sfollati: un autentico assalto al cielo nel paese che ha brevettato la proprietà privata che provocherà una formidabile levata di scudi.
Continuano intanto a emergere dettagli che inchiodano council e housing association alle proprie responsabilità. La pannellatura ritenuta probabile veicolo delle fiamme era stata bandita negli Usa in edifici oltre una certa altezza. Un’inchiesta della British Automatic Fire Sprinkler Association del 2012 aveva calcolato i costi di allestimento di spruzzatori – gli unici veri dispositivi di sicurezza antincendio in edifici di quell’altezza – a poco più di mille sterline ad appartamento. La somma, pur moltiplicata per i 120 appartamenti dello stabile, sarebbe stata di molto inferiore ai circa tre milioni spesi per la pannellatura di bell’aspetto e alta combustione che ha peggiorato la catastrofe. Il Grenfell Action Group, l’associazione di inquilini i cui appelli erano rimasti inascoltati, aveva inoltre ripetutamente denunciato l’ammasso di rifiuti abbandonato ai vari piani che ostacolava le vie di fuga.
Ieri la regina e il nipote William, duca di Cambridge, si sono fatti coraggio e hanno visitato il Westway Sports Centre, struttura nei pressi della torre dove è stato allestito un centro di accoglienza. Sono quasi vicini di casa: il Kensington Palace, una delle dimore di famiglia, è non troppo distante. Un coraggio mancato giovedì a Theresa May, che ha evitato di incontrare gli sfollati, vittime indirette del suo stesso partito e delle sue politiche di tagli. La sua visita «guidata» sul luogo del disastro di mercoledì con i soli soccorritori ha riacceso le fiamme della rabbia. E la sera, quando è andata a incontrare i residenti in una chiesa vicina per metterci una pezza, è stata accolta talmente male da essere portata via in tutta fretta da un imponente servizio d’ordine.
LA STESSA RABBIA non aveva risparmiato il sindaco Sadiq Khan, le cui credenziali pro-business diventano atto d’accusa in una situazione del genere, o l’anchor man di Channel 4 News Jon Snow. Per tacere della neo leader Tory della Camera dei Comuni, Andrea Leadsome, ex rivale di May alla guida del partito. Vederla annaspare ieri con il suo accento levigato di fronte alle accuse dei residenti era come assistere a una rappresentazione vivida e drammatica delle due città di cui è fatto Kensington & Chelsea: vicine geograficamente ma inavvicinabili socialmente.
PROPRIO QUI, in una delle zone più ricche e povere del mondo, di povertà si può bruciare. Nessun’altra zona del paese ha un gap di reddito così enorme fra chi guadagna troppo e chi troppo poco. I senza tetto sono aumentati del 43 per cento dal 2010, l’anno di insediamento della coalizione Tory-Libdem, un terzo dei deputati conservatori è un padrone di casa. Austerity e un mercato immobiliare oscenamente pompato hanno fatto sì che i council ovviassero ai tagli governativi rivendendosi la propria ricchezza, gli alloggi popolari. È così che a Grenfell è scoppiato il bubbone della diseguaglianza. Che non ha mai smesso di gonfiarsi in trent’anni di neoliberalismo bipartisan.
La Stampa 17.6.17
“L’Italia sarà regista del piano di difesa nel cuore dell’Africa”
Il capo di Stato maggiore della Difesa Graziano: i nostri militari istruttori d’eccellenza per contrastare terrorismo, instabilità e migrazioni
di Francesco Grignetti
Anche alla Nato ormai sono convinti che esiste un Fianco Sud, tanto è vero che nel febbraio scorso è nato un Comando specifico con sede a Napoli. Ma la difesa avanzata del Fianco Sud si è spostata in avanti. È arrivata al cuore dell’Africa. E ormai nei documenti militari si parla sempre più di Niger, Mali, Ciad, Burkina Faso. Per il generale Claudio Graziano, capo di Stato maggiore della Difesa dal 2015, non è una sorpresa. «Nel 1992 ero al comando di una missione in Mozambico. Poi sono stato in Afghanistan e in Libano. Ho vissuto davvero da vicino la trasformazione che ci ha portati fin qui dalla Guerra Fredda».
Generale, parliamo allora di questo Fianco Sud che va molto oltre la crisi libica?
«Il cosiddetto Fianco Sud, oltre ad essere una minaccia multiforme che noi militari identifichiamo nel triangolo terrorismo-instabilità-migrazione, include una realtà molto vasta che va dalla Penisola Arabica al Medio Oriente, al Corno d’Africa, all’Africa del Sahel. L’istituzione di questo nuovo Comando Nato, su cui il ministro Roberta Pinotti si è molto spesa nelle sedi internazionali, è un indubbio successo politico-diplomatico dell’Italia. Da lì si coordineranno meglio le operazioni in corso nell’area, sia Nato, sia europee. Ma ci sarà anche una sorta di cabina di regia per quella che è divenuta la nostra vocazione principale: il “capacity building”, la creazione di forze di sicurezza che sono un tassello importante per la stabilità».
