il manifesto 15.6.17
Striscia il movimento
Dieci anni di
controllo di Hamas su Gaza, dopo lo scontro del 2007 tra islamisti e
Fatah. Oggi i palestinesi si sentono «prigionieri, senza lavoro e senza
alcuna prospettiva».
di Michele Giorgio
«La
sicurezza delle frontiere meridionali con l’Egitto è una priorità e il
nostro governo farà la sua parte per garantirla», ripeteva due giorni fa
ai giornalisti il vice ministro dell’interno di Hamas, Tawfiq Abu Naim,
durante un sopralluogo al terminal di Rafah, sul confine tra la
Striscia di Gaza e il Sinai.
Reparti speciali di Hamas saranno
dispiegati al più presto lungo i 12 km tra Gaza e l’Egitto con il
compito di impedire ai miliziani dell’Isis nel Sinai possano trovare
rifugio nella Striscia.
HAMAS È PRONTO a «fare la sua parte» ha
spiegato Abu Naim, «con il massimo dell’impegno». Non è la solita
dichiarazione di buona volontà rivolta dal movimento islamico
palestinese al regime di Abdel Fattah al Sisi con il quale dal luglio
2013 – dal golpe al Cairo che ha rimosso dal potere i Fratelli musulmani
– tenta invano di migliorare le relazioni.
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In attesa al confine Gaza-Egitto (LaPresse)
Ora
è diverso. Hamas ha bisogno dell’Egitto che pure contribuisce al blocco
di Gaza, attuato da Israele da più di dieci anni, tenendo chiuso il
terminal di Rafah. Al Sisi, riferiva due giorni fa al Sharq al Awsat, ha
dato un aut-aut ad Hamas: Gaza riceverà la quota egiziana di
elettricità, anzi il Cairo è pronto ad aumentarla, solo se il governo
islamista consegnerà 17 uomini dell’Isis ricercati che si
nasconderebbero nella Striscia.
IL CAIRO ASSICURA A GAZA appena 25
megawatt, il 6,25% del fabbisogno, e le linee elettriche egiziane nel
Sinai sono spesso fuori uso a causa di guasti. Hamas tuttavia non è
nelle condizioni di dire no al «nemico» di cui non può fare a meno se
vuole sopperire almeno in parte al buco energetico che si è creato a
Gaza con l’inizio della politica del pugno di ferro attuata negli ultimi
mesi da Abu Mazen.
Il presidente palestinese, nel tentativo di
costringere Hamas a rinunciare al controllo di Gaza, ha prima ridotto
del 30% gli stipendi di 70mila impiegati dell’Anp, poi ha tagliato il
finanziamento per il gasolio della centrale elettrica, quindi ha
comunicato che pagherà soltanto il 60% della quota di elettricità che
Israele fornisce a Gaza dove la corrente è disponibile appena 3-4 ore al
giorno e, di conseguenza, ha chiesto a Tel Aviv di tagliare il 40%
dell’elettricità per Gaza.
Misure che hanno aggravato la già
difficile condizione di 2 milioni di civili palestinesi che vivono nella
Striscia. Ma è proprio su questo che punta, secondo alcuni, Abu Mazen,
convinto che la popolazione non sopporterà questo ulteriore
peggioramento della situazione e si ribellerà contro Hamas.
A GAZA
NESSUNO CREDE che questo piano, vero o presunto, abbia possibilità di
successo. La pressione esercitata da Abu Mazen rende dura la vita ai
civili e sfiora soltanto Hamas, organizzato per resistere a lunghi
periodi di austerità.
Allo stesso tempo non ci sono dubbi che
questo sia il momento più difficile che gli islamisti affrontano da
quando hanno preso il controllo di Gaza. Proprio in questi giorni di
giugno del 2007, lo scontro tra il movimento islamico e Fatah, il
partito guidato da Abu Mazen, raggiungeva il punto di rottura, con
scontri armati ovunque nelle strade Gaza che fecero centinaia di morti e
feriti e si conclusero con la fuga (o la cacciata) dalla Striscia delle
forze di sicurezza legate dell’Anp.
PER GLI ISLAMISTI QUELL’ATTO
di forza nel 2007 fu necessario per prevenire progetti occidentali,
israeliani, e anche dell’Anp, volti a ribaltare il risultato delle
elezioni palestinesi dell’anno prima vinte da Hamas con largo margine.
Secondo Abu Mazen invece fu un «colpo di stato» al quale non è stato
possibile rimediare in dieci anni di riconciliazioni tra Fatah e Hamas
annunciate e mai realizzate. Fino al braccio di ferro di questi mesi che
si inserisce in un clima regionale pessimo per gli islamisti
palestinesi.
IL RICCO QATAR, generoso sponsor assieme alla Turchia
di Hamas e del movimento dei Fratelli musulmani, fa i conti con
l’offensiva diplomatica che gli ha lanciato contro la rivale Arabia
saudita, con la benedizione di Donald Trump, in nome di una presunta
«lotta al terrorismo». Doha tiene botta, non si fa intimidire e
ribadisce la sua posizione: Hamas non è un’organizzazione terroristica
come affermano Riyadh, Israele, gli Usa e il resto dei Paesi
occidentali.
