venerdì 16 giugno 2017

SULLA STAMPA DI VENERDI 16 GIUGNO

Corriere 16.6.17
In piazza contro i voucher, la sinistra si conta
Domani la manifestazione Cgil. Camusso: dispiaciuti per chi non ci sarà
di Lorenzo Salvia


ROMA Piazza san Giovanni, prove generali per la sinistra che verrà. Sabato a Roma la Cgil torna dopo tre anni con una manifestazione nel luogo simbolo per quello che un tempo era il partito di riferimento. Il tema è quello dei voucher, i buoni a ore cancellati dal governo per evitare il referendum. E poi reintrodotti, anche se con regole diverse, con la manovrina che proprio ieri è diventata legge. Ma, al di là del merito e dei timori sulla sicurezza, con una lunga serie di misure a partire dal divieto di portare contenitori di vetro, il doppio corteo di domani è il primo test per l’ennesima riorganizzazione in corso a sinistra del Pd, e nella sinistra Pd.
«La piazza è aperta, siamo contenti per chi ci sarà e dispiaciuti per chi non ci sarà», dice il segretario Susanna Camusso. Secondo un sondaggio commissionato dal sindacato, il 67% degli italiani sostiene che la Cgil ha ragione a protestare. Tra gli elettori dei partiti, gli unici che non appoggiano in maggioranza la manifestazione sono quelli del Pd, dove i favorevoli si fermano al 42%. Chi ci sarà in piazza, allora? Mdp, il partito nato dalla scissione del Pd, sarà al gran completo: Pierluigi Bersani, Massimo D’Alema, Roberto Speranza e tutti gli altri. Così Si, Sinistra Italiana, con Nicola Fratoianni, Stefano Fassina, forse Nichi Vendola. Poi arriva il momento dei ragionamenti più complessi.
Campo progressista, il movimento di Giuliano Pisapia, ha aderito alla manifestazione e accusa il governo di «scorrettezza». Ma non è chiaro se Pisapia ci sarà. La linea del dialogo con il Pd di Matteo Renzi è aperta mentre la piazza si annuncia decisamente anti renziana. Forse anche per questo l’assenza è l’ipotesi più probabile. E forse a lui si riferisce Camusso quando si dice dispiaciuta per chi non ci sarà. Niente piazza nemmeno per i cosiddetti orlandiani, la sinistra Pd. Contrari al ritorno dei voucher, hanno provato a mediare, ma alla fine la manovrina l’hanno votata. Andrea Orlando sarà negli Usa, Cesare Damiano a Bologna. Paura di contestazioni? Forse. In ogni caso il sostegno c’è ma a distanza: «Reintrodurre i voucher - dice Damiano - è un errore perché non sono stati consultati i sindacati e perché contraddice il Jobs act, che aveva ridotto i contratti precari». Alla fine anche per la nuova sinistra vale il vecchio Nanni Moretti: «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo proprio?».

il manifesto 16.6.17
Oggi è sciopero nazionale dei trasporti e della logistica

Tra i motivi di una mobilitazione inedita anche la battaglia contro i «nuovi voucher»

Oggi il settore della logistica e quello dei trasporti pubblici locali, ferroviari e aerei saranno protagonisti di un inedito sciopero nazionale congiunto. Adl Cobas e Si Cobas, insieme alla Cub Trasporti, allo Slai Cobas e all’Usi hanno dichiarato un’astensione dal lavoro di 24 ore contro il governo che ha ripristinato i voucher cambiandogli il nome, contro lo smantellamento di Alitalia e per «un vero rilancio del servizio pubblico».
Per quanto riguarda la logistica, i sindacati di base chiedono l’introduzione di un contratto nazionale «che corrisponda alle esigenze dei lavoratori». Fitta è l’agenda delle proteste indetta da Adl Cobas a Padova. La giornata inizerà alle 4 del mattino davanti al magazzino«acqua e sapone», proseguirà al magazzino Alì dove si contesterà l’accordo con i sindacati Cgil, Cisl e Uil sulla «clausola sociale» e sulla regolamentazione del diritto di sciopero. Previsto in mattina un corteo fino alla prefettura. Lo sciopero dei trasporti ha allarmato il governo.
Ieri il ministro dei trasporti Graziano Delrio ha detto che sarà «un venerdì nero». Per il ministro dello sviluppo Carlo Calenda l’astensione in Alitalia «è fatta contro le low cost ma danneggerà soprattutto Alitalia. Mi sembra proprio il tipo di attività che sarebbe meglio evitare, fatta salva la libertà di scioperare quando uno vuole». «Questi scioperi possono cagionare l’interruzione dei servizi di trasporto con disagi ancor più gravosi per i cittadini, quando la giornata di sciopero coincide con la fine della settimana lavorativa» sostiene Giuseppe Santoro Passarelli, presidente dell’Autorità di garanzia per gli scioperi.
Per Cub trasporti e AirCrewCommittee un altro piano per Alitalia è possibile. «Un piano che vada oltre la svendita – riporta la nota – hanno aperto la Cigs per tagliare da subito da poco meno di 1400 posti (altri tra un po’ di tempo saranno lasciati a casa); pretendono di rinnovare il contratto nazionale per imporre tagli e peggioramenti normativi a terra e volo, così da estendere all’intero comparto un ulteriore giro di vite; assumono 800 “nuovi” precari senza stabilizzare gli altri dopo “60 mesi»; non intervengono per cambiare un management fallimentare e pericoloso. Nel frattempo le 32 proposte di acquisto di Alitalia arrivate sul tavolo dei Commissari Straordinari non assicurano l’integrità della ex-Compagnia di Bandiera». Per Cub trasporti e AirCrewCommittee l’unica strada continua a essere la nazionalizzazione e l’intervento pubblico. «È assurdo e inaccettabile – sostengono – che nel ricco comparto aereo-aeroportuale-indotto si tagliano i salari e si colpiscono i lavoratori mentre si prevedono decine di miliardi di investimenti negli aeroporti italiani nei prossimi 4 anni».
Lo sciopero riguarderà il trasporto ferroviario dalle 21 del 15 giugno alle 21 del 16 di Trenitalia, Ntv, Trenord e delle altre aziende ferroviarie. Trenitalia ha fatto sapere che le «Frecce» circoleranno regolarmente. Per i treni regionali saranno garantiti i servizi essenziali dalle ore 6.00 alle ore 9.00 e dalle ore 18.00 alle ore 21.00.

il manifesto 16.6.17
Landini: «Nuovi voucher peggio dei vecchi, con la Cgil chi dice No»
Intervista. Il segretario Fiom: in piazza sabato per la Carta universale dei diritti dei lavoratori
intervista di Nina Valoti


Maurizio Landini, a meno di 48 ore dalla manifestazione della Cgil a piazza San Giovanni di sabato mattina contro «lo schiaffo alla democrazia» sui referendum, il Senato ha approvato in via definitiva la manovrina e con essa i nuovi voucher.
È una ragione in più per essere in piazza. E per confermare che il governo non ha l’appoggio dei cittadini. È una nuova pagina di un comportamento arrogante, lo stesso tenuto ai tempi del Jobs act: in entrambi i casi il governo ha fatto approvare leggi sul lavoro senza averle nemmeno discusse con i sindacati, riducendo ancora una volta i diritti delle persone che per vivere hanno bisogno di lavorare. I nuovi voucher paradossalmente sono anche peggio di quelli di prima: li estendono alle imprese fino a 5 dipendenti e danno la possibilità di cancellarli entro tre giorni se non ci sono controlli.
Il governo sostiene di aver creato un nuovo strumento, diverso dai voucher e dunque di aver rispettato il referendum promosso dalla Cgil e cancellato dal decreto di aprile. Il ministro Finocchiaro e il Pd, che presentò a sorpresa l’emendamento il 27 maggio, hanno dichiarato che la nuova normativa instaura un vero e proprio contratto.
È una sciocchezza, se uno lo dice perché non conosce cos’è un contratto di lavoro. È una nuova presa in giro se la dichiarazione viene da chi nel Jobs act ha chiamato «contratto a tutele crescenti» una cosa che ha tolto l’articolo 18 precarizzando semplicemente il contratto a tempo indeterminato per i nuovi assunti. I nuovi voucher sono l’ennesima forma di precarizzazione che non regola assolutamente il lavoro accessorio ma torna a dare alle imprese la possibilità di sfruttare i lavoratori senza diritti e tutele. Insomma, è l’impresa che diventa occasionale: ha di nuovo l’occasione di non pagare ferie, malattia, maternità e quant’altro. In più continua a non tutelare questi lavoratori, molto spesso giovani, ai fini pensionistici, producendo un’altra ferita alla previdenza pubblica, già malandata.
Come Cgil avete già annunciato il ricorso alla Corte costituzionale per il mancato rispetto dei referendum. I tempi saranno lunghi: non rischiate di perdere quell’attenzione che avevate riconquistato con la mobilitazione nei luoghi di lavoro e i milioni di firme raccolte?
La nostra manifestazione non vuole solo denunciare quello che è successo sui voucher. Oltre alla protesta al centro vogliamo mettere le nostre proposte e quindi la Carta universale dei diritti dei lavoratori per riscrivere le leggi cancellate dai governi di centrosinistra, per chiedere nuove tutele e diritti per i lavoratori, in special modo giovani, per proporre una legge sulla rappresentanza e in ultimo per cambiare la riforma Monti-Fornero sulle pensioni considerando una follia essere diventati il Paese con l’età di pensionamento più avanzata e l’occupazione e i salari più bassi. Come Cgil chiediamo un cambio radicale delle politiche sul lavoro.
Il quadro politico è in grande mutamento ma a sinistra il discrimine è sempre quello: il giudizio sul Jobs act. Chi lo difende – Renzi e quasi tutto il Pd – dice di non potersi alleare con chi lo critica.
Gli sforzi propagandistici per difendere il Jobs act sono inutili. I dati sono sotto gli occhi di tutti: l’occupazione aumenta solo fra gli over 55 e lo fa grazie alla riforma delle pensioni Fornero che fa rimanere al lavoro fino a 67 anni e più. Per il resto i posti creati – specie per i giovani – sono precari e a part time involontario. Sarebbe utile riflettere su che cosa sia stato realmente il Jobs act per cambiarlo totalmente: incentivi a pioggia alle imprese, circa 20 miliardi di finanziamenti pubblici provenienti dalla fiscalità generale. Ciò significa che un trasferimento di ricchezza alle imprese ha prodotto solo ulteriore precarizzazione. Lo dicono anche le ultime statistiche: solo il 10-15 per cento di questi soldi sono stati spesi dalle imprese per innovazione di prodotti e processi. Nel frattempo gli investimenti pubblici sono crollati.
Alla vostra manifestazione hanno già annunciato la loro presenza parlamentari della minoranza Pd e altri che si richiamano a Campo progressista di Pisapia che hanno votato a favore della manovra e dei voucher e quelli di Mdp che sono usciti dall’aula. Come li accoglierete a piazza San Giovanni?
Tutti coloro, persone comuni o politici, che vengono a sostenere le nostre posizioni in piazza, sono i benvenuti. Allo stesso tempo penso che sia utile che ci sia maggior coerenza: quando si dice di No bisogna votare No. Lo dico perché c’è la necessità di far recuperare credibilità alla politica: in Italia come in Francia alle ultime elezioni è ancora calata l’affluenza. E io ci vedo dietro proprio la poca credibilità della politica. Quelli che per vivere devono lavorare sono ancora la maggioranza degli elettori ma non votano perché non si sentono rappresentati.
Appena un giorno dopo la vostra manifestazione a Roma Tomaso Montanari e Anna Falcone hanno lanciato un incontro al teatro Brancaccio per creare una «Sinistra Unita». Il primo luglio Giuliano Pisapia con Campo Progressista e Mpd si troveranno a piazza Santi Apostoli sotto slogan «Insieme» per far rivivere il centrosinistra stile Ulivo di Prodi. Lei parteciperà? Come li giudica?
A parte sabato mattina, da oggi a domenica sarò alla festa nazionale della Fiom a Firenze dove parleremo di lavoro e diritti. Credo che a livello politico il problema non siano le formule o gli assembramenti o i nomi dei possibili leader, ma i contenuti. Il tema che vedo è quello di rilanciare la partecipazione e per farlo servono contenuti concreti che indichino un significato preciso. Il punto non è come unire la sinistra, c’è un’urgenza più ampia: riunire il mondo del lavoro per cambiare le politiche andando al governo.
Per lei dunque mi pare di capire che l’urgenza è quella di recuperare chi non vota più. Ma come tenere assieme questo obiettivo con quello di andare al governo?
Per vincere le elezioni bisogna prendere più voti degli altri. Ma l’unico modo per farlo è dare rappresentanza a chi non ce l’ha o non ce l’ha più. E si tratta delle persone più deboli. Per farlo serve proporre politiche di cambiamento radicale a partire dal mondo del lavoro fino all’Europa, ad esempio cancellando pareggio di bilancio, Fiscal compact e austerità. Solo dando un nuovo senso alla politica si possono restituire le persone alla democrazia e a una rappresentanza diretta e non delegata a nessuno.