Molti, di fronte al bollettino quotidiano degli sbarchi, si attendono interventi diretti dei militari.
«Guardi, per dirla chiaramente, il “capacity building” è un impegno di lungo termine, ma ineludibile. Attualmente noi italiani abbiamo 7000 militari schierati in 30 missioni all’estero. Ormai sono quasi tutti istruttori d’eccellenza: prepariamo forze convenzionali e forze speciali; i carabinieri addestrano in maniera eccellente forze di polizia locali. Anche l’addestramento degli uomini della Guardia costiera libica da parte della missione europea Sophia è positivo: sembrano avere la volontà di intervenire. Ma chiaramente quella libica è una situazione in progress».
Prospettive?
«Vi è indubbiamente nel Fianco Sud una certa debolezza delle organizzazioni statuali. Vi è una certa povertà. Vi sono pericolose reti criminali. Ed è interesse internazionale stabilizzare questi Paesi prima che le crisi precipitino. È evidente però che la stabilità economica ha una sua fondamentale importanza».
Eppure questa frontiera si va spostando in avanti. È notizia di pochi giorni fa che la Ue finanzierà con 50 milioni di euro una Forza congiunta per il controllo dell’area sub-sahariana. È immaginabile che nuovi istruttori italiani andranno da quelle parti?
«La fascia del Sahel, che è anche la fascia della povertà, è senza dubbio la nuova frontiera del Fianco Sud. Ma i militari possono essere solo una parte delle risposte. Il processo problematico dell’Africa, probabilmente per colpa dell’Europa, è nato molti anni fa. Che in Africa ci fosse un problema, lo sapevamo. Che ci siano milioni di persone potenzialmente in movimento, sappiamo anche questo. Finalmente però c'è una strutturazione. Precisiamo comunque che in Mali ci siamo già, visto che partecipiamo alla missione Eutm (European Union Training Mission, ndr) con 12 istruttori. E che abbiamo la leadership di un’altra missione Eutm di altrettanta importanza in Somalia, con 130 militari. Stiamo per assumere anche la guida della missione europea antipirateria Atalanta. E non dimentichiamo che siamo massicciamente presenti in Iraq con altri 1500 uomini, che stanno addestrando le forze da combattimento irachene».
E in Libia?
«Come è noto, curiamo i feriti di Misurata e la popolazione. Forniamo anche assistenza e istruzione al personale sanitario locale. Il che è anch’essa una forma di “capacity building”, cercando evidentemente anche di guadagnare consensi in un’area così delicata. Dopodiché assistiamo anche i feriti dell’altra parte: ce ne sono in cura sia al Celio sia all’ospedale militare di Milano... Sulla Libia posso dire che la crisi viene da lontano. Un po' per effetto delle primavere arabe, un po’ per la peculiare situazione interna, che risente del tribalismo, era in crisi già il regime di Gheddafi. Poi venne la rivoluzione. E l’intervento Nato è stato successivo. Non faccio valutazioni politiche, ma è una situazione verso la quale l’Italia ha un oggettivo interesse specifico».
Generale, non la preoccupa il moltiplicarsi dei focolai?
«Il numero di queste crisi, e anche il loro andamento ciclico, ci fa pensare che dovremo convivere con una situazione di instabilità a lungo termine. La trasformazione che stiamo facendo delle forze armate, vedi il Libro Bianco, che speriamo di portare a compimento presto, prevede di avere delle forze armate capaci di operare in un lungo periodo».
Il cittadino comune però vede missioni militari che non si esauriscono mai.
«Capisco che ci si interroghi. In Libano ci stiamo dal 1976. Ma se i tempi del dialogo non sono ancora maturi, andare via da lì, come da tanti altri teatri, vedi anche il Kosovo, sarebbe pericoloso. Sono le parti che ci chiedono tempo. E non avrebbe senso lasciare aree dove le crisi comunque le controlli, per poi accorrere a tamponarle dall’esterno».
