giovedì 15 giugno 2017

Il Fatto 15.6.17
Anita Pallenberg, la donna che volle sedurre il diavolo
Morta a 73 l’anima femminile dei Rolling Stones: fu amante di Brian Jones dal 1965 al 1967 e compagna di Keith Richards, da cui ebbe tre figli, fino al 1980
di Federico Pontiggia


Se n’è andata senza mollare il colpo. E senza mandarle a dire: “Se perfino una giovane Posh Spice (l’ex Spice Girl Victoria Beckham, ndr) può scrivere la sua autobiografia, allora io non voglio scrivere la mia!”. Gliele avrebbero pagate a peso d’oro le memorie, eppure, lei si rifiutò a più riprese, subodorando come “volessero sapere solo degli Stones e di cose scabrose su Mick Jagger, e io no, non sono interessata”.
Brian Jones, Keith Richards e anche – senza esserci andata a letto, giurava – Jagger, Anita Pallenberg non li aveva semplicemente visti o conosciuti, ma vissuti: che altro aggiungere su carta? Con loro percorse l’intera filiera sesso droga rock n’ roll, innescata nel 1965 nel backstage degli Stones a Monaco dove la ventunenne Anita si presenta con un po’ di hashish e ne esce dalla camera d’hotel di Jones. Senza farsi illusioni: “È un’esistenza così solitaria, vivere con un rocker. Non importa quanto ti ami, amerà sempre di più la sua musica”. Poi, certo, si poteva discernere tra “il migliore di tutti, Keith Richards”, “un autentico blues man” quale Brian Jones e il deteriore Mick Jagger: “Ero troppo indipendente per lui. Non ero adatta. Lui è uno sciovinista”.
Si fa presto a dire groupie, Anita Pallenberg è stata molto di più, a un certo punto tra Sessanta e Settanta è stata perfino tutto: It Girl, musa, icona e “glamour negativo”, per dirla con la sua amica Marianne Faithfull. Bellissima e spregiudicata, irrefrenabile e irredimibile. Unica.
A darne l’annuncio su Instagram l’amica Stella Schnabel, è morta a settantatré anni laddove credeva non gliene spettassero più di quaranta. Va detto, ce l’ha messa tutta per disattendere il Robbie Williams di I hope I’m old before I die a favore di rock e dissoluzione: droghe leggere, lisergiche e pesanti, con una spiccata predilezione per l’eroina; alcoolismo a più riprese; acciacchi connessi e non, dalle anche ballerine all’epatite C. Nessun rimorso, nessun rimpianto e alcuna scorciatoia: “Quando vedo un Campari o una sambuca… mi piacciono le cose particolari, non solo vini o liquori. Ma non devo più bere”, confessava al Guardian quasi dieci anni fa, ripercorrendo una biografia Larger than life.
Non s’è fatta mancare nulla, i fidanzati illustri (il primo fu Mario Schifano) e i miliardari complici (John Paul Getty), l’avversione per la moda e gli studi intrapresi per diventare stilista, gli inizi da modella e gli ultimi anni a dipingere quadri botanici, passando per l’uno-due che ne cambia la strada: le botte di Brian Jones e il soccorso di Keith Richards, che nel ’67 la mette in macchina a Marrakech e ci fa tre figli, di cui due, Marlon e Angela, le sopravvivono.
Keith è stato il suo Rolling Stone, ma lei non è stata solo sua, e beninteso si parla di musica: il coro di Sympathy for the Devil è suo, Angie e You Got the Silver dicono di lei. Con il chitarrista è rimasta fino al 1980, passando per rehab e ricadute, finché un diciassettenne non si fa saltare le cervella nel suo letto a New York e segna il game over della relazione. Ma Anita quel tragico campanello d’allarme nemmeno lo sente, non può: “Non provai nulla. Questo è uno dei miracoli della droga e dell’alcool”.
Nata il 25 gennaio del 1944 a Roma, padre italiano agente di viaggi e madre tedesca segretaria, è passata dalla Dolce Vita alla Factory di Andy Warhol, dagli Stones al mito, senza mai farsi anteporre da una professione, una definizione, forse pure un destino.
Su tutti, provò a contenerla il cinema: Vivi ma non uccidere di Volker Schlondorff nel 1967 e la Regina Nera di Barbarella per Roger Vadim l’anno seguente; Dillinger è morto di Marco Ferreri (1969) e il fondamentale Sadismo (Performance) di Donald Cammell e Nicolas Roeg, al fianco di Mick Jagger. E, ancora, Philippe Garrel (Le berceau de cristal, 1976) e Harmony Korine (Mister Lonely, 2007) fino ad Abel Ferrara, che la dirige in Go Go Tales, Napoli, Napoli, Napoli e 4:44 L’ultimo giorno sulla Terra. L’ultima prova di Anita Pallenberg.