Tuttavia Yahya Sinwar, leader da qualche mese del
movimento islamico palestinese, sa che il sostegno del Qatar ad Hamas
rischia di essere sacrificato sull’altare della riconciliazione tra i
petromonarchi del Golfo.
«È un quadro difficile nel quale occorre
agire con saggezza, evitando passi falsi», esorta Ahmed Yusef uno degli
ideologi della svolta “moderata” che qualche settimana fa ha visto l’ex
capo di Hamas, Khaled Mashaal, annunciare proprio a Doha il nuovo
Statuto dell’organizzazione che, senza prevedere il riconoscimento
ufficiale di Israele, accetta la soluzione dei Due Stati. «Hamas deve
fare i conti con una realtà regionale complessa e molto mutata negli
ultimi anni» aggiunge Yousef «il nostro nuovo Statuto ora offre gli
strumenti per poter avviare il lavoro diplomatico e politico necessario
per raggiungere i risultati che vogliamo ottenere».
LA LINEA DELLA
MODERAZIONE sulla quale spinge Yousef però non ha ancora raccolto alcun
frutto e la scelta di Hamas di proclamarsi un movimento islamico
«indipendente» dai Fratelli musulmani lascia freddi i suoi avversari.
Allo stesso tempo Hamas fa i conti anche con il fallimento della linea
più radicale. Gli ultimi dieci anni sono stati segnati da tre devastanti
offensive militari israeliane contro Gaza – che hanno provocato molti
morti, in buona parte civili – e hanno visto Hamas dotarsi di armi
sofisticate e di razzi in grado di raggiungere ogni punto di Israele e
mettere in piedi unità combattenti ben addestrate.
Ma le prove di
forza che nella testa dei leader politici e militari di Hamas dovevano
cambiare il «quadro strategico» di Gaza e «liberarla una volta e per
tutte dall’assedio» israeliano, non hanno modificato in alcun modo la
condizione della Striscia che era e resta la prigione più grande del
mondo.
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Controllo documenti al valico di Rafah (LaPresse)
Una
constatazione che fanno prima di tutto gli abitanti di Gaza. Tra di
essi cresce il malcontento verso Hamas che però non si traduce in un
aumento del sostegno all’Anp di Abu Mazen vista come un altro grande
«disastro» e non come la soluzione dei problemi. Per Sami A.O., che ci
ha chiesto di non rivelare la sua piena identità, «la presa del potere a
Gaza da parte di Hamas aveva alimentato speranze di cambiamento,
(Hamas) prometteva sviluppo e l’appoggio del mondo arabo a Gaza. Invece
dieci anni dopo siamo sempre più prigionieri, senza lavoro, senza
elettricità, senza acqua potabile sufficiente e senza alcuna
prospettiva. E non possiamo più parlare liberamente perché una frase
contro il governo ti può costare l’arresto».
PER SAMI E MOLTI
PALESTINESI la condizione attuale di Gaza è il risultato anche delle
politiche attuate da Hamas in questo decennio e non solo del blocco
israeliano. Gli islamisti smentiscono di avere una linea autoritaria e
di negare la libertà di espressione. Sostengono che i provvedimenti
restrittivi servono a garantire la sicurezza di Gaza. Ma quando nei mesi
scorsi dal campo profughi di Jabaliya sono partite manifestazioni con
migliaia di persone contro la mancanza dell’elettricità, Hamas ha
reagito schierando centinaia di poliziotti e arrestando e pestando
decine di dimostranti.
Il movimento islamico afferma di aver fatto
il possibile per difendere Gaza e di aver governato al meglio delle
possibilità tra attacchi israeliani, pressioni dell’Anp e l’isolamento
al quale ora partecipano anche i Paesi arabi.
Al contrario per il
giornalista Aziz Kahlout «Hamas ha messo la testa sotto la sabbia. Ha
creduto che la sua determinazione avrebbe respinto ogni avversità. Non
ha capito che dopo dieci anni in queste condizioni la gente di Gaza non
può più andare avanti. E questo lo paga in termini di consenso
popolare». Hamas, aggiunge Kahlout, «crede ancora nel miracolo,
nell’avvento in Egitto di un nuovo presidente (dei Fratelli musulmani)
come Mohammed Morsi che lo salvi dall’oblio. Forse solo ora comincia a
capire la realtà del Medio oriente». Realtà che lo spingerà a cercare un
compromesso al ribasso, alle condizioni di Abu Mazen? Ahmed Yousef
sembra escluderlo. «La responsabilità di ciò che è avvenuto nel 2007 è
di entrambe le parti, 50% e 50%», ci dice, «Fatah e Hamas devono mettere
fine allo scambio di accuse e lavorare nell’interesse esclusivo del
nostro popolo». Ma islamisti e Anp cercano solo di eliminarsi a vicenda.