Repubblica 17.6-17
Da Miami l’annuncio della nuova politica: stretta sugli affari, ma l’ambasciata resta aperta
Cuba, Trump cancella gli accordi di Obama “È un regime brutale”
Alberto Flores D’Arcais
NEW YORK. Un bel po’ di fumo e non troppo arrosto. Donald Trump aveva promesso di fare tabula rasa delle aperture a Cuba di Obama e aveva scelto per l’annuncio (non a caso) Miami e un teatro di Little Havana dove spadroneggia la compagnia di giro degli ultras anti-castristi della Florida. A parole è un fiume: «Ora che sono presidente denuncio il brutale regime castrista. I cubani soffrono da sei decenni, con l’aiuto di Dio presto avremo una Cuba libera. Chiediamo elezioni libere. Liberate subito i detenuti politici. Obama ha arricchito la dittatura, io cancello questo accordo completamente squilibrato, costringerò Castro a farne uno nuovo. Non staremo in silenzio».
Il presidente firma il decreto che sancisce le nuove politiche contro Cuba. Vuole «rafforzare il rispetto delle leggi americane » (soprattutto quelle che regolano l’embargo e il divieto di turismo), minaccia ritorsioni per gli abusi sui diritti umani («ignorati da Obama»), si fa paladino di una politica per dare più potere agli stessi cubani «sviluppando una maggiore libertà economica e politica». Belle parole, proprio quelle che a Miami volevano sentirsi dire, ma sostanza (al momento) ancora poca. Per metterle in pratica a The Donald occorrerà tempo (e con il Russiagate che incombe non è detto che ne abbia), forse il beneplacito del Congresso - diversi deputati repubblicani non sono entusiasti della giravolta - e soprattutto dovrà evitare contraccolpi sull’economia della Florida. Ancora prima dell’apertura di Obama l’embargo era abbondantemente violato e non è un mistero che a Cuba molti beni arrivino proprio dal Sunshine State. Le nuove direttive proibiscono a turisti ed imprenditori americani di avere transazioni con il “Grupo de Administracion Empresarial”, il braccio commerciale del regime (guidato dal generale Luis Alberto Rodriguez, genero di Raúl Castro) che controlla gran parte dell’economia dell’isola (alberghi e ristoranti della capitale e della spiaggia ultra- turistica di Varadero).
Gli Stati Uniti però «non chiuderanno l’ambasciata all’Avana » (un successo che ha come artefice proprio Obama). Così che in fin dei conti, per quanto riguarda i rapporti con il popolo cubano la scommessa di Trump non è poi molto diversa da quella del suo predecessore: puntare sulla vecchiaia di Raúl Castro (pronto a farsi, almeno formalmente, da parte) e sulla voglia crescente di libertà di intere generazioni che non l’hanno mai conosciuta
Repubblica 17.6.17
Al di là del giallo sulla fine del suo leader, l’Isis ha già cambiato strategia. E tornerà organizzazione “agile”
Ma sulle ceneri del Califfato si prepara un nuovo Stato in quel che resta tra Siria e Iraq
Giampaolo Cadalanu
LA RICONQUISTA totale di Mosul è ormai a portata di mano: l’Isis controlla pochi isolati attorno alla moschea di Al Nuri, mentre i soldati iracheni continuano ad avanzare. In Siria l’offensiva per Raqqa sembra entrata nella fase finale, e i primi quartieri periferici sono già in mano alle truppe della coalizione Sdf, in prevalenza combattenti curdi, affiancate da forze speciali occidentali, soprattutto statunitensi. Ma se in Iraq il capoluogo di Ninive è una metropoli, con oltre un milione e mezzo di persone, la capitale siriana del Califfato è solo una città di provincia, che prima della guerra contava 220mila abitanti. E questo lascia prevedere che la battaglia per riprendere Raqqa ai jihadisti non sarà lunghissima.
Il radicamento territoriale dell’Isis è sempre più ridotto: il sedicente Stato islamico, in quanto tale, si sta liquefacendo. È una notizia positiva? In realtà no. Per niente. Privo del suo “stato”, l’Isis si prepara a tornare un’organizzazione più agile, di natura puramente terroristica, pronta a colpire nei Paesi arabi come in Occidente, facilitando le operazioni degli integralisti solitari ma anche pianificando militarmente attacchi complessi. E l’Europa è un obiettivo relativamente facile, per la distanza più ridotta, per la geografia, per la tradizionale apertura alle migrazioni.
Ci sono persino analisti propensi a credere che i comandi dell’Isis abbiano coscientemente rinunciato a difendersi usando gli strumenti più letali, che pure possedevano: armi chimiche, eredità di Saddam, di Gheddafi o dello stesso governo siriano, ma anche bombe “sporche”, capaci di spargere materiale radioattivo. Perché questa rinuncia? Per usare l’arsenale in un modo che per gli integralisti appare più produttivo: colpendo il nemico in casa sua.
