Il Fatto 15.6.17
Pd, bilancio in rosso per 9,5 milioni: ne ha buttati 14 per la campagna “Basta un Sì” al referendum
I conti dem rivelano oltre 12 milioni di spese elettorali. I gruppi parlamentari hanno messo altri due milioni
Pd, bilancio in rosso per 9,5 milioni: ne ha buttati 14 per la campagna “Basta un Sì” al referendum
di Wanda Marra e Marco Palombi
L’ordalia
del referendum costituzionale rischia di costare assai cara al Pd: aver
puntato tutto sul voto del 4 dicembre, infatti, ha portato Matteo Renzi
e soci a spendere sulla campagna per il Sì soldi che il partito non
aveva. Il bilancio 2016, svelato ieri da Huffington Post dopo
l’approvazione in Direzione, si chiude con un rosso da 9,5 milioni di
euro, che andrà coperto nel prossimo biennio a colpi di tagli
sanguinosi, soprattutto al personale, visto che dal 2017 non c’è più il
finanziamento pubblico (ne consegue, peraltro, che un rilancio
dell’Unità a carico dei democratici è impossibile).
Nonostante le
professioni di sobrietà arrivate dai vertici del partito nei mesi scorsi
(“spenderemo massimo 6 milioni”) e il generoso aiuto degli imprenditori
d’area (il finanziere Davide Serra è stato l’unico, però, a dichiararlo
ufficialmente), la faraonica campagna referendaria “Basta un sì” ha
ammazzato i conti del partito: incrociando il bilancio del Pd e i
rendiconti dei gruppi parlamentari appena pubblicati, si arriva a una
spesa di almeno 14 milioni di euro, quattro in più – per dare un’idea –
di quanto al Nazareno si spese per la campagna elettorale delle
Politiche del 2013, quando però c’era ancora un ricco “rimborso” per
ogni voto ricevuto.
Sta di fatto che i democratici avevano chiuso
il 2015 con un bilancio in sostanziale pareggio e disponibilità liquide
per quasi 10 milioni e ora sul conto si ritrovano un milione e 700mila
euro e il rosso di cui sopra. La nota integrativa non lascia dubbi: “Il
decremento delle disponibilità liquide è legato ai maggiori esborsi che
il partito ha avuto nell’esercizio 2016 e legati principalmente ai costi
della campagna referendaria”.
I numeri aggregati sono questi. Nel
bilancio del partito firmato dal tesoriere renziano Francesco Bonifazi
risultano spese per campagne elettorali nel 2016 per 11,6 milioni di
euro: l’anno scorso ci sono state anche le amministrative (Roma, Milano,
etc) per le quali non risultano però contributi straordinari del
partito. “Basta un sì”, insomma, dovrebbe aver assorbito gli 11 milioni e
mezzo delle spese elettorali dichiarate dal bilancio democratico e pure
quasi tutti i 763 mila euro classificati come “manifestazioni, eventi e
servizi elettorali in genere”. I soldi che mancano per arrivare a 14
milioni li hanno messi i gruppi parlamentari: “La campagna informativa
sulla Riforma costituzionale e il referendum costituzionale del
4.12.2016” è costata “1.416.384 euro”, si legge nel rendiconto dei
deputati Pd. Con gli eventi sul territorio, le altre campagne di
comunicazione, gli spazi informativi alla Festa nazionale dell’Unità
intitolata al Sì alla riforma Boschi si arriva a circa due milioni
(600mila euro dal gruppo del Senato, il resto da quello della Camera).
Con
questi soldi – oltre al mega-compenso del guru Jim Messina, che ha
appena terminato di rendere i suoi servigi a Theresa May, dopo aver dato
lustro alla campagna di Hillary Clinton – sono stati pagati gli
innumerevoli eventi pubblici di “Basta un sì” (il bilancio ne cita “tra i
principali” la bellezza di 52) e le campagne “porta a porta”: solo
spedire 2,5 milioni di lettere agli italiani all’estero e consegnare 16
milioni di volantini a quelli residenti in patria dovrebbe essere
costato ai democratici almeno 7 milioni di euro.
Il tesoriere
Bonifazi, sempre con l’Huffington, non pare preoccupato: “La gestione
caratteristica è virtuosa. La perdita, sulla base del piano industriale
asseverato da uno dei migliori studi italiani di consulenza (lo studio
Pirola – Pinnuto – Zei, ndr) porta all’assorbimento della medesima tra
l’esercizio 2017-18. Percorreremo con forza le strade del potenziamento
del funding e del 2×1000, di recupero delle somme ancora dovute da una
parte minoritaria di parlamentari, nonché con una necessaria ulteriore
diminuzione dei costi”.
Quanto alle donazioni e al 2 per mille
difficile salire abbastanza, mentre tagliare il personale o la spese del
partito è inevitabile, anzi è un processo già iniziato: a Genova, per
dire, avevano chiesto 100mila euro per la campagna elettorale e non li
hanno avuti e ora il candidato del centrosinistra Crivello si trova
oltre 5 punti dietro a quello del centrodestra Bucci. Non è antipatia
per il candidato in odor di Bersani del capoluogo ligure: il futuro che
attende il partito è questo e sta scritto nei numeri.
Il bilancio
del Pd, per effetto dell’abolizione del finanziamento pubblico, si
contrae da anni: il “fatturato” dem nel 2013 era di quasi 49 milioni di
euro per la metà dovuti a rimborsi elettorali; nel 2014 si era già scesi
a 27,3 milioni (12 milioni dai rimborsi), diventati 22,2 nel 2015 e
venti milioni al 31 dicembre 2016, quando è stata registrata l’ultima
tranche di soldi pubblici (2,6 milioni di euro). L’anno scorso, però, il
bilancio s’è contratto e le spese invece sono esplose per pompare la
grande scommessa renziana: quasi 30 milioni, che hanno causato il rosso
da nove milioni e mezzo.
Spariti i soldi pubblici, le fonti di
finanziamento più rilevanti del partito – ora e per il futuro – sono
tre: il 2 per mille (6,4 milioni nel 2016), i contributi dei
parlamentari (6,6 milioni) e le donazioni di persone fisiche e aziende
(quasi un milione e mezzo). Recuperare 9 milioni in due anni con la
prospettiva, peraltro, di veder diminuire il numero dei parlamentari (e i
relativi contributi) significa una cosa sola: l’attività del partito
sarà ridotta al lumicino e il costo maggiore lo pagheranno i 184
dipendenti (56 in aspettativa e 13 in distacco), che costano la non
piccola cifra di quasi 8 milioni l’anno.
Per poter fare la
campagna per le prossime elezioni politiche, insomma, Matteo Renzi, più
che organizzare cene di finanziamento, dovrà aprire un ristorante a
ciclo continuo oppure cambiare metodo: come dimostrano i quasi 20
milioni di No al referendum, i soldi non sono tutto.