il manifesto 16.6.17
Quella sintonia tra Lega e 5 Stelle. Ma «l’incontro non c’è stato»
M5S. I vertici pentastellati smentiscono «Repubblica». Casaleggio: «Non ho visto Salvini. Calabresi dica la data e il luogo o lo querelo»
di Giuliano Santoro


Ci sono trattative in corso tra il Movimento 5 Stelle e la Lega, per un patto di governo? Fino a una settimana fa l’ipotesi, per quanto ardita, era oggettivamente sul tavolo. Se con la via italiana al modello elettorale tedesco il M5S fosse risultato il partito più votato, allora avrebbe chiesto l’incarico e cercato i voti in Parlamento. Da qui le possibili convergenze col partito di Matteo Salvini. Ora che pure la legge elettorale pare naufragata, le sintonie tra grillini e leghisti si intensificano.
Al momento il M5S tiene in secondo piano le posizioni antieuropeiste, ma il profilo sovranista trova nuova linfa nell’intensificarsi delle uscite sull’immigrazione: prima gli attacchi ai rom e la chiusura verso i richiedenti asilo, poi l’astensione sullo ius soli. Ieri Repubblica è uscita con uno scoop che condensa in un evento ben preciso sospetti, dicerie, voci: il leader della Lega e Davide Casaleggio si sarebbero incontrati, proprio quando pareva che la legge elettorale venisse approvata, per ragionare sui possibili esiti del voto e per sventare il rischio di un governo Forza Italia-Pd.
Nell’articolo a firma di Matteo Pucciarelli, che lavora nella redazione di Genova e nei mesi scorsi ha pubblicato un libro su Salvini, non si parla di un accordo, né di trattative precise, ma di un incontro. Circostanza smentita immediatamente dal M5S, da Davide Casaleggio e dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, che si è spinto a chiedere le dimissioni del direttore di Repubblica, Mario Calabresi. Quella che per i grillini è «una notizia falsa che è stata messa in prima pagina», per Calabresi è assolutamente attendibile. «In un paese normale i politici non si nascondono dietro false smentite: confermiamo l’incontro Casaleggio-Salvini. Abbiamo fonti certe», afferma il direttore del quotidiano, secondo il quale il colloquio sarebbe confermato da «due autorevoli fonti della Lega».
Prima Di Maio, poi Roberto Fico e Casaleggio annunciano di passare alle vie legali nei confronti di Calabresi. «È stata messa in discussione la mia onorabilità, dica data e luogo dell’incontro o lo querelo – attacca in un video Casaleggio Jr – Dimostrerò a tutti dove mi trovavo e cosa facevo quel giorno, se necessario con l’ausilio di testimoni. Se sarà dimostrato, e sarà dimostrato, che io il giorno indicato ho fatto altro, allora credo che il direttore Calabresi dovrà dimettersi».

Corriere 16.6.17
La prima volta di una donna premier e gay


Dopo essere stata la prima donna a diventare ministra nel governo serbo, ieri Ana Brnabic, 42 anni, lesbica dichiarata, è stata incaricata dal neopresidente Aleksandar Vucic di formare il nuovo governo. Considerato un Paese di conservatori e nazionalisti, patriarcale e omofobo, la Serbia si prepara così ad avere una premier omosessuale. «È un grande onore per me, ma al tempo stesso un’enorme responsabilità» ha detto Ana Brnabic che è indipendente e non è iscritta ad alcun partito.

La Stampa 16.6.17
Il rispetto che manca verso una legge di civiltà
di Vladimiro Zagrebelsky


Ciò che stupisce e anche indigna è che in Senato si venga alle mani per impedire la discussione di un progetto di legge che riguarda il riconoscimento della cittadinanza italiana anche a qualcuno che non è figlio di genitori italiani. Si chiama ius soli, ma come ora accade spesso nelle nostre leggi, non vuol dire quel che significa. Infatti la legge non prevede che si sia italiani, qualunque sia la nazionalità dei genitori, per il solo fatto di nascere in territorio italiano. Né l’opposto criterio dello ius sanguinis, che in linea di principio collegherebbe la cittadinanza al legame di sangue con entrambi i genitori italiani, è quello che regge la legge fino ad ora in vigore, la quale conosce profonde attenuazioni della regola. Ma basta l’uso di due parole come terra e sangue a scatenare gli istinti contro la ragione. E, con gli istinti, i muscoli!
L’Italia è un Paese il cui carattere e la cui ricchezza derivano da ondate di migrazioni e dominazioni straniere, che hanno creato una popolazione italiana nei cui geni, modi di vita e cultura non ci sono solo i romani, ma anche i greci, gli arabi, i normanni, gli ebrei, i germani e tanti altri. Adesso e nel prevedibile futuro l’Italia e l’Europa ricevono gran numero di stranieri. Vi sono da un lato il rimescolamento tra europei, frutto benefico della libertà di circolazione nell’Unione europea e dall’altro il fenomeno storico del movimento di popolazioni sotto la spinta di guerre e miseria nei territori di origine. Per quanto si possa disciplinare quello che sta avvenendo, è illusorio pensare di arrestarlo. Truffaldino, nella propaganda politica, far credere di essere in grado di farlo. Triste pensare a una società omogenea (la difesa della razza?), chiusa nel suo modo di vivere e priva di ciò che gli altri portano.
Ma la prospettiva di chi si scalmana in Parlamento e in piazza è proprio questa, sicura di trovar consensi nella pancia del suo elettorato.
La legge che integra quella vigente, ammette nuovi casi di acquisto della cittadinanza, che riguardano chi nasce in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno abbia regolare permesso di soggiorno permanente. In tal modo diventa decisivo il fatto che il genitore risieda regolarmente e permanentemente in Italia. È poi previsto che lo straniero, se è nato in Italia o vi ha fatto ingresso da minorenne, acquista la cittadinanza se ha regolarmente frequentato in Italia le scuole del sistema nazionale per un tempo diversificato a seconda dell’età che egli aveva all’arrivo in Italia. L’articolazione dei casi è equilibrata e mette l’Italia in linea con tendenze già presenti in diversi Paesi europei in una materia che da tempo è condizionata dalla sempre maggior mobilità delle persone. Soprattutto essa tiene conto dell’intrinseca italianità di chi fin dalla nascita e per la frequenza delle scuole italiane, cresce qui, nel contesto italiano, insieme a giovani italiani. Si tratta di riconoscere la cittadinanza sociale, accanto a quella di sangue o di luogo di nascita.
Come ogni legge che regola materie complesse anche questa meriterebbe in Parlamento un’attenta discussione, articolo per articolo, parola per parola. Lo stesso va detto anche per le altre leggi sui diritti civili da lungo tempo pendenti. Ma un’attenta discussione, tesa a eliminare problemi applicativi, richiederebbe un atteggiamento rispettoso non solo del Parlamento, che si continua a scrivere con la maiuscola, ma anche delle persone cui la legge si rivolge. In questo caso la rissa parlamentare propone lo scontro tra un generico «noi» e un generico «loro». Imbarca sulla nave nazionale anche chi tra i «noi» non lo meriterebbe e rifiuta chi tra i «loro» sente e vive ormai da italiano. Ma per fortuna il sentimento maggioritario tra gli italiani non segue questa strada nefasta. Non è un caso che il progetto di legge derivi anche da un’iniziativa legislativa popolare.

La Stampa 16.6.17
“Oggi come ai tempi del Watergate il vero giornalismo arriva alla verità”
Rosenfeld, capocronista di Woodward e Bernstein “Questa è la battaglia decisiva per la democrazia”
intervista di Paolo Mastrolilli


Harry Rosenfeld era il capo della cronaca al «Washington Post», che diede l’incarico a Bob Woodward e Carl Bernstein di seguire il furto al Watergate, guidandoli fino alle dimissioni di Nixon. Nel film «Tutti gli uomini del presidente» era il capo duro ma giusto, interpretato da Jack Warden.
Il presidente Trump rischia di fare la stessa fine?
«Sì, perché è sotto inchiesta, ma provare l’ostruzione della giustizia è molto difficile. La chiave sta nella determinazione a salvarlo dei repubblicani, che hanno la maggioranza alla Camera e quindi possono bloccare l’impeachment. Se i suoi compagni di partito decidono che difenderlo li danneggia, lui è finito».
Come giudica il lavoro dei suoi successori al «Washington Post»?
«Straordinario, sono orgoglioso. Stanno dimostrando che tutte le chiacchiere sul giornalismo, Internet, i social, sono fesserie».
Perché?
«Alla fine, quando bisogna fare il giornalismo d’inchiesta che determina il futuro del Paese, solo i media tradizionali più seri sono capaci di arrivare alla verità. Internet, i blogger, i social, fanno i commenti, e per qualche ragione che non capisco vanno in tv a chiacchierare. Le notizie vere su cui discutono, però, o le troviamo noi, oppure nessuno le cerca».
Il Presidente e i suoi avvocati vi accusano di essere dei criminali, perché pubblicate soffiate illegali.
«È sempre così. Il governo, chiunque sia al potere, odia i leaks, le fughe di notizie, che lo danneggiano, e ama quelle che lo aiutano. Come fa Trump a criticare oggi il lavoro del Washington Post, dopo aver elogiato WikiLeaks, quando durante la campagna elettorale pubblicava le informazioni rubate dagli hacker russi per danneggiare Hillary Clinton? Il Primo Emendamento della Costituzione esiste proprio a questo scopo: garantire che i media possano fare il loro lavoro di controllo del potere. Ma Trump è una persona non istruita, e quindi non sa di cosa parla. Dice che i media sono i nemici del popolo, senza rendersi conto di quanto le sue posizioni coincidano con quelle del peggior autoritarismo».
Il presidente accusa i giornali tradizionali di essere fake news.
«Questa è la battaglia decisiva della nostra epoca, non solo per il giornalismo, ma per la democrazia. I media possono sbagliare, in buona fede, e se lo fanno devono correggersi. Oggi però il panorama dell’informazione è popolato da soggetti in cattiva fede, che diffondono falsa propaganda proprio allo scopo di confondere il pubblico, e non consentirgli di fare scelte politiche informate. Internet e i social, poi, hanno facilitato e accelerato la diffusione della bugie. È nostro dovere smascherare e sconfiggere questi imbroglioni».
Come?
«L’unica ricetta che posso offrire è la stessa che predicavo a Bob e Carl: dobbiamo essere perfetti, sempre. Non possiamo permetterci alcun errore. Ogni cosa che pubblichiamo deve essere vera, altrimenti ci distruggerà. E poi basta ridurre il personale, perchè le notizie vere non si copiano dalla rete, e per trovarle servono i giornalisti».
Cosa è più importante, secondo lei: rispettare la legge, e quindi non pubblicare i leaks; oppure rivelare i reati dei politici, anche a costo di violare le regole e finire in prigione?
«Non c’è alcun dubbio: l’interesse prevalente è salvare l’integrità della nostra democrazia. Se un politico viola la legge va denunciato, anche se ciò ci richiede di violare la legge».

il manifesto 16.16.17
Sul Russiagate nessuno vuole l’impeachment
Stati uniti. È chiaro che Trump sta negoziando la sua sopravvivenza politica con gli odiati «amici» del Grand Old Party, che ricambiano l’odio ma sono consapevoli che la sua caduta potrebbe trascinarli con sé, non solo nelle prossime elezioni di medio termine ma anche per un lungo periodo. Il tema al centro del negoziato è molto chiaro, è semplice: la lobby trasversale antirussa gli chiede di abbandonare del tutto e definitivamente l’idea di una relazione speciale con Putin, che è il perno della sua politica, estera e affaristica
di Guido Moltedo