In questo senso per l’Europa ha un’importanza da non sopravvalutare anche la morte, vera o presunta, di Abubakr Al Baghdadi. L’uomo che ha voltato le spalle ad Ayman Al Zawahiri, arrivando all’oltraggio di chiedere un impegno di sottomissione all’erede di Osama Bin Laden, potrebbe non essere più indispensabile ai fondamentalisti. Il suo messaggio è stato distribuito, la strategia di “amministrazione della ferocia” ispirata dal teorico egiziano Abubakr al Naji è stata propagata e assorbita. Persino i tentativi di Hamza Bin Laden, figlio di Osama, di riportare ad Al Qaeda la leadership del fronte jihadista, non ne possono prescindere: lo conferma l’appello con cui il giovane nelle scorse settimane ha chiesto non più attacchi su obiettivi d’alto livello, scelti con logica militare, come progettava suo padre, ma assalto contro «ebrei e crociati», da condurre nel modo più devastante possibile, con «armi che non devono per forza essere strumenti militari».
L’Isis che risorgerà sulle ceneri dello Stato islamico potrà approfittare delle rivalità settarie che dividono Siria e Iraq. Nel primo caso, la situazione militare sembra legittimare una prosecuzione dell’attuale leadership alauita, magari in una entità territoriale ridotta, ma con la protezione dell’Iran e soprattutto gli aiuti militari della Russia. La presenza sul terreno di truppe speciali Usa (ma anche britanniche e norvegesi) a fianco dei ribelli dell’Esercito libero siriano può essere letta anche come una scelta di campo che imporrà un cambiamento nel ruolo di Bashar Assad. Meno chiaro è il destino che attende la zona di Raqqa, vista l’opposizione radicale di Ankara a qualsiasi forma di territorio curdo indipendente.
Anche in Iraq, l’autonomia del Kurdistan potrebbe diventare qualcos’altro: il presidente Massoud Barzani ha indetto unilateralmente per il 25 settembre un referendum che dovrebbe sancire la secessione da Bagdad. Ma il governo iracheno non è d’accordo, e la lentezza delle ultime settimane nell’offensiva su Mosul potrebbe essere un segno del disaccordo. Ancora più inquietanti sono le domande sul futuro dei sunniti: se a governare le zone liberate torneranno gli sciiti, con la vecchia corruzione e in più le rappresaglie sui civili accusati di complicità con l’Isis, le condizioni che hanno aperto la strada agli integralisti resteranno, per offrire a chi vorrà nuove opportunità di terrore.
il manifesto 17.6.17
A rischio i nuovi aiuti alla Grecia, l’alleggerimento del debito resta vago
Accordo all'Eurogruppo. Nuova tranche da 8,5 miliardi. Ma pesa l’inchiesta su i tre funzionari alle privatizzazioni (uno sloveno, un italiano e uno spagnolo) al vaglio della giustizia di Atene
di Teodoro Anreadis Synghellakis e Fabio Veronica Forcella
Un piccolo passo avanti e una prevedibile delusione dovuta allo strapotere tedesco. È questa la sintesi dell’accordo raggiunto all’Eurogruppo di giovedì sulla Grecia. Si è deciso di dare il via libera a una nuova tranche di aiuti ad Atene da 8,5 miliardi euro, ma non sono stati assunti impegni precisi sull’annosa questione di un alleggerimento del debito. Le misure concrete, verranno stabilite solo alla fine del programma di sostegno, nell’estate del prossimo anno. E, adesso, l’interrogativo maggiore è se la Grecia potrà essere inserita nel Qe della Banca Centrale Europea, cosa che appare alquanto complessa.
Come se non bastasse allo «stop» imposto da Schauble a tutto ciò, ora si aggiunge anche un’altra questione, particolarmente spinosa. Si tratta di tre funzionari, appartenenti ai paesi creditori (uno spagnolo, uno slovacco e un italiano), la cui posizione è al vaglio della giustizia greca. In base a una denuncia fatta da privati, avrebbero valutato troppo al ribasso la privatizzazione di una serie di immobili. Ora, tanto il ministro spagnolo dell’economia Luis De Guindos, quanto il suo collega italiano, Pier Carlo Padoan, hanno lanciato il messaggio che la questione dovrà essere valutata nuovamente prima che vengano versati alla Grecia gli 8,5 miliardi sbloccati giovedì. Se non si andrà verso una archiviazione-lampo, si lascia intendere che ci potrebbe essere un «congelamento» degli aiuti necessari ad Atene per ottemperare ai suoi obblighi verso i creditori. Lo stesso Padoan si è detto ottimista sulla questione, e il governo ellenico ha fatto sapere che si troverà una soluzione, nel rispetto della legge.
