Corriere 15.6.17
Facebook
Giallo sui dati dei clienti
Così il social network ha ingannato l’Europa
di Federico Fubini
Quando
nel febbraio 2014 Facebook annuncia l’acquisizione di WhatsApp, Mark
Zuckerberg prende un impegno che avrebbe ripetuto fino all’autunno
scorso: l’azienda comprata, dice il fondatore del più vasto social
network al mondo, «continuerà ad operare con indipendenza» dentro il
nuovo conglomerato.
Tre anni dopo, la Commissione europea ha
affibbiato a Facebook una multa da 110 milioni di euro per aver fatto
esattamente l’opposto. Nel 2016, violando gli impegni presi e
contraddicendo le spiegazioni tecniche offerte fin lì, Zuckerberg ha
avviato un’inversione di rotta nella politica sulla privacy riguardo a
WhatsApp. I dati personali degli utilizzatori della rete di messaggi da
allora iniziano a essere condivisi con quelli di Facebook. È da agosto
del 2016 che WhatsApp lancia aggiornamenti sui termini di servizio e le
politiche di privacy che includono la possibilità di collegare i numeri
di telefono dei clienti del servizio ai loro profili sul social network.
Può
apparire un dettaglio insignificante, un «accetto» di più da cliccare
sullo smartphone pur di liberarsi al più presto di una maschera dallo
schermo e procedere con l’uso di un servizio. È invece una vicenda dai
molti risvolti. Essa rivela come i dati di miliardi di persone comuni —
decine di milioni di italiani — sono ormai così essenziali per il
modello di business degli oligopolisti della rete che in loro nome
accade l’imprevedibile. Solo fino a pochi anni fa, sembrava che Facebook
o Google dessero valore a queste informazioni sugli utilizzatori solo
per mirare meglio e rendere più efficaci le inserzioni pubblicitarie.
Oggi il progresso nell’intelligenza artificiale permette anche altri usi
in grado di generare nuove fonti di ricavo: fra questi, l’analisi dei
testi dei messaggi attraverso algoritmi per valutare la personalità di
un utilizzatore e fargli balenare servizi potenzialmente interessanti
per lui.
Facebook ha scelto di fuorviare Bruxelles nell’affare
WhatsApp, molto probabilmente, proprio perché i dati su numeri enormi di
persone normali sono diventati tanto preziosi. Questa vicenda rivela
così lo squilibrio di poteri fra i giganti digitali e gli uffici che (in
teoria) dovrebbero vigilare sui loro eventuali abusi. Essa mette a nudo
le asimmetrie nel controllo delle informazioni e nella comprensione dei
risvolti tecnologici fra regolati e regolatori. Non è un caso se
Facebook si è dimostrata disposta a mentire alla Commissione Ue in un
modo che il governo italiano, presidente del Gruppo dei Sette, non
potrebbe mai permettersi nei negoziati sulle crisi bancarie.
Nell’annunciare
la multa, pochi giorni fa, Bruxelles ha sottolineato come i tecnici di
Zuckerberg abbiano deliberatamente ingannato i controllori
dell’Antitrust: «Facebook — notano gli uffici di Bruxelles — era
consapevole della rilevanza della combinazione delle piattaforme sugli
utilizzatori per la valutazione della Commissione», che doveva
autorizzare o bloccare la fusione fra i due gruppi. Se dunque Facebook
ha agito così con la più grande autorità di controllo Antitrust al
mondo, è perché aveva correttamente calcolato che poteva permetterselo.
La penalità sarebbe stata così insignificante che il gruppo di
Zuckerberg ha rinunciato ai diritti di difesa — così guadagnando uno
sconto sulla pena — non appena gli sono arrivate le contestazioni.
Risultato:
i 110 milioni di euro che ora Facebook pagherà all’Unione Europea sono
pari allo 0,56% del prezzo di acquisto di WhatsApp; per la precisione,
sono uguali ai ricavi che Facebook registra in sette ore di normale
attività di un giorno feriale. Per parte propria, la Commissione Ue
avrebbe potuto portare la multa fino quasi al doppio di quella cifra, ma
ha rinunciato. Non ha insistito perché avrebbe dato disco verde alla
fusione fra i primi due protagonisti mondiali della messaggeria
istantanea comunque, anche se Zuckerberg le avesse detto tutta la
verità.
Dal resto, dalle stesse parole con cui Bruxelles autorizza
l’operazione nel 2014, risulta chiaro i suoi tecnici come non avessero
capito tutta la posta in gioco. «Facebook Messenger e WhatsApp non sono
concorrenti stretti», si legge. Quanto ai dati sugli utilizzatori, la
Commissione spiega che non è competente per la tutela della privacy e
non sembrano esserci «questioni di concentrazione» industriale nel
mercato pubblicitario. Zuckerberg naturalmente già allora era molto più
avanti. Non può essere un caso se accetta di pagare per WhatsApp 22
miliardi di dollari, una cifra pari a 55 volte i ricavi di un’azienda i
cui profitti netti nel 2014 erano ancora trascurabili. Così Facebook ha
inglobato un potenziale concorrente prima che potesse diventare temibile
e guadagna un nuovo punto d’osservazione e fruizione dei dati degli 1,2
miliardi di utilizzatori attuali del servizio.
Ora le autorità
Antitrust dovranno ripensare ai loro strumenti di vigilanza del mercato e
a come usarli. Nota Monique Goyens, direttore generale
dell’Organizzazione dei consumatori europei: «È inaccettabile che le
persone comuni siano esposte all’abuso dei loro dati da parte di
Facebook. Le autorità Antitrust devono collaborare di più con quelle per
la tutela della privacy».