Nel giorno del suo 71° compleanno, il 14 giugno, Donald Trump ha appreso una notizia che – dovesse trovare conferma e avere sviluppi- si può riassumere così: nel prossimo futuro altri anniversari del genere non li festeggerà più alla Casa bianca, ma più probabilmente, da ex-presidente, in una delle sue opulente magioni.
L’indiscrezione del Washington Post fa pensare proprio questo, quando rivela che «il procuratore speciale dell’inchiesta sul ruolo della Russia nelle elezioni del 2016 interrogherà alti dirigenti dell’intelligence come parte di una più ampia indagine che ora include l’esame dell’ipotesi se il presidente abbia tentato di ostruire la giustizia». Dunque, se il Russiagate sembra ormai coinvolgere il presidente stesso, nel suo ruolo attuale, è logico pensare che la via verso la sua messa in stato d’accusa è ormai aperta, almeno dal punto di vista legale. Ma dal punto di vista politico?
Il Washington Post da tempo sta cercando di fare il bis del Watergate, lo scandalo scoppiato in seguito alle rivelazioni dei suoi due reporter Bernstein e Woodward, che portò alle dimissioni di Richard Nixon, prima che al Congresso si aprisse la procedura d’impeachement. Rispetto ad allora, il botto sarebbe a livelli nucleari, dal momento che la vicenda spionistica che vede di nuovo al centro un presidente, chiama in causa questa volta una potenza straniera, e quale potenza straniera, il nemico numero uno per antonomasia.
Già, ma forse proprio per questo, la tenacia investigativa del Washington Post non produrrà la conseguenza di cui ormai tutti parlano e che molti auspicano: la destituzione del presidente.
La faccenda è troppo grossa e gravida di conseguenze, perché si voglia davvero aprire il vaso di Pandora del Russiagate. Mica ne uscirebbero malconci solo il presidente e i suoi accoliti.
Chissà quanti altri ambienti, per non dire dell’insipienza dei servizi segreti che verrebbe esaltata dallo scandalo.
E con quali risvolti sul piano internazionale?
Se il circuito mediatico è sempre più elettrizzato all’idea di vedere messo ko il presidente repubblicano, già pregustando l’impennata di copie vendute e gli indici d’ascolto alle stelle, non si può dire lo stesso del mondo politico, sia in campo repubblicano sia perfino in quello democratico. Come mai nessuno dei big ha finora pronunciato la parola che comincia per «i»? I repubblicani, che hanno la maggioranza al Congresso, sono in vista di un turno di elezioni di medio termine dove possono provare a conservarla, la maggioranza. È meglio affrontarlo con un presidente sotto inchiesta giudiziaria o con un presidente irrequieto finalmente al loro guinzaglio?
È chiaro che Trump sta negoziando la sua sopravvivenza politica con gli odiati «amici» del Grand Old Party, che ricambiano l’odio ma sono consapevoli che la sua caduta potrebbe trascinarli con sé, non solo nelle prossime elezioni di medio termine ma anche per un lungo periodo.  Il tema al centro del negoziato è molto chiaro, è semplice: la lobby trasversale antirussa gli chiede di abbandonare del tutto e definitivamente l’idea di una relazione speciale con Putin, che è il perno della sua politica, estera e affaristica.
Una proposta che non potrà rifiutare.
Nei giorni scorsi, nello Utah, ospite Mitt Romney, si sono ritrovati i vecchi capi repubblicani che durante la campagna elettorale ne avevano dette di tutti i colori, ben ricambiati, su Trump e sulla pericolosità della sua elezione. Tutti uniti dall’ossessione anti-russa. Niente di tutto ciò, questa volta, anzi solo parole gentili e rispettose per Trump, perfino dal bisbetico McCain, tutti pronti a dare una mano al vecchio The Donald.
E così, sempre nel giorno del compleanno di Trump, il senato ha votato con 97 voti a favore e due contrari l’indurimento delle sanzioni alla Russia, una clamorosa smentita della linea presidenziale. I democratici, a livello di pezzi grossi, non sono ancora scesi in campo con la bandiera dell’impeachment. Ancora alle prese con un dibattito interno inconcludente e privi di una leadership condivisa, osservano la saga repubblicana nella convinzione che la tregua raggiunta tra Gop e Trump non abbia vita lunga, nell’idea che The Donald non si farà mai mettere al guinzaglio e continuerà con la sua condotta eccentrica.
Così, meglio che resti sulla graticola mediatica, piuttosto che lo sconquasso di sistema prodotto da un impeachment, avvantaggiandosi nel frattempo dell’imbarazzo dei repubblicani, almeno fino al voto di midterm. Sullo sfondo, la polemica sull’ultima delle quotidiane sparatorie, con Trump nell’inedita e letteralmente incredibile veste di presidente che fa appelllo all’unità degli americani. Lui, il presidente che ha costruito la sua fortuna sulla divisione e l’odio sembra sgomento di fronte a un far west dove anche lui stesso, non solo politicamente, è ad alto rischio.

La Stampa 16.6.17
Slavoj Zizek
Perché non possiamo non dirci comunisti
Il filosofo sloveno ritira domani il premio Hemingway mentre arriva in libreria “Il coraggio della disperazione”


Nella scena finale di V for Vendetta (2006), migliaia di londinesi disarmati mascherati da Guy Fawkes marciano verso il Parlamento; lasciato senza ordini, l’esercito permette loro di entrare nel palazzo: il popolo s’impadronisce del potere. Quando Finch chiede a Evey quale sia l’identità di V, lei risponde: «Era tutti noi». D’accordo: un bel momento d’estasi, ma venderei mia madre come schiava per poter vedere V for Vendetta,
parte II: che cosa succede il giorno dopo la vittoria del popolo? Come (ri)organizzerebbero la vita di tutti i giorni?
Sulla scia delle grandi proteste popolari degli ultimi anni – assembramenti di centinaia di migliaia di persone nei luoghi pubblici, da New York, Parigi e Madrid ad Atene, Istanbul e il Cairo – l’«assemblage» [...], i suoi effetti performativi, la sua capacità di sfidare le relazioni di potere esistenti sono divenuti un argomento di moda nella riflessione teorica. E tuttavia verso di esso dovremmo mantenere una certa distanza scettica: nonostante i meriti, lascia immutato il problema fondamentale di come passare dagli assembramenti di protesta all’imposizione di un nuovo potere, e della diversità del funzionamento di questo nuovo potere dal vecchio. [...]
I rifugiati
Un’idea sotterranea circola fra i delusi della sinistra radicale, ripetizione più morbida della scelta terroristica successiva al movimento del 1968 (Action Directe in Francia e la Baader-Meinhof in Germania, ad esempio): solo una catastrofe estrema (preferibilmente ecologica) può risvegliare le masse e dunque dare nuovo impeto all’emancipazione radicale. La sua versione più recente riguarda i rifugiati: l’ingresso di un ingentissimo numero di rifugiati può forse rivitalizzare l’estrema sinistra europea. Trovo questo ragionamento osceno: a parte il fatto che una simile evenienza intensificherebbe enormemente la violenza xenofoba, il suo aspetto puramente folle sta nel mirare a colmare la lacuna dovuta all’assenza di proletari importandoli dall’estero, e dunque a ottenere la rivoluzione tramite un attore rivoluzionario surrogato…
Certo, potremmo sostenere che le ripetute sconfitte della sinistra siano solo tappe in un lungo processo formativo che potrebbe condurre alla vittoria: ad esempio, Occupy Wall Street ha creato le condizioni per il movimento di Bernie Sanders, che è forse a sua volta il primo passo verso un movimento di sinistra ampio e organizzato. E però, il meno che si possa dire è che, a partire dal 1968, il sistema di potere ha dimostrato una straordinaria abilità nell’utilizzare i movimenti di contestazione come fonte del proprio rinnovamento. Ma se il quadro è così desolato, perché non rinunciamo e non ci rassegniamo a un modesto riformismo? Il problema è, semplicemente, che il capitalismo globale ci mette davanti a una serie di antagonismi che non è possibile controllare e neppure contenere entro la cornice della democrazia capitalista globale.
Robot e lavoro
Lo slogan «i robot lavoreranno al posto vostro e lo Stato dovrà pagarvi il salario» è stato escogitato nientemeno che da Elon Musk, personaggio emblematico della Silicon Valley, fondatore di SolarCity e di Tesla: la forza-lavoro del futuro parrebbero essere i computer, le macchine intelligenti e i robot. E a mano a mano che gli impieghi umani verranno svolti dalle tecnologie, le persone avranno meno da lavorare e finiranno per dovere essere mantenute da trasferimenti governativi [...] Dunque oggi l’unica vera domanda è questa: sosteniamo la predominante accettazione del capitalismo come fatto di natura (umana), o l’odierno capitalismo globale contiene antagonismi abbastanza forti da impedirne l’indefinita riproduzione?
Ci sono quattro antagonismi di questo tipo. Riguardano (1) I beni comuni della
cultura nel suo senso più ampio di capitale «immateriale»: le forme immediatamente socializzate di capitale «cognitivo», in primo luogo il linguaggio, i nostri mezzi di comunicazione e istruzione, per non parlare della sfera finanziaria, con le assurde conseguenze della circolazione incontrollata di denaro virtuale;
(2) I beni comuni della natura esterna, minacciata dall’inquinamento umano: i vari pericoli specifici – il riscaldamento globale, la moria dei mari, ecc. – sono tutti aspetti del deragliamento del sistema complessivo di riproduzione vitale sulla terra;
(3) I beni comuni della natura interna (l’eredità biogenetica dell’umanità): con le nuove tecnologie biogenetiche, la creazione di un Uomo Nuovo – nel senso letterale di un cambiamento della natura umana – diviene una prospettiva realistica; e, da ultimo ma non da meno,
(4) I beni comuni dell’umanità stessa, dello spazio condiviso sociale e politico: più globale diventa il capitalismo, più sorgono muri e apartheid, che separano chi è DENTRO da chi è FUORI. La divisione globale viene accompagnata dal nascere di tensioni fra nuovi blocchi geopolitici (lo «scontro di civiltà»). Questo riferimento ai beni «comuni» giustifica la rinascita della nozione di comunismo: essa ci consente di vedere le progressive «recinzioni» dei beni comuni come un processo di proletarizzazione di coloro che vengono così esclusi dalla stessa sostanza della propria vita. Solo il quarto antagonismo, il riferimento agli esclusi, giustifica il termine «comunismo»: i primi tre riguardano di fatto la sopravvivenza economica, antropologica, persino fisica dell’umanità; il quarto, in ultima analisi, riguarda la giustizia. [...]
Il compito che ci troviamo ad affrontare è proprio la reinvenzione del comunismo, un cambiamento radicale che si spinge molto oltre una vaga nozione di solidarietà sociale. Poiché, nel corso del processo storico del mutamento, è il suo stesso scopo a dover essere ridefinito, possiamo dire che il «comunismo» va reinventato in quanto nome di ciò che emerge come scopo dopo il fallimento del socialismo.

Il Fatto 16.6.17
“Le unioni ‘rosse’ fanno sempre flop. Il 6%? Un miracolo”
Luciano Canfora - “Mi ricordo ancora la riunificazione socialista o il debutto della Margherita...”
di Antonello Caporale


I voti? Quanti voti? La sinistra ha perso il suo popolo durante i suoi governi, che io chiamo del suicidio. Lo ha regalato all’astensione, alla disperazione, ai Cinquestelle, alla Lega e persino a Fratelli d’Italia. Quindi mi terrei prudente, conterrei le speranze”.
Luciano Canfora, il principe della filologia classica e sempre schierato sul limite estremo del pensiero di sinistra, è inesorabile nello stimare le percentuali di successo dell’arcipelago progressista nel caso si ritrovasse unito.
Forse perchè sono troppo vecchio e ricordo il flop dell’unificazione socialista. O perché in mente mi viene lo sfracello di voti che doveva prendere la Margherita quando diede vita al simbolo unico. E poi: flop. Oppure, ricorda?, all’altro sfracello annunciato dal Pd, il partito a vocazione maggioritaria. Walter Veltroni e la Giovanna Melandri ogni sera in tv con questa benedetta vocazione maggioritaria. Si autoproclamavano maggioritari. Mi ricordavano quelli che alla domanda perché il papavero facesse dormire, rispondevano: perché ha la virtus dormitiva. Irresistibile come spiegazione.
Le viene in mente il fallimento delle varie fusioni fredde.
È la storia che ce lo dice. Anche quando si promosse Rifondazione comunista, e io facevo parte del gruppo di Cossutta, la cosiddetta terza mozione, parvero spalancarsi chissà quali porte, chissà quali praterie davanti a noi. Dopo un po’ di tempo le percentuali si assottigliarono fino a divenire quasi irrilevanti.
Quindi Bersani & co non si facciano troppe illusioni.
Io mi accontenterei della cifra che teme di perdere il Pd, ormai definitivamente partito di centro insieme a Forza Italia. Quel sei per cento che l’avversario Matteo Renzi paventa sarebbe già un bottino significativo.
Il Pd di Renzi?
Questo partito ha prodotto un aborto. Ora lo votano i nipoti degli elettori democristiani, le élites urbane, i benpensanti. È definitivamente e dichiaratamente un partito di centro.
Se il Pd copre unicamente il centro, facendo concorrenza a Forza Italia, ci sarà dunque una speranza a sinistra? Saranno paragoni inappropriati, ma altrove, dove la sinistra si è presentata nel suo vestito più classico e con i volti persino datati dell’americano Sanders e del britannico Corbyn, il proprio popolo l’ha ritrovato eccome.
Anzitutto si ricordi che in America, e non da ora, esiste un pezzo della sua società illuminato che vota a sinistra. Bernie Sanders ha perso il confronto con la Clinton perché anche lì le primarie sono una buffonata. Però c’è un’altra verità da riferire: negli Usa la sinistra non ha mai governato. E in Gran Bretagna i laburisti invece non si sono mai suicidati.
Invece in Italia la sinistra, governando, si è suicidata.
Non so perché si parli con una tale sfrontatezza di ventennio berlusconiano. Silvio Berlusconi ha governato dodici anni, il resto è opera di altri. L’emorragia di voti che ne è conseguita, aver regalato temo definitivamente alla Lega la classe operaia lombarda, o quel che resta di essa, aver prodotto migrazioni bibliche verso i Cinquestelle e financo dalle parti di Fratelli d’Italia è l’esito di un disastro politico.
La sinistra non ha un popolo, dunque, e nemmeno un leader.
La sinistra ha quel che ha, non la sopravvaluterei. Si affacceranno al voto nuove generazioni, vedremo come voteranno. Sul voto resto cauto. Sul leader possibile aggiungo che non bisogna trovare immediatamente il Giulio Cesare. Il leader deve uscire dal confronto delle idee, dal corpo a corpo nell’agone politico.
Torna in campo persino il nome di Prodi. E Bersani risulta addirittura più popolare di Pisapia. Di nomi nuovi e volti giovani nemmeno l’ombra.
A parte che Giuliano Pisapia è quasi coetaneo di Pierluigi Bersani e non vedo perché dovrebbe essere più popolare, ma che fesseria è questa dell’anagrafe? Il più giovane presidente del Consiglio che abbiamo avuto si chiamava Benito Mussolini. E ho detto tutto.