La questione – a quanto pare – non avrà un particolare seguito, visto che i tre funzionari (appartenenti al Taiped, il Fondo ellenico per le privatizzazioni), avrebbero avuto un ruolo consultivo e non decisionale. Ma l’autonomia della giustizia, dovrebbe venire garantita, sempre. Colpisce, infatti, che la crisi economica abbia stravolto equilibri fondamentali, con la richiesta, a un governo di un paese alleato e membro dell’Unione, di far chiudere, in sostanza, un’inchiesta aperta dalla magistratura. E questo, in un paese sottoposto a ripetute perdite di sovranità e con una serie di privatizzazioni che hanno visto vendere agli stranieri importanti asset produttivi.
Oltre tutto, in Grecia si cerca di comprendere il senso dell’accordo raggiunto due giorni fa all’Eurogruppo. In linea di massima, è stata accettata la posizione francese di legare il pagamento del debito, al tasso di sviluppo del paese. E nelle prossime settimane (ma più probabilmente dopo le elezioni tedesche di settembre) verranno definiti, comunque, maggiori dettagli sull’alleggerimento del debito, da ufficializzare nell’autunno del prossimo anno.
«La Grecia volta pagina, si tratta di un accordo che tiene conto dei sacrifici del nostro popolo», ha scritto Alexis Tsipras. Malgrado la posizione molto più disponibile della Francia, e in parte dell’Italia, la Germania, ha fatto pesare, ancora una volta, i suoi «no», mettendosi di traverso per una soluzione immediata sul debito, che avrebbe costituito un’ulteriore garanzia, uno scudo per il paese e il suo ritorno sui mercati.
Il leader di Syriza, spera comunque che sia definitivamente finito il periodo dei tagli e dei sacrifici imposti dai creditori e che si possa tornare a pensare, finalmente, solo alla crescita, anche con delle misure di sostegno alle classi più deboli. Molto dipenderà dal rispetto degli impegni assunti: se ci sarà un alleggerimento del debito tra poco più di un anno, e finirà davvero il commissariamento, la Grecia, e la sinistra, potranno guardare davvero al futuro, da una prospettiva differente.
Repubblica 17.6.17
Lo storico Heinz Schilling spiega la modernità della Riforma protestante avviata nel 1517
“L’Europa? L’ha unita più Lutero di Merkel”
Alberto Melloni
Nell’ultimo centenario della morte di Martin Lutero (1546), una settantina di anni fa, né Horst Kasner, pastore luterano della DDR, né Rosa Vassallo, pia piemontese cattolica emigrata in Argentina, avrebbero mai immaginato che per il giubileo delle tesi – affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg il 31 ottobre 1517 – con cui iniziò
la Riforma protestante, la figlia del pastore – la cancelliera della Germania unita Angela Merkel – e il nipote di nonna Rosa – papa Francesco – si sarebbero incontrati come accade oggi per parlare di politica e di pace in un mondo che sembra avere reso la fede di Lutero non più un punto di divisione, ma un punto di contatto. Opera dello Spirito che ha svelenito la violenza confessionale? Prova della banalità di una società percorsa da un devastante analfabetismo religioso? Per capirlo bisogna ritornare al Lutero della storia. Una delle cose che farà la European Academy of Religion: una piattaforma di ricerca fra Europa, Mediterraneo Medio Oriente e Russia che si riunisce a Bologna da domani al 22 giugno per la “conferenza zero”. Ci saranno 500 istituzioni aderenti, 1000 studiosi di 46 Paesi, 140 panel, 600 papers, 15 lezioni: e fra queste l’intervento di Heinz Schilling, il grande storico tedesco, autore di una monumentale biografia di Lutero (uscita in Italia da Claudiana, a cura di Roberto Tresoldi), in cui ha riversato decenni di studi.
«Lo storico deve prendere decisamente posizione e resistere alle tentazioni e alle pretese della politica e soprattutto delle Chiese, che dichiarano: “Non vogliamo avere nulla a che fare con la storia” – dice Schilling –. Il dovere dello storico è mostrare cosa Lutero e tutti gli altri protagonisti del tempo fecero in un mondo estraneo, che non è il nostro. E chiedersi quali sono quegli elementi che hanno influenzato la vita degli europei nel corso degli ultimi 500 anni, non solo dalla prospettiva della Riforma protestante, ma anche da quella delle altre Chiese, soprattutto della cattolica».
Il “suo” Lutero viene liberato dalla caricatura del monaco modernizzatore lanciato contro un papato medievale.