Il Fatto 16.6.17
Sinistra, altro che lista unica. Sui voucher dà tre voti diversi
Sei “presunti senatori” di Campo progressista si esprimono a favore del testo, i bersaniani di Articolo 1-Mdp escono dall’Aula, gli ex Sel di Fratoianni contrari
di Tommaso Rodano


Nessuna sorpresa al Senato: il governo Gentiloni ottiene la fiducia, anche grazie alle numerose assenze tra i banchi di Forza Italia e dei verdiniani. La maggioranza sopravvive in virtù di un quorum bassissimo: si contano appena 144 sì e 104 no. La manovra è legge, e sono legge (di nuovo) anche i voucher. Hanno una forma e un nome diverso: ora si chiamano PrestO, sono il risultato del grande inganno servito solo a cancellare il referendum della Cgil (che scende in piazza domani a Roma).
All’appello di un voto cruciale sul tema del lavoro, e dopo giorni di riflessioni, incontri, sondaggi e chiacchiere su una possibile lista unica, la sinistra parlamentare si è presentata in ordine sparso. Divisa in tre o quattro correnti, se contiamo pure quella interna al Pd.
Gli orlandiani che avevano contestato radicalmente la norma sui voucher alla Camera, uscendo dall’aula e rifiutandosi di votarla, a Palazzo Madama sono rimasti nei ranghi. Nella sinistra dem si è distinto (di nuovo) solo Walter Tocci, che è uscito dall’aula: “Non ho votato la fiducia sul decreto economico – ha scritto – perché trovo che violi alcuni elementari principi istituzionali. Si può apprezzare o meno la nuova legge sui voucher, ma è inaccettabile l’inganno che ha sottratto alla Corte di Cassazione la valutazione delle nuove norme prima della cancellazione del referendum. Non era mai accaduto prima nella storia repubblicana”.
La stessa posizione assunta in pratica dai senatori di Articolo 1: la fiducia non si vota, ma non si vota nemmeno contro; si esce da Palazzo Madama, così si abbassa il quorum, la manovra passa e il governo resta in sella. Si prova a salvare sia la legislatura che la coscienza. Si fa un torto a Renzi e uno alla Cgil. Per il bersaniano Maurizio Migliavacca “è una scelta obbligata – scandisce in aula – l’unica possibile per non arrendersi al rifiuto in blocco o all’accettazione in blocco del decreto”. Un equilibrio complicato, perché la norma “non va bene per una maggioranza che si dice di sinistra”, però così “il governo può andare a scadenza naturale, ricostruendo il dialogo con le opposizioni sulla riforma delle legge elettorale”. Mdp resta lì: un po’ dentro e un po’ fuori la maggioranza, un po’ di protesta e un po’ di governo.
Poi c’è Sinistra Italiana, che nei confronti della maggioranza non ha mai avuto alcun vincolo di fedeltà. I senatori ex Sel iscritti al Gruppo Misto hanno votato contro la manovra. E non hanno fatto mancare qualche frecciatina ai colleghi di Mdp, con i quali è sempre in piedi il discorso della lista unica: “Il governo ha messo la fiducia sui voucher 24 ore prima della manifestazione indetta dalla Cgil – ha scritto il deputato Giovanni Paglia su Facebook –. Aggiungono schiaffo a schiaffo, che tanto le guance sono quelle dei lavoratori italiani. Diciamo che meriterebbero una risposta un po’ più forte di una benevola uscita dall’Aula, come quella annunciata da Mdp. Coraggio compagni, si può fare di meglio”.
Dunque, ricapitolando: la sinistra del Pd vota sì, i bersaniani non votano, Sinistra italiana dice no.
Poi c’è un dettaglio quasi comico: Giuliano Pisapia ha scoperto di avere una pattuglia parlamentare a sua insaputa. Martedì sera infatti alcuni senatori autoproclamatisi “di Campo Progressista” hanno firmato una nota in cui annunciavano il loro appoggio al governo sulla manovra. Si tratta di quattro ex grillini (Alessandra Bencini, Francesco Molinari, Luis Alberto Orellana e Maurizio Romani) e due ex vendoliani (Dario Stefàno e Luciano Uras) iscritti al Gruppo Misto.
Curiosamente, Pisapia ignorava del tutto la circostanza, come ha provato a spiegare il portavoce di Campo Progressista, Alessandro Capelli: “Ferma restando la piena legittimità della posizione espressa, ricordiamo che ad oggi non siamo ufficialmente presenti in nessuno dei due rami del Parlamento, né alla Camera dei deputati, né al Senato” (andrebbe comunicato a Uras, che sul sito di Palazzo Madama porta la dicitura di iscritto al gruppo “Misto-Campo Progressista”).
Fatto sta che i presunti aderenti al movimento dell’ex sindaco, tranne Molinari e Stefàno, ieri hanno effettivamente votato sì alla manovra (e ai voucher). Aggiungendo un altro elemento, di colore, al mosaico della sinistra divisa sul lavoro.
Si riunirà domani, a fianco del sindacato. In parlamento tre voti distinti, in piazza tutti insieme. Ci sarà anche Campo Progressista: “Se ci fosse stato un referendum sui voucher, la nostra indicazione di voto sarebbe stata certamente nella direzione di abrogare la normativa. Aderiamo alla manifestazione della Cgil”. Pisapia benedice, ma non si farà vedere al corteo. La lista unica non esiste ancora, ma fa già venire il mal di testa.
di Tommaso Rodano

Il Fatto 16.6.17
Il Professore ha rassicurato Matteo: non intende fare il premier. Ma fa pesare la sua centralità per la costruzione del nuovo centrosinistra
Renzi vede Prodi: lo teme e vuole capire che farà
di Wanda Marra


Si sono incontrati di mattina presto all’Hotel Santa Chiara, dietro al Pantheon, Matteo Renzi e Romano Prodi. Un incontro che è durato una mezz’oretta e che gli uomini del segretario Pd ci tengono a definire “positivo”. E “positivo” è stato anche per il Professore, che voleva verificare la “volontà politica” di andare nella stessa direzione.
Questa c’è, dicono da entrambe le parti, se poi si arriverà ad una meta comune è tutto da vedere. “Ho visto Renzi, ma non dico che ci siamo detti”, ha dichiarato ai giornalisti dopo un incontro al Senato, sui rapporti tra Europa e Cina, presente anche Gentiloni. Una posizione interlocutoria, con un’assicurazione di fondo (data all’ex premier): “Il Pd è il partito che ho fondato”. Quindi, non se ne va. A volerlo fortemente incontrare (ci stava provando da giorni) è stato il segretario del Pd: è preoccupatissimo che l’alleanza a sinistra, che sta prendendo forma intorno alla figura di Giuliano Pisapia, diventi un’operazione tutta contro di lui. Non solo. “Ma è vero quello che ha detto Giuliano, che potresti essere tu il candidato premier?”, gli ha chiesto.
Il Professore l’ha rassicurato, smentendo fortemente l’ipotesi. La sua idea è quella di costruire una sorta di “Asinello” (un cartello elettorale, stile ‘96) a sinistra di Matteo, che sia alleato con lui, e possa allo stesso tempo condizionarlo. Un centro-sinistra di governo. Il Professore ha chiarito quali sono i punti per lui irrinunciabili: “unità del centrosinistra” e “alleanze chiare”. Vuole il riconoscimento di un’eredità politica. E poi ha parlato di un piano inclinato che porta al governo: “La sinistra non deve rispondere sparsa, se no è sconfitta”. Renzi si è detto d’accordo. “Non ci siamo votati al proporzionale. Abbiamo solo cercato di fare un accordo con tutti”. Prodi avrebbe fatto capire di non essere contrario al Consultellum: lo sbarramento al Senato, con l’8%, porta alle coalizioni. E alla Camera?
Renzi avrebbe fatto balenare l’ipotesi di una lista unica, che metta insieme in un unico simbolo il Pd, la nascente coalizione di Prodi-Pisapia e i liberali alla Calenda. La sua ipotesi di lavoro. Per Prodi, l’importante sono i presupposti, le soluzioni tecniche conseguono. Renzi negli scorsi giorni ha visto anche Veltroni: un altro padre nobile dell’Ulivo, molto critico nei suoi confronti per il proporzionale. Il tentativo è quello di isolare Napolitano. Ha pure spinto sulla comune inimicizia nei confronti di Massimo D’Alema, dipinto come quello che ha armato i 101 contro di lui. Il segretario ha chiesto poi a Prodi consigli e gli ha raccontato del suo governo. Un modo per riconoscergli quella autorevolezza che finora gli aveva negato. Prodi ha avuto la conferma di essere centrale in questo momento e ed era visibilmente soddisfatto: in Senato ha arringato la platea, con la verve di un ragazzino.

Corriere 16.6.16
Il professore vuole essere equidistante tra le sinistre
di Massimo Franco


Più si schermisce, più Romano Prodi rischia di assumere un ruolo centrale nel centrosinistra del futuro. Quasi certamente non come candidato a Palazzo Chigi. Semmai, come «padre nobile» e, se possibile, «ricucitore» di un’area lacerata da divergenze politiche e rancori personali. Ha incontrato sia Giuliano Pisapia, proiettato verso la creazione di una sinistra alternativa al Pd, sia l’ex premier e segretario dem, Matteo Renzi: a sottolineare un’equidistanza che suona come critica a quanti, nei due tronconi del suo schieramento, ragionano in termini di scontro e di conflitto.
Non solo. Ieri, al Senato, il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ha reso un omaggio a Prodi quasi deferente, spiegando che sulla Cina e la politica estera «è un punto di riferimento. E approfitto di essergli amico per chiedergli qualche dritta». Insomma, si tratta di una presenza ingombrante: forse, più che per volontà dell’ex presidente della Commissione Ue, per il malessere e la crisi di leadership vissuti a sinistra. È curioso che poco dopo le parole di Gentiloni sulla dimestichezza prodiana sui temi internazionali, Renzi abbia voluto far sapere che non ieri ma mercoledì aveva incontrato anche lui un esponente del Partito comunista cinese, dopo Gentiloni.
Sono indizi di una competizione sottotraccia non tanto per la leadership governativa, ma per definire la fisionomia del centrosinistra di qui alle elezioni; e soprattutto in seguito. Prodi è l’espressione di una strategia che ha come bussola il maggioritario, come obiettivo una coalizione che unisca le componenti della sinistra, e come primo avversario il centrodestra di Silvio Berlusconi.
Sotto questo aspetto, si indovina una sintonia con l’ex sindaco di Milano, Pisapia: una persona alla quale il Prodi premier chiese di diventare il ministro della Giustizia. Eppure, il fondatore dell’Ulivo si terrà lontano dalla manifestazione del suo gruppo nascente il 1° luglio a Roma. Non vuole diventare argomento di ulteriore divisione, né crede a ritorni al passato. In più, rispetta la leadership di Renzi nel Pd come l’unica che finora si sia manifestata e affermata. La sensazione, tuttavia, è che ritenga gli ultimi mesi della sua segreteria una collezione di errori; e che tema un ulteriore calo del Pd, a cominciare dai ballottaggi alle Comunali del 25 giugno.
E comunque, non ha nascosto la contrarietà alle aperture di Renzi a Forza Italia come alleato di governo dopo il voto: soprattutto se, come sembra, prevalesse la spinta al sistema proporzionale e non fossero possibili maggioranze omogenee in Parlamento. La cerchia renziana ha già cominciato a martellare. Intuisce che il ruolo di Prodi cresce, come referente di fatto in nome dell’unità: così forte da oscurare il segretario, e da ostacolare il suo progetto e la sua voglia di tornare a Palazzo Chigi. Anche perché Gentiloni è già lì.

il manifesto 16.6.17
Renzi vede Prodi, ora rischia l’isolamento anche fra i suoi
Pace fatta Pisapia-Mdp: uniti verso il 1° luglio. Sui voucher arrivano gli attacchi da sinistra. Ai Santi Apostoli con l’ex sindaco ci sarà anche Bersani ll prof medita l’invio di un messaggio
di Daniela Preziosi


«Ho visto Renzi stamattina». Stavolta Prodi non si fa pregare dai cronisti. A Palazzo Giustiniani, dove nel pomeriggio parla di Cina, rivela uno degli appuntamenti di questi suoi intensi giorni romani. Il professore non aggiunge altro, ma l’incontro è avvenuto la mattina al Nazareno. E il leader Pd per una volta ha staccato il cellulare, come si fa durante un colloquio di riguardo. Perché la situazione per lui, Renzi, si fa delicata: il pressing per rifare una coalizione, dopo gli anni dell’autosufficienza e delle pernacchie verso sinistra, ormai è un’onda.
FRA RENZIANI LEALISTI circola l’ipotesi di un complotto per disarcionarlo, complici i tempi lunghi prima del voto. I complottardi sarebbero quelli di sempre: Veltroni, Letta, Napolitano, Bersani e D’Alema, De Benedetti e La Repubblica. E Prodi stesso: in pratica tutti quelli che, anche da posizioni politiche opposte, non fanno (o non più) parte del fanclub dell’ex premier. Il quale ora, come uno che ne ha sbagliata una grossa, un’altra, soffre della sindrome della solitudine immaginaria.
LO STESSO CONVEGNO in cui il fondatore dell’Ulivo è convocato sembra un segnale. La carta intestata è del Pd, a invitarlo il presidente dei senatori Zanda, anche se si giura che l’organizzazione dell’evento risale a tempi non sospetti. C’è anche, attenzione, il premier Gentiloni – segnalato come cavallo vincente dei complottardi – e per giunta non risparmia elogi per il predecessore ulivista: «Prima da ministro degli Esteri e ora da premier approfitto quando posso di essere amico di Prodi e gli chiedo qualche dritta sulle questioni su cui lui molto ha lavorato», rivela.
AL NAZARENO I DUE EX PREMIER aprono il dossier «centrosinistra». Nei giorni scorsi Prodi ha avvertito che in caso di larghe intese, «leverà le tende». In più ha appena scritto il volumetto «Il piano inclinato» che sembra un programma di governo. Pisapia ha invocato il suo ritorno a Palazzo Chigi. Lui, il professore, si è schermito: «Sono un pensionato felice».
MA CHI LO HA VISTO in questi giorni romani ha verificato che il «pensionato» è in gran forma a dispetto dei suoi quasi 78 anni. Il suo filo diretto con Pisapia è costante. Renzi sente crescere l’interesse verso l’iniziativa unitaria dell’ex sindaco. Per questo ha invitato Prodi. Alla fine il professore non riferisce nulla. Invece il segretario fa filtrare che l’incontro è stato «cordiale», che Prodi resta vicino al Pd e si offre a fare «da ponte» con Pisapia.
IL PROFESSORE PERÒ NON SARÀ a Roma all’assemblea «Insieme» organizzata il primo luglio a piazza Santi Apostoli, la piazza dell’Ulivo. Ma non è un passo indietro. «Mi tirano per la giacca? Ma no, ce l’ho ancora», ha detto ai cronisti di Montecitorio. A quella piazza medita di mandare un messaggio. Il luogo è ad alta densità simbolica. Racconta una storia: quella della sua «canzone popolare».
ANCHE PISAPIA HA TRASCORSO a Roma giorni di lavoro. Dopo un incontro con Prodi ieri c’è stato un «chiarimento» con i vertici Mdp da dove negli ultimi giorni sono usciti allo scoperto i malumori per l’ipotesi (irrealistica, per ora) di primarie con il Pd. Pace fatta, giurano tutti. A Santi Apostoli Pisapia sarà certo il protagonista ma insieme a Pier Luigi Bersani e non solo.
Del resto Mdp comincia a prendere in seria considerazione i timori di Pisapia: e cioè che un fronte di sinistra-sinistra con i vendoliani (e perché no, con Rifondazione) azzopperebbe il loro profilo «di governo» e la parola d’ordine di «rifare il centrosinistra» anche senza Renzi.
ANCHE PERCHÉ SOTTO LO SLOGAN dell’«unità» le differenze fra sinistra al governo e sinistra all’opposizione ci sono, negarle è complicato. Ieri Si e Prc hanno attaccato Mdp, a intensità diverse, per la scelta di uscire dall’aula al momento della fiducia sulla manovrina contenente i nuovi voucher: un voto negativo avrebbe messo a rischio il governo. Ma siamo alla vigilia del corteo Cgil, domani a Roma, a cui Mdp ha aderito con alti proclami. Scrive il deputato Paglia (Si): il governo merita «una risposta un po’ più forte di una benevola uscita dall’aula». Tuona Maurizio Acerbo del Prc: «Se il Pd imbroglia, che dire di chi gli fa da spalla? Con che faccia si presenteranno in piazza?».
PIÙ SFUMATO il ragionamento di Mdp sull’iniziativa del 18 giugno al Brancaccio, quella dei civici dell’avvocata Falcone e del prof Montanari. D’Alema ci sarà, con Arturo Scotto e Enrico Rossi. In forse Roberto Speranza. Presenti in forze invece le altre «sinistre-sinistre», insieme alla rete delle città e «le variegate liste unitarie di alternativa», annuncia Stefano Fassina.

Il Fatto 16.6.17
Poca gente e tante botte: così protesta l’estrema destra
di Andrea Palladino


Meno di cinquecento persone, sommando le tre manifestazioni della giornata. La protesta contro l’avvio della discussione in Senato della legge sullo ius soli, organizzata dalla estrema destra romana, alla fine si è rivelata appena simbolica. La mattina, dopo le 10, è apparsa Casapound, con un presidio a Piazza delle cinque lune, a pochi passi da palazzo Madama. Dopo poco meno di un’ora circa duecento persone hanno tentato di forzare i presidi della Polizia di Stato e dei Carabinieri, che hanno risposto con una carica e l’uso degli idranti. I militanti di Casapound hanno portato in piazza decine di cartelli con le foto dei terroristi legati a Daesh coinvolti negli attentati degli ultimi anni in Europa, legando la loro nazionalità europea all’applicazione del principio dello ius soli.
Poco dopo, a piazza Vidoni, distante qualche centinaio di metri, un centinaio di militanti di Forza Nuova hanno cercato di raggiungere il Senato, lanciando alcuni petardi e accendendo fumogeni. Azione bloccata, anche in questo caso, con cariche della Polizia, che ha denunciato 64 persone per manifestazione non autorizzata, resistenza e apologia del fascismo.
Il presidio del pomeriggio, organizzato dal Polo sovranista, insieme alla sigla di estrema destra ‘Patria’, sempre a Piazza delle cinque lune, ha visto la partecipazione dei senatori Maurizio Gasparri e Francesci Aracri, di Francesco Storace, Gianni Alemanno e del leader di ‘Patria’ Alfredo Iorio. Tanti ex missini in piazza – anziani con i simbolo della fiamma tricolore al bavero della giacca – e una attenzione nel mantenere un ruolo istituzionale e non movimentista, volto visto in azione la mattina. I tre blocchi della destra romana stanno puntando l’attenzione politica sul tema della migrazione ormai da mesi, con una presenza sempre più capillare nelle periferie della capitale.

La Stampa 16.6.17
Tre italiani su quattro contrari a un’alleanzatra dem e Forza Italia
Il sondaggio: centrodestra più forte
di Nicola Piepoli


I risultati del primo turno delle amministrative hanno suscitato molto interesse. Chi ha vinto? Secondo l’opinione pubblica ci sono tre parziali vincitori, Pd, Forza Italia e Lega e c’è un sicuro sconfitto, il Movimento 5 Stelle.
Gli elettori dei diversi partiti sono stati sorpresi dall’esito di queste elezioni e i più stupiti di tutti sono stati i simpatizzanti del Movimento 5 Stelle, viceversa i più soddisfatti di tutti, forse perché pessimisti alla vigilia, sono gli elettori del centrodestra che hanno finalmente colto l’occasione di raddrizzare la testa e pensare in termini positivi al futuro.
A questo punto abbiamo chiesto all’opinione pubblica che tipo di prospettive potesse avere un’eventuale collaborazione tra centrosinistra e centrodestra. La risposta a questo proposito è stata piuttosto netta, la grande maggioranza degli italiani non gradirebbe questa formula di governo, che non va esclusa alla luce del particolare meccanismo della legge elettorale. A questo punto dalla nostra ricerca è emerso qualcosa di inaspettato, mentre molti si aspettano banalmente che il Movimento 5 Stelle abbia smesso di crescere, sono molti quelli che troverebbero conforto in una permanenza al potere dell’attuale governo Gentiloni almeno fino alla fine della legislatura, e perché no? Anche più in là.

Repubblica 16.6.17
Maestri, polemica sui trasferiti al Sud “Più della metà ha usato la legge 104”
Alle elementari record di spostamenti grazie alla norma per assistere i familiari disabili Al Nord il dato è sotto l’1%. I presidi: “Un istituto di civiltà. Ma serve una stretta anti abusi”
Salvo Intravaia


RECORD di (lunghi) trasferimenti verso le regioni meridionali grazie alla legge 104. Qualche giorno fa, il ministero dell’Istruzione ha reso noti i dati sui cosiddetti “movimenti” (trasferimenti, passaggi di cattedra e di ruolo, provinciali e interprovinciali) richiesti dai maestri di scuola elementare, molti dei quali spediti al Nord dalla Buona scuola del governo Renzi. E non mancano le sorprese. Perché, su oltre mille movimenti interprovinciali chiesti verso le regioni meridionali, oltre la metà (il 53 per cento) è stata possibile grazie alla norma che tutela alcune categorie di persone. In primis, chi deve assistere un conbiuge o figlio disabile grazie alla legge 104.
Un passo indietro. Parliamo di spostamenti che in genere si ottengono in base al punteggio per titoli e anzianità di servizio. Ma anche in base alle tutele (“precedenze”) previste per alcuni casi particolari. Il più comune è l’applicazione della legge 104 sulla tutela dei disabili. Gli altri casi disciplinati (perdenti posto, coniugi di militari, personale che ricopre cariche pubbliche e sindacalisti al rientro dal distacco) sono evidentemente residuali.
A livello nazionale, la quota di trasferimenti agevolati è attorno al 21 per cento. Al Nord è bassissima: riguarda appena un trasferimento interprovinciale ogni cento. Mentre al Sud oltre metà dei maestri rientrati a casa ha “scavalcato” colleghi con un punteggio maggiore grazie alla legge 104. Sulla questione, già due anni fa, scoppiò la polemica e il Miur assicurò controlli stringenti per stanare i potenziali furbetti. Ma la percentuale dei trasferimenti verso le regioni meridionali con “precedenza” sorprende anche i dirigenti. Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp), è netto: «Nessuno mette in discussione l’importanza della legge 104. Ma questi dati fanno temere un abuso e una totale assenza di presupposti alla base delle certificazioni. O ci sono due Italie, con due livelli di cagionevolezza completamente diversi, o dobbiamo pensare ad abusi in alcune parti del Paese. Altrimenti questi numeri non si giustificano. Le pubbliche amministrazioni si mettano in condizione di fare controlli più stringenti, soprattutto in alcune aree».
È la Calabria la regione che detiene il record: 100 movimenti interprovinciali agevolati su 130. Un 77 per cento che stride con i dati di Lombardia e Piemonte, entrambe sotto l’1 per cento, o del Friuli dove neppure un trasferimento è stato agevolato. Nelle regioni dell’Italia centrale (Umbria, Marche, Lazio e Toscana) la quota di trasferimenti determinati dalle precedenze non raggiunge il 5 per cento. Mentre Sicilia e Campania, con 68 e 65 per cento, sono seconda e terza in classifica. E a livello provinciale si registrano sbalzi ancor più consistenti: in provincia di Cosenza, 33 dei 36 maestri che hanno ottenuto il trasferimento da un’altra provincia hanno scavalcato tutti appoggiandosi alla 104. Un vero e proprio record (92 per cento) che neppure Agrigento arriva a scalfire: con 10 movimenti su 11, si ferma al 91 per cento.
Anche il sindacato auspica controlli più accurati. Lena Gissi, segretaria della Cisl scuola, chiede «più controlli, ma non a macchia di leopardo ». «Servirebbe — spiega — un coordinamento del governo per portare avanti queste verifiche. Le differenze nei numeri tra Nord e Sud potrebbero essere determinate dai diversi sistemi sanitari, che sono a gestione regionale, e con diverse sensibilità rispetto alle tutele. Come sindacato non abbiamo interesse a difendere i furbi, ma è pur vero che al Sud ci sono situazioni di povertà e deprivazione tali da spingere i cittadini a cercare più tutele statali possibili».