«La campagna per le indulgenze, a mio parere, fu uno strumento moderno nelle mani del papato per raccogliere denaro per un fine importantissimo come la costruzione della più grande Chiesa della cristianità. Il Papa fu il primo tra gli uomini di Stato e i principi dell’età moderna a sviluppare qualcosa come uno Stato sovrano. Addirittura la politica militare della Chiesa – si pensi a quella di papa Giulio II – era la migliore del tempo. Insomma, il papato non era – come hanno affermato i protestanti guardando Roma con gli occhi di Lutero – ai margini del processo di modernizzazione. Era all’avanguardia come la Spagna. Tutto questo, però, per Lutero non contava».
Cosa contava per Lutero?
«Il suo interesse era profondamente religioso: per lui Roma tradiva la fede proprio perché si stava incamminando verso la modernità. Lutero non era interessato agli sviluppi della sua epoca. Era alla ricerca di un Dio misericordioso. La sua domanda non poteva essere nel cuore del papato e della curia di allora, che lo affrontarono con la bolla di scomunica. Lutero si trovò davanti a un dilemma. Si domandò: “Torno alla sicurezza della vita monastica, sapendo di raggiungere la salvezza eterna, oppure affronto il Papa e mostro ai miei contemporanei che la strada della Chiesa romana porta alla rovina, rischiando così la mia vita?”. Alla fine decise di affrontare Roma e il Papa in persona, insultandolo e chiamandolo Anticristo».
Perché quella scelta oggi può ancora risultare interessante?
«Quello che stupisce le persone, almeno in Germania, è scoprire che le cose che oggi ci preoccupano sono già accadute 500 anni fa, quando gli uomini facevano esperienza di un’insicurezza religiosa e intellettuale, quando si svilupparono dei conflitti tra potenze mondiali di allora come gli Ottomani e gli Asburgo. E quando si scatenarono guerre in territori dove si combatte anche oggi come la Siria e l’Iraq, dove furono prese delle decisioni che cambiarono il corso della storia del califfato, che passò dalla predominanza araba a quella ottomana. Grazie a Lutero e alla Riforma, ma anche a causa dell’incertezza di oggi, è diventato chiaro come sia importante studiare e prendere in considerazione un ampio periodo storico per comprendere gli sviluppi del presente. In Germania si era finito per non insegnare più la storia precedente al XX secolo: è un errore pericoloso».
Cosa dovrebbero fare le Chiese?
«Dobbiamo stare attenti a non perdere interesse per le differenze storiche e teologiche. Non ci si può limitare a dire: “In fondo siamo tutti cristiani e prima o poi torneremo uniti”. Questo punto di vista è pericoloso perché rischia di far perdere la sostanza delle singole culture confessionali che alla fine non riconoscono più il nocciolo della loro fede. Certo, non ci si può non rallegrare – e questo vale naturalmente anche per papa Francesco – che si ascolti e accetti l’altro in amicizia».
A cosa dovrebbe portare allora questo giubileo della Riforma protestante?
«Dovrebbe spingere a rafforzare l’amicizia e l’accettazione reciproca da un lato. E dall’altro provocare anche l’elaborazione in prospettiva storica di quello che è stato il nostro sviluppo teologico. Dobbiamo essere finalmente consapevoli di quanto si sia diversificata la cultura religiosa europea, nella consapevolezza che siamo tutti parte di una famiglia che segue riti differenti senza combattersi l’un l’altro».
Già senza combattersi.
il manifesto 17.6.17
Una moschea dove le donne possono predicare
di Sebastiano Canetta
BERLINO L’integrazione con le donne “svelate” nella prima moschea «liberale» di Berlino, e l’apartheid della più grande associazione islamica della Germania che a Colonia si smarca dalla manifestazione contro il terrorismo. Due mezzelune diametralmente opposte, distanti poche centinaia di chilometri quanto teologicamente inconciliabili. Due parti comunque dell’Islam che – secondo la cancelliera Angela Merkel – «appartiene alla Germania» e che proprio secondo le regole del federalismo, comincia a governarsi da sé.
Così, sospesi fra rivoluzione e restaurazione, diritti civili e doveri religiosi, cittadinanza attiva e sudditanza passiva i musulmani tedeschi cominciano a ripensare al loro ruolo nella Bundesrepublik. Indicando, nel bene e nel male, quale sarà il futuro con cui fare i conti. Ieri a Berlino nel quartiere di Moabit è stata inaugurata la prima moschea «paritaria» della Germania. Dedicata al filosofo medievale andaluso Ibn-Rushd (Averroè) e al padre della letteratura tedesca Wolfgang Goethe, messi uno accanto all’altro non solo sulla targhetta di ottone.
Da oggi tra le mura del centro di preghiera le donne possono tenere prediche esattamente come gli imam maschi e il velo non è obbligatorio. Una rivoluzione copernicana, per di più a pochi metri dall’altro centro religioso del quartiere, considerato tra i centri di appoggio al terrorista del mercatino di Natale di Charlottenburg Anis Amri.