Il Sole 16.6.7
Tsipras, l’austero esecutore
Anche sotto il Partenone «si nasce incendiari e si muore pompieri»
Vittorio Da Rold


In queste poche righe è tracciata l’incredibile parabola politica del premier greco, Alexis Tsipras, nato come oppositore delle politiche di austerità volute dalla Troika e costretto a diventarne un fedele esecutore
Sono ormai passati due anni e mezzo ad Atene dopo la clamorosa vittoria alle politiche del 25 gennaio 2015 della sinistra radicale di Syriza, ma sembra passato un secolo. La protesta della classe media ellenica stremata da una crisi lunga sette anni era sfociata a sorpresa in un duro voto di protesta a sinistra dei maggiori partiti storici: il socialista Pasok di George Papandreu e il conservatore Nea Dimokratia di Antonis Samaras. Un voto che dopo 30 mesi appare “tradito” da una massiccia dose di austerità e realismo, «per restare al potere», dicono gli oppositori del governo, «per restare agganciati al carro dell’euro», ribattono i sostenitori di Tsipras.
La prima stangata della riforma delle pensioni annunciata nel 2015 da Tsipras prevedeva la fine dell’Iva agevolata per le isole più svantaggiate e il dodicesimo taglio alle pensioni con la riduzione a 2.300 euro dell'ammontare mensile massimo (da 2.700 euro) e una pensione minima, con almeno 15 anni di contributi, ridotta a 384 euro (-15%). Anche una indennità speciale (l’Ika) che aumentava le pensioni minime è stata abolita tra le proteste di piazza. Poi è toccato agli agricoltori, che a fine 2015 e 2016 hanno bloccato le maggiori vie di accesso del paese per protesta contro il nuovo regime fiscale che, riducendo le esenzioni, aumentava le tasse. Ma sul piede di guerra sono finiti anche notai, farmacisti, camionisti e i pubblici dipendenti. Tutti uniti contro la riforma previdenziale che ha previsto un nuovo taglio del 15% delle pensioni.
Poi sono arrivate le misure sui prestiti in sofferenza, che hanno consentito di mettere sul mercato con più facilità gli immobili ipotecati, una misura molto contestata dai sindacati. I provvedimenti facevano parte del terzo piano proposto dalla troika (Ue, Fmi e Bce) in cambio degli aiuti da 86 miliardi di euro negoziato a luglio 2015.
La seconda tranche di misure di austerità, per un totale di 4 miliardi di euro, è stata approvata nella notte tra il 18 e il 19 maggio con 153 voti a favore di Syriza e del suo partner minore di coalizione, i greci indipendenti di Panos Kammenos, che hanno assicurato con disciplina spartana la maggioranza nel Parlamento composto da 300 seggi. Non ci sono state defezioni e i parlamentari hanno inghiottito l’ennesimo boccone amaro. Tra le misure approvate il 18 maggio c’erano nuovi tagli alle pensioni per un importo pari all’1% del Pil, che entreranno in vigore nel 2019.
Questo è il tredicesimo taglio alle pensioni da quando la Grecia è entrata nei tre programmi di salvataggio che si sono susseguiti dal 2009. Il governo si è impegnato anche ad aumentare dell’1% del Pil le entrate fiscali nel 2020, riducendo il limite di esenzione dell’imposta sul reddito personale. Le misure comprendono altre riforme sul lavoro e del mercato dell’energia e nuove privatizzazioni, così come anche misure volte ad agevolare la vendita degli Npl delle banche greche.
Dopo questa cura il governo Tsipras non brilla più nei sondaggi e i dipendenti della sanità pubblica, scesi in sciopero per i tagli, hanno manifestato contro il governo accusando il premier e il suo partner nazionalista, Panos Kammenos, di essere entrambi dei “Pinocchio”. Accuse dure da digerire per un governo di sinistra radicale.
Certo, dopo il compromesso dell’Eurogruppo resta la variabile di ciò che potrebbe decidere Alexis Tsipras. Sono in molti a chiedersi cosa farà il premier ellenico che aveva promesso al Paese mediterraneo che i nuovi sacrifici chiesti dalla troika questa volta avrebbero garantito l’alleggerimento al debito e l’aiuto della Bce sul fronte del quantitative easing. Un passaggio importante che avrebbe permesso, come aveva annunciato il vice premier Yainnis Dragasakis, al Paese di tornare sul mercato dei capitali con l’aiuto del fatto che dopo l’accordo con i creditori la Bce avrebbe messo i bond greci nella lista degli asset per l’acquisto del quantitative easing così da facilitare il ritorno sul mercato dei capitali.
A questo punto il premier potrebbe decidere di portare il tema Grecia al summit europeo del 22 giugno. Molto dipenderà dal presidente francese Macron mentre Tsipras è sempre più logorato dalle politiche di austerità.

Il Sole 16.6.17
Accordo europeo sugli aiuti ad Atene
Dall’Eurogruppo 8,5 miliardi, ogni decisione sul debito è rinviata dopo giugno 2018
di  Beda Romano


Lussemburgo Dopo lunghe trattative, i creditori della Grecia hanno concesso ieri ad Atene nuovi aiuti: 8,5 miliardi di euro nell’ambito del terzo piano economico di cui gode Atene dal 2015. Quanto a nuove misure di alleggerimento del debito greco, la questione è stata rinviata alla fine dell’attuale programma di aggiustamento, nel 2018. Gli impegni su questo fronte hanno però convinto il Fondo monetario internazionale a dare il suo «accordo di principio» per partecipare al salvataggio greco.
Il nuovo prestito giunge dopo che la Grecia ha superato la seconda verifica del terzo programma di aiuti da 86 miliardi di euro, adottando le misure economiche chieste dai partner. In un primo tempo, la linea di credito doveva essere di 7,4-8 miliardi di euro, un totale sufficiente per permettere al Paese di rimborsare le obbligazioni detenute dalla Banca centrale europea. La somma è salita nelle ultime trattative perché Atene è riuscita a strappare una qualche forma di bonus.
«Accogliamo con soddisfazione gli impegni presi dalla Grecia (...) per rafforzare la crescita potenziale», ha annunciato in una conferenza stampa il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. «Si tratta di un grande passo avanti (…) Bisogna ora preparare una strategia di uscita dal programma di aggiustamento, prevista per l’anno prossimo». In questa ottica, l’Eurogruppo e la Grecia si sono messi d’accordo sulla creazione di una nuova Banca nazionale di sviluppo.
Nel contempo, accogliendo i confermati impegni di alleggerimento del debito greco da parte dei creditori europei, l’Fmi ha annunciato che intende partecipare al programma, dando un suo «accordo di principio. Tuttavia, la direttrice Christine Lagarde ha precisato che «l’esborso dell’aiuto finanziario avverrà solo quando saranno precisate ulteriormente le misure per alleggerire il debito greco». La signora Lagarde ha parlato di aiuti del Fondo per 2 miliardi di dollari, senza precisarne la tempistica.
A complicare la trattativa in queste settimane è stata la posizione della Germania. Da tempo Berlino esige che il Fondo partecipi al programma di sostegno all’economia greca, ma l’Fmi si è sempre rifiutato di farlo finché non riceverà assicurazioni sulla sostenibilità del debito pubblico (180% del Pil). Le promesse di applicare pienamente il piano tratteggiato nel maggio 2016 e che prevede l’alleggerimento del passivo in tre fasi ha finalmente convinto il Fondo, almeno in principio.
Il piano messo a punto l’anno scorso prevede che nel breve termine i partner della Grecia addolciscano il cammino dei rimborsi greci. Nel medio termine, una volta terminato il piano di aggiustamento nel 2018, i creditori si sono impegnati «se necessario» a un secondo pacchetto di misure. Nel lungo termine, infine, i creditori si sono detti pronti a considerare nuove scadenze dei prestiti, tetti ai tassi d’interesse, nuova tempistica nel pagamento delle cedole (si veda Il Sole 24 Ore del 26 maggio 2016).
Sempre ieri, il Fondo ha pubblicato il suo rapporto annuale sulla zona euro. La signora Lagarde ha annunciato che l’Fmi rialzerà le stime di crescita 2017-2018 sulla scia di una «ripresa significativa», segnata da «un circolo virtuoso di rilancio del credito». La direttrice generale ha anche messo l’accento sulla «nuova realtà politica» che sta creando «nuova fiducia». Ciò detto, non mancano le sfide, in particolare le divergenze di competitività e l’arresto del processo di convergenza tra i Paesi. Lo sguardo corre all’Italia.

La Stampa 16.6.17
Dal Po alla Neva Nefertari si esibisce a San Pietroburgo
Apre all’Ermitage la mostra dedicata a una delle regine più celebri dell’Antico Egitto con i reperti provenienti dal Museo di Torino
Lo scavo della sua tomba fu il trionfo di Schiaparelli
di Maurizio Assalto


Dalle piramidi alle Alpi, dal Po alla Neva. È con un’inversione (e un’estensione a Est) della parabola manzoniano-napoleonica che un’avanguardia di antico Egitto arriva a San Pietroburgo. Nella sala del Maneggio dell’Ermitage, uno dei musei più ricchi al mondo, si è inaugurata ieri la mostra «Nefertari e la Valle delle Regine. Dal Museo Egizio di Torino», che si prolungherà fino al 10 gennaio, facendo così coincidere l’apertura con l’euforia delle Notti bianche e la chiusura con le celebrazioni del Natale ortodosso. Un dettaglio significativo per capire l’importanza che i russi annettono a questo evento, definito dal direttore del museo pietroburghese Michail Piotrovskij - in carica dal ’92, autentico zar culturale del Paese - «il più importante tra quelli da noi ospitati quest’anno», che «finalmente valorizza appieno le potenzialità della sala del Maneggio» e per il quale si attendono due milioni di visitatori. Lo stesso Putin, nel summit con il premier Gentiloni tenutosi un mese fa a Sochi, lo aveva preannunciato come un esempio virtuoso degli eccellenti rapporti con l’Italia.
Un piccolo nucleo di circa 200 reperti egizi è presente nelle collezioni dell’Ermitage, in una sala attigua a quella della mostra. Con i 256 pezzi mandati da Torino – alcuni provenienti dalla mostra che si è da poco conclusa a Leyden, in Olanda (con 124 mila visitatori in sei mesi), ai quali si è aggiunto un nutrito gruppo di papiri, tra cui quello famoso della congiura contro Ramesse III – il pubblico russo potrà farà un’esperienza più organica dell’antica civiltà.
La mostra, sostenuta dall’Enit e realizzata con l’importante partnership di Lavazza, è incentrata intorno alla figura di Nefertari, Grande Sposa Reale di quel Ramesse II che regnò dal 1279 al 1213 a.C. È stata scelta come baricentro, spiega il direttore dell’Egizio Christian Greco, perché lo scavo di quella tomba, nel 1904, è uno dei maggiori successi del suo mitico predecessore Ernesto Schiaparelli. Purtroppo era già stata saccheggiata nell’antichità, ma dal punto di vista decorativo risultava la più bella tra quelle trovate nella Valle delle Regine. Lo scopritore ne fece realizzare un modello in scala 1:10, affidando la riproduzione dei dipinti al pittore Mariano Bartocci, che fu tanto scrupoloso da andarsi a cercare nel deserto i pigmenti più simili all’originale: così che del suo lavoro si sono serviti nel 1986 i tecnici del Getty Museum di Los Angeles per il restauro in situ. Questo meraviglioso modellino è in mostra all’Ermitage, accanto a un video che offre l’emozione di visitare la tomba come si presentava 3200 anni fa, al coperchio di granito rosa del suo sarcofago e al corredo che la accompagnava nella dimora eterna.
Attorno a Nefertari, uno spaccato dell’Egitto del Nuovo Regno (1550-1069 a.C.). Con il gruppo statuario della triade formata dalle divinità Amon e Mut in mezzo alle quali siede, al posto del loro figlio Khonsu, il faraone Ramesse II, e poi cinque delle 365 statue di granodiorite della dea Sekhmet (una per ogni giorno dell’anno) trovate nel tempio dei Colossi di Memnon, il naos di Seti I, una statua di Thutmosis I, alcuni dei sarcofagi lignei dipinti di una stirpe di coltivatori di loto che 800 anni dopo aveva rioccupato la tomba del principe Khaemwaset figlio di Ramesse III, le testimonianze a volte commoventi della vita nel villaggio artigianale di Deir el-Medina, abitato dagli artigiani che lavoravano nelle valli dei Re e delle Regine (i siti a Ovest di Tebe scelti per le loro sepolture dai signori del Nuovo Regno).
Una mostra che dopo l’Ermitage è attesa in Canada e negli Stati Uniti e che per il Museo Egizio vale anche come un gigantesco spot promozionale (all’ingresso un video magnifica in loop i tesori della collezione torinese). «A differenza di Leyden, dove avevamo riscosso i diritti - spiega Greco - qui abbiamo puntato sulla grande opportunità di un Paese molto attento ai beni culturali, e con un turismo in crescita. È un modo per farci conoscere, e fare in modo che i molti russi che vanno a fare acquisti a Milano trovino la loro strada per Torino».
L’aspetto culturale e il possibile business si fondono. Come ha chiaro Francesca Lavazza, membro del cda dell’azienda di famiglia che sponsorizza la mostra, ma anche da due anni presidente degli Scarabei, il gruppo di sostenitori privati dell’Egizio che ha molto aiutato il museo nella recente opera di totale riallestimento. Con Francesca, la Lavazza ha avviato un’importante collaborazione culturale anche con l’Ermitage (di cui rifornisce le caffetterie e la mensa interna), che prevede una mostra ogni anno: «Dopo quella su Mariano Fortuny, abbiamo pensato a questa, che richiama la nostra torinesità. Qui c’è un grande interesse per il patrimonio artistico e culturale italiano». Un’esperienza estetica-visiva che si prolunga nel gusto, anche questo così italiano, per la tazzina di caffè.

Corriere 16.6.17
Wu e gli altri miliardari svaniti tra i giochi di potere a Pechino
Il tycoon del Waldorf Astoria e la campagna anticorruzione del presidente Xi
di Guido Santevecchi


PECHINO Un altro miliardario cinese è scomparso, finito in carcere senza comunicazione ufficiale. Questa volta si tratta di Wu Xiaohui, presidente del gruppo finanziario Anbang, che spazia dalle assicurazioni alle proprietà immobiliari e ha in portafoglio 300 miliardi di dollari, compreso il Waldorf Astoria di Manhattan comprato nel 2016 per due miliardi in contanti.
Wu Xiaohui è stato arrestato venerdì scorso, dopo che per settimane a Pechino erano circolate voci su un’inchiesta contro di lui. Dopo diverse smentite, il gruppo Anbang ha ammesso che il presidente «non è più in grado di svolgere i suoi compiti, per motivi personali».
Wu è un finanziere con ottimi contatti nel potere comunista: ha sposato una nipote di Deng Xiaoping, il timoniere dell’apertura all’economia di mercato. Ha fatto affari a Wall Street ed è stato recentemente in contatto con Jared Kushner, il genero e consigliere di Donald Trump. Secondo quanto si dice, l’inchiesta che ha portato in cella il capo di Anbang riguarda il sistema di finanziamento del gruppo, legato alle assicurazioni personali in Cina. Ma dietro sembra celarsi una battaglia politica in vista del 19° Congresso del Partito comunista, previsto per l’autunno.
La vita dei capitani d’industria a Pechino è avvolta spesso nel mistero e nell’intrigo. Quello di Wu Xiaohui è solo l’ultimo caso di regolamento di conti nel capitalismo statale cinese. Prima di lui è scomparso a gennaio Xiao Jianhua, prelevato da un grand hotel di Hong Kong in un’azione che aveva le caratteristiche di un rapimento: da allora il miliardario Xiao non è stato più visto o sentito. C’è stata un’altra mezza dozzina di casi di arresti, condanne o sparizioni da quando Xi Jinping ha lanciato la sua campagna anticorruzione, apprezzata dalle masse.
Questi oligarchi-mandarini sono stati coltivati dal Partito comunista che aveva bisogno di imprenditori abili e spregiudicati per fare il salto nell’economia di mercato. Ma quando passano la linea rossa, Pechino «scopre» la loro corruzione.
Da New York, dove si è rifugiato, il miliardario Guo Wengui continua a seminare accuse di malversazioni su diversi personaggi della nomenklatura, anche vicini al presidente Xi Jinping. Il 19° Congresso del Partito quest’autunno s’incentra sul tentativo di Xi di garantirsi il potere dopo la scadenza del mandato nel 2022. Un gioco al massacro per riempire le caselle del nuovo Comitato centrale. In questa partita i miliardari rossi possono essere pedine.

Repubblica 16.6.17
1917 2017
Dopo l’abdicazione di Nicola II, la Chiesa di Mosca che ha funzionato da ideologia popolare di massa per il regime non sa come continuare a esistere
Santa Madre Russia resta senza Dio
La fine della monarchia coincide con la rottura del vaso mistico che da 300 anni univa Zar e Pope
di Ezio Mauro


SAN PIETROBURGO L’alba arrivò col fuoco, come in un rito pagano. Il fumo si vedeva da lontano, alla prima luce del mattino, quando cominciava a mettersi in marcia il mondo delle periferie, oltre i ponti sui canali. Nessuno voleva mancare, tutti sapevano dove andare, quel fumo era una conferma e un segnale per il giorno del lutto che saliva a prendere il posto dei giorni della ribellione. Nel cordoglio cittadino il dolore privato diventava l’onore pubblico, fondamento della coscienza comune, sigillo del mito collettivo in cui la realtà trasfigurava già mentre veniva vissuta. Cataste di legna formavano falò giganteschi per sciogliere la neve, sembravano pire sacrificali, altari primitivi in una città irreale, umida, grigia e tuttavia lucida come un metallo nelle pozze d’acqua dove marciva la neve ormai sporca. Ogni reggimento aveva schierato il suo coro attorno alla grande fossa su Campo di Marte e i canti funebri si alzarono davanti alle prime bare dei martiri della rivoluzione, che arrivavano da tutti i quartieri di Pietrogrado: 183 bare per la prima volta rosse, e non bianche come vuole la tradizione russa, travolta anch’essa dal vortice di Febbraio.
Quel giorno il rosso era dovunque, nelle bandiere, sulle coccarde, nei fiocchi tra i capelli delle ragazze, un fiume colorato dilagò sulla spianata annunciato da una distesa di fiaccole sollevate davanti agli operai di Vyborg che dopo aver portato la rivoluzione a Palazzo d’Inverno ora portavano sulle spalle i loro 51 morti alla sepoltura. Il governo provvisorio, i capi della Duma, ciò che restava dello Stato erano in prima fila, vicino agli ambasciatori dei 14 Paesi che avevano già riconosciuto il nuovo potere nato dalla rivoluzione. Da mezzogiorno i cannoni della fortezza di Pietro e Paolo sparavano a salve, a sera i marinai accesero i loro riflettori e la giornata sembrava non finire mai, chiusa dentro quel canto che ogni volta ricominciava. Borghesi, soldati, bolscevichi, ragazzi, tutta la città fece in tempo a passare sul Campo (dove ancora oggi la fiamma è accesa) chinando il capo. Mancava soltanto Dio, nei primi funerali della storia russa in cui non c’era una preghiera, nemmeno un pope o una benedizione.
Senza che nessuno lo decretasse, si era rotto il vaso mistico del potere russo, che da trecento anni teneva insieme nell’acquasanta lo Zar e la Chiesa, l’Autocrazia e l’Ortodossia, la fede e l’impero, con la spada del sovrano che proteggeva il Dio da cui riceveva autorità, legittimazione e l’unzione eterna. A Piter, a Pskov, a Mosca e a Zarskoe Celo tutti avevano visto disfarsi una dinastia mentre si svuotava la reggia e si rovesciava il trono. Ma il legame identitario, costitutivo del potere russo era così forte e così profondo che senza lo Zar la Chiesa non sapeva come esistere, dopo aver funzionato da ideologia popolare di massa per il regime, accettando la sottomissione imposta da Pietro il Grande ma ricevendo in cambio il beneficio cortigiano della religione di Stato, privilegiata e riconosciuta.
Adesso, nello sconvolgimento di quella primavera cent’anni fa, anche l’anima russa per la prima volta si scopriva vacante.
Non c’era nessun calcolo bolscevico, nell’assenza del pope a Campo di Marte, il governo era borghese, il Primo Ministro era un Principe, tra i ministri si contava appena un socialista, giunto fin lì quasi a dispetto del suo partito. Semplicemente, il sentimento popolare aveva avvertito la fine di un rito congiunto – la “sinfonia” – che per tre secoli aveva visto i turiboli della Chiesa spargere incenso ad ogni anniversario reale, quasi cento feste all’anno tra i Te Deum per nascite, morti, compleanni, matrimoni, anniversari di vittorie e incoronazioni.
Popi, arcipreti e monaci accompagnavano gli Zar ovunque, camminando subito dopo l’Imperatore. Lui si poneva la corona in capo da solo, in nome dell’autocrazia, ma chi gliela consegnava nelle mani tra il canto dei cherubini era il Metropolita, e tutto avveniva nel sacro splendore della cattedrale della Dormizione, a Mosca, mentre tutt’attorno nelle scuole della Russia il santo catechismo insegnava ai bambini a pregare “per la salute del corpo e dell’anima dello Zar”, rigettando la ribellione al sovrano come un peccato, perché sta scritto che “chiunque resiste al potere resiste al disegno stabilito da Nostro Signore”.
Il disegno divino veniva testimoniato sull’altare, realizzato dal trono.
Segue nelle pagine successive
Non c’era nessun calcolo bolscevico il primo ministro era un Principe Al Campo di Marte si celebrano i primi funerali senza preghiere e benedizioni
Lo Zar si sentiva non solo eletto dal Signore ma interprete della sua volontà con la guida effettiva della Chiesa dal 1721, quando Pietro abolì il Patriarca nominando un Procuratore del Santo Sinodo per gestire la gerarchia, le nomine, le entrate e le uscite. Il Sovrano tramite di Dio, per trecento anni. E alle origini della Rus, addirittura, il Gran Principe che sceglie il Dio per il suo popolo, obbligandolo a convertirsi in massa battezzandosi nelle acque del Dnepr dove alcuni entrarono fino al collo, altri fino al petto. Perché in quella stessa nuvola d’incenso che Nikolaj II vedeva innalzarsi ogni domenica a fianco del suo baldacchino nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo (ancora oggi immenso, e vuoto) mille anni fa era entrato per primo Vladimir il Bello, signore incontrastato col grande mantello, la lunga barba e la corona del principe guerriero.
Portarono la spada, il fuoco e la croce e Vladimir il Sole chinò il capo davanti al Dio dei cristiani, lui che aveva a Kiev 800 mogli, 12 figli e tutti e sei gli idoli delle tribù radunati sulla collina davanti al suo palazzo. Sono andato a cercare i loro segni sulla collina di Boricevu, dove nelle feste i contadini pregano ancora il fuoco: Veles signore della terra e dell’acqua, Khors dio del sole vecchio, Dazbog figlio di Svarog padrone del cielo, Stribog che comanda il vento, Simargl che conosce il mistero della fertilità, Mokos che ferma pioggia e tempesta, e soprattutto Perùn terribile, dio del fulmine e del tuono. Tutto ciò che in Russia riguarderà per un millennio lo spirituale e il temporale, l’anima e la corona, era già racchiuso e annunciato da quel primo atto. Gli ambasciatori del Gran Principe che partono per il mondo allora conosciuto cercando la religione non più vera, ma più bella, e la trovano a Costantinopoli dove durante la messa il tetto sembra aprirsi per permettere al cielo di toccare la terra; il Sovrano che converte in blocco il suo popolo a Cristo, d’imperio; e quegli idoli prima adorati e poi distrutti su questa collina di Boricevu, ma sempre temuti nel substrato di superstizione pagana che sopravvive nella radice popolare della religiosità russa.
In quel limite estremo tra la mistica e la superstizione, precipita anche la Corte, nei due anni che precedono il grande crollo. Nello smarrimento del loro destino, lo Zar e la Zarina cercano un contatto diretto col divino per trovare quelle certezze che il potere temporale non garantisce più: e il potere spirituale si prende la sua rivincita sull’Autocrate, distorcendosi a divinazione, occultismo, sacra magia che condiziona e certifica ogni suo passo verso la sventura. Tutto l’inferno imperiale che inghiotte la Corte è circondato da un sentimento malato del sacro: le profezie di morte di San Serafim di Sarov, la domanda del Pope Gapon nella domenica di sangue (“Sovrano, sei conforme alle leggi divine”?), l’invocazione finale di Nikolaj II alle truppe dopo l’abdicazione (“che il santo martire, il trionfante Georgij, vi guidi alla vittoria”), le immagini dei santi che Alix la Zarina distribuisce agli uomini della scorta che se ne vanno per sempre da Zarskoe Celo, le ore che lei trascorre da sola nella cripta sotterranea della Feodorovski Sobor, la chiesa della Guardia, nei giorni della rinuncia al trono, fino alla testa di Cristo che il ministro Protopopov, favorito di Corte, tiene in ufficio agli Interni, per interrogarla prima di ogni decisione scrutando gli occhi che si aprono e si chiudono secondo il bisogno.
Smarrita senza più il trono da servire e insieme influenzare, la Chiesa si scopre autonoma per la prima volta da secoli. È un breve spazio nel tempo, nella storia, nella Russia. Ma genera il primo gesto di libertà, forse di conformismo, comunque di indipendenza, che produce l’inaudito, rompendo per sempre una liturgia uguale nei secoli: la Chiesa cancella l’invocazione per lo Zar e per la sua famiglia dalle preghiere pubbliche durante la messa. Era un rito cantilenante, sempre fisso. Il diacono, con la sua voce da basso, intonava la supplica: “Al nostro Sovrano Imperatore”. “Lunga vita”, lo soverchiava il coro dei fedeli, con un grido che faceva muovere le fiammelle dei mille ceri accesi nei cento candelabri di ogni chiesa, non per illuminare ma per ardere.
La separazione era compiuta, e la Chiesa ormai sciolta e sola si incamminerà verso il martirio che riporterà un Dio sofferente in Russia, dopo questa breve assenza nel vuoto di sovranità. Davanti allo sconvolgimento del Febbraio, l’ortodossia decide di appoggiare il nuovo potere, e dopo aver destituito i vescovi di Mosca, Tobolsk e Pietrogrado fedelissimi di Rasputin, dal Sinodo “otto umili Padri” invitano già a marzo i figli di Dio ad appoggiare il governo provvisorio: “Assoggettatevi, perché ogni comando viene da Dio”. Si convoca un Concilio, a giugno il Congresso del clero chiede che alla fede ortodossa venga riconosciuto il diritto di supremazia, fino al punto di stabilire che il Capo dello Stato sia un credente ortodosso.
Il futuro Capo dello Stato era tutt’altro che un credente, anche se era stato battezzato regolarmente, come sua moglie Nadja, e si era addirittura sposato con una cerimonia religiosa, accontentando la suocera Elizaveta, cristiana convinta. In quei giorni Lenin chiuso nella sua stanza al secondo piano del palazzo della Kshesinskaja sta misurando il rapporto di forza con il governo. Pensa di organizzare una grande manifestazione bolscevica di operai e di soldati ma di fronte alle voci di un richiamo di truppe nella capitale da parte di Kerenskij il congresso dei Soviet proibisce tutti i raduni pubblici a Pietrogrado per tre giorni. Ilic si sente controllato, minacciato, pedinato nel biancore estivo che esplode nelle notti di Piter, decide di prendersi qualche giorno di riposo con Nadja nella dacia dell’amico Bonch-Bruevich al confine della Finlandia. Legge, cammina, scrive. Si accorge di quel che si sta muovendo dentro la Chiesa, ma non interviene, la sua partita è temporale, per la sfida spirituale c’è tempo, e d’altra parte Lenin ha già detto da anni tutto quello che pensa di Dio: “Chiesa e clero hanno una funzione di classe come puntelli ultra-reazionari della borghesia”, i popi “sono feudatari in sottana che difendendo la loro posizione di predominio fanno un’aperta difesa del medioevo”, ”il capitale organizza l’abbrutimento del popolo per mezzo dello stupefacente religioso”, dunque “non un soldo dei cittadini deve andare a questi sanguinari nemici del popolo che offuscano la coscienza popolare”. Quanto alla ricerca di Dio, bisogna lasciarla da parte, “perché ogni idea religiosa, ogni civettare con il buon Dio è la più pericolosa delle abominazioni, il più infame dei contagi”.
Preoccupata, la Chiesa fa appello a tutti perché si superino le discordie e cessi il fratricidio: ”Troppi hanno dimenticato Dio, e con lui la coscienza e la patria”. Ma bisogna che il comunismo prenda il potere con l’Ottobre perché la Chiesa acquisti coscienza del martirio e della santità. Pochi giorni dopo, il 21 novembre, il metropolita Vladimir s’inchina davanti all’icona della Divina Madre nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, dove il popolo dei fedeli si è radunato per assi- stere alla resurrezione del Patriarca di tutte le Russie, abolito da Pietro il Grande. Il nome è chiuso nello scrigno esposto alla benevolenza dell’icona, insieme ad altri nominativi selezionati dal Concilio. La sorte e la mano dello starec Aleksej scelgono Tichon. Monaci e popi si inchinano a baciargli l’anello, ma lui è consapevole di ciò che lo aspetta: “Quante lacrime dovrò inghiottire anch’io e quanti lamenti dovrò piangere, nei tempi bui che ci aspettano”? È un crescendo tragico. “Il calice della collera di Dio trabocca su di noi”, rivela la Chiesa, che comincia a parlare di “sacrilegio”, di “ateismo” e arriva a evocare il Maligno: “Compaiono nell’anima russa i semi dell’Anticristo”. Toccherà all’”umile” Tichon annunciare dalla sua cattedra patriarcale la “persecuzione” contro la verità divina e infine denunciare l’”opera satanica” dei bolscevichi con la suprema scomunica: “Con il potere che ci viene da Nostro Signore noi vi proibiamo di accostarvi ai sacramenti di Cristo, e lanciamo contro di voi l’anatema, se ancora
portate un nome cristiano”.
Il nuovo governo esproprierà subito le terre della Chiesa e i monasteri, confischerà le sue opere pie, vieterà l’insegnamento della religione e passerà le scuole confessionali allo Stato, annullando gli effetti civili del matrimonio ortodosso e introducendo il divorzio. Ma il 13 novembre arriverà il primo omicidio di un pope, il parroco di Santa Caterina Ioann Kochurov, arrestato dai bolscevichi durante una processione e fucilato senza processo nei campi di Zarskoe Celo. Nei primi mesi della rivoluzione verranno imprigionati e giustiziati il metropolita della Galizia, i vescovi di Selenginsk, di Tobolsk, di Perm, di Nezinsk, di Sarapul, di Vjazma, di Kirillov. Nei primi anni saranno fucilati 20 mila sacerdoti e parrocchiani. Quando arriva il decreto sulla separazione della Chiesa dallo Stato il Concilio parlerà di “attentato consapevole” alla sopravvivenza dell’ortodossia, Tichon sceglierà segretamente i suoi successori nel caso di una scomparsa improvvisa e la Chiesa lancerà un appello alla “Svjataja Rus”: “Accadono avvenimenti che non si sentivano da secoli: fatti coraggio, o Santa Russia, sali sul tuo Golgota”. È la denuncia di “uomini senza fede alcuna”, commissari del popolo che hanno deciso “una completa sopraffazione della coscienza dei cristiani”. Bisogna reagire, difendere le chiese, altrimenti “toglieranno gli ornamenti sacri alle icone miracolose”, “non si celebreranno più i misteri”, “i morti saranno sepolti senza benedizione” e infine “tacerà il suono delle campane”. Intanto, processioni interrotte con la forza, icone bruciate, scritte e dipinti futuristi sui muri dei conventi e dei monasteri, urne dei Santi profanate, finché il governo cancellerà le reliquie disponendo il loro trasferimento nei musei o la sepoltura definitiva per mettere fine “a questo culto di cadaveri e fantocci”.
La fede si ritira nei cuori, si ribella e si sottomette secondo la pressione del terrore, ondeggia come le fiammelle dei ceri riuniti a grappoli davanti alle icone dove tutto è sacro, la presenza del Santo nel dipinto, l’acqua benedetta mescolata ai colori, le immagini consacrate a Dio che da lui ricavano la forza di guarire le malattie, favorire i raccolti, cacciare gli spiriti malvagi dalle case dove sono perennemente esposte nell’angolo più alto. In quelle fiammelle sta il mistero della fede in Russia dopo il ’17: esile e tremolante, catturata e compromessa e tuttavia accesa per trasmettere il segreto del fuoco sacro a chi un giorno verrà. Chissà cosa si percepiva di tutto questo, nell’odore di cera e d’incenso prigioniero nelle chiese che via via chiuderanno, cent’anni fa. Eppure, tutto era annunciato fin da quel giorno lontano mille anni, quando sulla collina di Kiev tutti gli idoli furono fatti a pezzi e distrutti e sopravvisse come una profezia paurosa soltanto Perùn terribile, “colui che frantuma”, il dio della distruzione. Lo legarono alla coda di un cavallo per portarlo al Dnepr, lo gettarono nel fiume e dodici uomini lo colpirono coi loro bastoni, ma non voleva affondare e tutti videro alta sull’acqua la grande testa d’argento e i baffi d’oro, intatta e dunque eterna. La Russia sapeva. Ma sapeva anche la verità che Bulgakov fa pronunciare sottovoce al Professore, su una panchina degli stagni Patriarshie qualche anno dopo e per l’eternità: “Tengano presente che Gesù Cristo è esistito”.