Tutto merito della forza di volontà di Seyran Ates, 54 anni, avvocata e attivista per i diritti delle donne di origine turca, che aveva denunciato pubblicamente la «discriminazione sessista» nei centri di preghiera. «Abbiamo bisogno di una lettura storico-critica del Corano: una scrittura del settimo secolo non si può certo prendere alla lettera. Noi siamo per una lettura del libro sacro – che è molto concentrato sulla misericordia e l’amore di dio – prima di tutto per la pace. Così si cambia l’immagine pubblica dell’Islam».
Davvero un altro pianeta rispetto a Colonia, capitale tedesca dell’Islam «integrale» dove invece si consuma la guerra (non più sotterranea) tra il Consiglio centrale dei musulmani e la potentissima associazione Ditib, prima organizzazione islamica in Germania e mecca di chi segue il pensiero ortodosso. I suoi imam hanno deciso di non partecipare alla protesta contro il terrorismo e Daesh fissata per il fine-settimana a Colonia in nome della «non-ingerenza». L’esatto contrario di quanto prova a spiegare Lamya Kaddor, organizzatore della manifestazione, convinto che «bisogna prendere posizione, perché nelle nostre città sta succedendo qualcosa». Parole chiare, che piacciono anche alla cancelliera Merkel: attraverso il portavoce del governo Steffen Seibert ha fatto sapere di «apprezzare molto la manifestazione contro la violenza e il terrore». L’esclusione dell’associazione Ditib secondo lei «è semplicemente un peccato».
il manifesto 17.6.17
The Communist Manifesto Illustrated
Graphic Novel. Intervista a George S. Rigakos ideatore della graphic novel ispirata al "Manifesto del partito comunista" di Marx e Engels
di Fabrizio Rostelli
NEW YORK Nel 2010 la casa editrice canadese Red Quill Books ha pubblicato Historical Materialism il primo capitolo di The Communist Manifesto illustrated; un graphic novel basato sul Manifesto del Partito Comunista scritto da Marx ed Engels nel 1848. Dopo l’uscita di The Bourgeoisie e The Proletariat, nel 2015 è stato pubblicato il quarto e ultimo volume The Communists. L’opera è già stata tradotta in spagnolo, francese e tedesco.
Abbiamo intervistato a New York George S. Rigakos (Professor of the Political Economy of Policing presso la Carleton University di Ottawa), ideatore del fumetto e fondatore della casa editrice.
Chi ha avuto l’idea di re-immaginare il Manifesto del Partito Comunista come un fumetto?
È venuta a me mentre stavo provando a spiegare il concetto di lotta di classe ad un amico. Ho pensato che alcune tematiche del Manifesto si sarebbero prestate facilmente ad un formato a fumetti. C’è un gruppo perfido e una storia di fondo in cui i due avversari – la borghesia e il proletariato – sono venuti alla luce. C’è sfruttamento, violenza e poi, naturalmente, liberazione ed i campioni di un mondo migliore: i comunisti. Credo che il pamphlet fosse maturo per un adattamento a fumetti. Naturalmente l’obiettivo era comunicare agevolmente le idee di base per fare in modo che gli studenti si interessassero al lavoro di Marx.
È il primo esperimento di questo tipo?
No. Esiste una tradizione di libri a fumetti che derivano dall’adattamento di opere o biografie radical. Ad esempio oggi ci sono diverse biografie a fumetti su Che Guevara ed un adattamento a fumetti del Capitale in spagnolo. Red Quill ha pubblicato una versione manga del Capitale.
Perché un fumetto? A chi è destinato questo lavoro?
Soprattutto agli studenti ma anche a tutti quelli che semplicemente si divertono a comunicare idee con i libri a fumetti. La maggior parte delle persone che compra la graphic novel dice “fico!” e poi ti rendi conto che stanno leggendo Marx. Non abbiamo alterato il testo, lo abbiamo semplicemente rivisto e adattato. Nella versione completa del fumetto abbiamo incluso anche il testo originale del Manifesto.
Quante copie sono state vendute fino a questo momento?
Sicuramente è il nostro best seller e riceviamo ordini da ogni parte del mondo. A volte compagni e organizzazioni di lavoratori che vogliono fare un bel regalo ai loro amici o ai propri membri ci chiamano nel periodo natalizio. Recentemente ho scoperto che gli attivisti del movimento Black Lives Matter a Brooklyn stanno usando la nostra graphic novel per avvicinare le persone all’opera di Marx. Sono davvero contento per questo.
Immagino che alla base di questo lavoro ci sia anche una necessità politica, quale? Su quali aspetti hai voluto mettere l’accento?
La necessità è rappresentata dalla natura dell’attuale crisi e dalla mancanza concreta di una visione alternativa per il futuro. L’applicazione bolscevica di Marx è stata ampiamente screditata per buone ragioni ma poi abbiamo completamente abbandonato il dibattito per un cambiamento programmatico. Oggi c’è un ritorno di interesse nei confronti di politiche alternative e Marx deve essere parte della discussione. Dal punto di vista tematico, la rivoluzione gioca un ruolo fondamentale nel linguaggio figurato del Manifesto illustrato, così come nell’originale.
È stato difficile trasferire l’essenza dell’opera di Marx in un fumetto?
Creativamente non credo sia stato particolarmente difficile per me. Come ho detto il libro si presta facilmente a questo adattamento. È stato davvero divertente e la tensione era soprattutto politica. Cosa ho enfatizzato? Come presenti le idee e cosa lasci fuori dall’appendice? Ci sono molte persone che avrebbero fatto delle scelte differenti.
Molte situazioni sono state attualizzate. Che metodo di lavoro hai seguito per scrivere la sceneggiatura? Qual è stato il passaggio nel testo più difficile da trasformare in fumetto?
Ho portato alla luce le parti di testo che pensavo fossero emblematiche per trasmettere il messaggio e che si prestavano ad una rappresentazione a fumetti. Poi ho organizzato il pensiero politico costruendo e ordinando una narrativa senza riscrivere il testo. Infine ho diviso il lavoro in quattro parti: materialismo storico, borghesia, proletariato e comunisti. È stato comunque difficile comunicare attraverso una singola immagine lo sfruttamento di centinaia di capitalisti e pre-capitalisti che ha condotto all’emancipazione comunista. Victor Serra, l’illustratore, ha seguito passo per passo il processo e sono orgoglioso del risultato finale.
Nella prima scena Marx si lamenta davanti alla sua tomba leggendo dei presunti crimini commessi in nome del comunismo. Non si salva nulla delle esperienze socialiste? Sto pensando ad esempio a Fidel Castro.
Sì è pensieroso e non offre risposte al vecchio rivoluzionario che sta perdendo la fede e viene a visitarlo. Questo perché il sentiero rivoluzionario è quello che gli serve per riconciliarsi.
Credo ci sia molto da imparare dai fallimenti, o come preferisci chiamare quello che è rimasto sotto la parvenza del così chiamato comunismo. Non si può ignorare l’oppressione dello Stato ma sono d’accordo sul fatto che questi fallimenti ci devono insegnare a ragionare su nuove applicazioni.
Cosa accadrà dopo Castro? Come avverrà la transizione da un sistema che ha meriti importanti ma che tuttavia ha messo la museruola al suo popolo? Senza coinvolgere Marx, credo che si permetterà agli avvoltoi aziendali e ai sicari dell’economia di calare su Cuba ancora una volta per farla a pezzi e impoverire il popolo. Non c’è risposta al di fuori di Marx.
Cosa puoi raccontarci del disegnatore Red Victor / Victor Serra? Perché hai scelto lui?
È fantastico. Abbiamo avuto un’ottima collaborazione, inizialmente lavorava per un’agenzia argentina. Mi piace il suo stile e la sua attenzione per i dettagli. Quando gli ho inviato le idee per le immagini, a volte le ha rifiutate perché mancavano di autenticità. “Quel modello di automobile è stato diffuso in Russia solo 10 anni dopo”, mi spiegava cose di questo tipo che nessun altro avrebbe potuto notare. Questo mi ha dato grande sicurezza; lavorando insieme sono diventato meno prescrittivo, ero felice di lasciare a lui le scelte creative. Victor era orgoglioso del suo lavoro e lo ha dimostrato.
Red Quill Book è un collettivo editoriale come funziona? A cosa state lavorando in questo momento?
Siamo sempre alla ricerca di nuove proposte adatte a noi. Continuiamo a pubblicare lavori accademici critici e fumetti radicali. Questo è quello per cui ci conoscono e non cambieremo. Non pubblichiamo tonnellate libri, non vogliamo questo. Siamo selettivi in modo tale da poter seguire il libro attraverso l’intero processo. Le nuove piattaforme digitali hanno permesso alle persone creative di concentrarsi di più sul processo e sulla collaborazione e la nostra piccola casa editrice non esisterebbe senza tutto questo. Riesco a vederci andare più lontano per ri-animare testi radical dimenticati e a lungo ignorati che potrebbero vedere una nuova vita come libri a fumetti. Questa continua ad essere la nostra missione.