Repubblica 16.6.17
L’addio di Zoro alla Rai “Mi aspettavo una difesa dagli attacchi di Alfano”
di Concetto Vecchio


ROMA. Diego Bianchi, il padre di Gazebo, ieri pomeriggio ha rinnovato l’abbonamento in Curva Sud al Roma store di piazza Colonna. «È l’unica tessera che mi è rimasta», dice, e la infila nel portafoglio.
Bianchi, perché ha lasciato la Rai per La 7?
«È stato inevitabile seguire Andrea Salerno: lavoriamo insieme da dieci anni, è sempre stato parte della squadra. Non farlo avrebbe significato disperdere un patrimonio».
Rai3 quest’anno non l’aveva valorizzata abbastanza?
«Devo tutto a Rai3, li ringrazio per le opportunità che ho avuto. Ma ogni anno abbiamo dovuto guadagnarci il nostro spazio. Cinque edizioni, cinque cambi di palinsesto, a Natale non sapevamo se proseguivamo o meno. A un certo punto abbiamo condiviso la striscia con Pif e il nostro spazio si è ridotto. La stagione è finita a metà maggio, sarei andato volentieri fino alle elezioni».
Quanto ha pesato il caso Alfano?
«Non ci ha cacciato lui dalla Rai. Ma si sa che l’ha chiesto. Ha minacciato una causa civile e penale, sostenendo che lo abbiamo diffamato per tre anni, la Rai ha retto, ma ci sarebbe piaciuta una protezione maggiore nei nostri confronti».
Ovvero?
«Ci sono stati due episodi molto gravi. Nel primo Alfano ha fatto marcare a uomo un nostro operatore che lo seguiva per un servizio, nel secondo caso ci ha negato l’accredito. Una mossa poco furba, perché alla fine nessuno ha parlato della conferenza stampa sulla legge elettorale e tutti solo della nostra esclusione».
Però la Rai non l’ha difesa?
«Definì l’episodio “spiacevole”. Ma quando ha minacciato la causa la Rai ha taciuto del tutto. Lì l’azienda è mancata».
Non lo avevate preso troppo di mira?
«Ma Alfano è un potente. Nessuno della sua generazione può vantare di essere stato ministro della Giustizia, dell’Interno e degli Esteri, anche se è a capo di un partito che è durato meno di Gazebo. Lui non ha mai digerito il video con cui dimostravano che la polizia aveva dato l’ordine di caricare gli operai della Acciaierie di Terni che protestavano in piazza Indipendenza. Alfano lo negò in Parlamento: ma il servizio provava invece il contrario».
Pensa che a La 7 avrebbe avuto più sostegno?
«Conosco bene il direttore de La7, con Andrea Salerno mi sento molto tutelato».
Ha conosciuto Cairo?
«Ci siamo visti una volta. Un uomo concreto, conosceva benissimo Gazebo, mi ha colpito».
Quindi Cairo seguiva Gazebo?
«Sì, al punto che se l’è preso».
Si chiamerà ancora Gazebo?
«No, perché la testata è in comproprietà tra Rai e Fandango».
Cosa farà a La 7?
«Abbiamo ancora voglia di raccontare il Paese, probabilmente andremo in prima serata. Vorrei tornare a fare le cose che mi sono venute meglio in questi anni: i reportage, le inchieste sul campo. Non vorrei limitarmi a fare quello che legge i tweet. La striscia quotidiana mi stava stretta, m’imponeva di stare a Roma cinque giorni su sette».
Guadagnerà molto di più?
«Come in tutti i passaggi d’azienda, ma le assicuro che il tetto dei 240mila euro non mi ha mai riguardato».
La sinistra italiana è più divisa che mai. Lei è disorientato?
«Sì, ma sono fiducioso, perché avrà presto l’obbligo di trovare un minimo comun denominatore. La destra l’ha fatto. Sul sovranismo, sugli immigrati. Ed è più forte che mai. Va dai Cinquestelle a Forza Nuova, che ha appena aperto una sede dietro casa mia».
Cioè lei spera in un’alleanza che va da Renzi a Bersani?
«È molto ingenua, detta così. Ma abbiamo alternative? Poi, certo, molto dipenderà dalla legge elettorale, ma uno del Pd e uno di Civati hanno più cose in comune di un elettore Pd e di uno M5S».
Questo sforzo spetta a Renzi?
«Sì, è il segretario del partito più grande, ma mi rendo conto che lui e D’Alema sono tutto fuorché inclusivi».
Pisapia lo è?
«Sì, ma non vedo mia figlia che attacca il suo poster nella cameretta ».
Su quali temi il centrosinistra dovrebbe ritrovare l’unità?
«Accoglienza, diritti civili, cultura, lavoro. Non possiamo permettere che la classe operaia voti a destra».