Il Fatto 14.6.17
Serve Lenin o niente rivoluzione
Al bivio - Uno non vale uno: per abbattere il sistema, anche da non violenti, deve decidere Beppe
di Massimo Fini
Dare
ora addosso ai grillini, anche da parte di coloro che in qualche modo
simpatizzano per questo movimento (per gli altri è stata una vera orgia,
un urlo liberatorio per lo scampato pericolo, rilanciato, oltre che dai
politici, da tutti i media nazionali – quante interviste a Pizzarotti e
a Cassimatis abbiamo dovuto sentire?) per gli errori commessi è
ingeneroso e maramaldesco. Ma poiché questi errori, almeno quelli di
fondo, li ho denunciati in tempi non sospetti, quando il grillismo era
alle stelle, mi permetto di tornarci sopra adesso, nel momento di una
débâcle.
1) Un movimento rivoluzionario che vuole abbattere il
sistema, sia pur in modo pacifico e non violento, quando è allo stato
nascente non può che essere dirigista, ‘leninista’. Non credo che Lenin e
Trotsky consultassero i loro militanti prima della presa del Palazzo
d’Inverno. Allo stato nascente di una rivoluzione non esiste “l’uno vale
uno”. Grillo se ne è accorto in ritardo e ha cercato di riprendere
nelle sue mani il movimento, ma questo ha sconcertato i suoi militanti
oltre a dare, per la palese contraddizione fra la teoria e la pratica,
facile materia d’attacco agli avversari.
2) Il secondo errore
consegue dal primo. Un movimento che può contare su otto milioni di voti
non può dare la parola decisiva a meno di 150 mila iscritti.
Ciò
premesso queste elezioni ci dicono che a un 50% degli italiani (cioè del
complesso del corpo elettorale scontato delle astensioni e di circa il
dieci per cento andato ai Cinque Stelle in queste Amministrative) questo
sistema partitocratico, che ci ha portato al fosso, sta bene, che
vogliono continuare sull’andazzo di sempre. Ma anche qualora le
astensioni, che sono aumentate del 7% circa e che manifestano un totale
disgusto per la classe politica, dilagassero ulteriormente nulla
cambierebbe. Una minoranza avrebbe comunque la meglio sulla maggioranza.
Sono gli scherzi, i trucchi, le truffe della democrazia. Un sistema a
cui personalmente ho finito di credere da molto tempo (Sudditi.
Manifesto contro la Democrazia, 2004).
Come se ne potrebbe uscire?
Con una rivoluzione violenta. Le rivoluzioni sono fatte in genere da una
minoranza figuriamoci se non sarebbero alla portata di una maggioranza.
Ma non è possibile. Sostanzialmente per due motivi. Il primo, minore, è
che la nostra popolazione è troppo vecchia (45 anni di media contro,
poniamo, i 32 della Tunisia una delle protagoniste delle ‘primavere
arabe’) per avere l’energia per scendere sul campo, sul terreno fisico.
Il secondo è che l’Italia è integrata all’Europa e persino l’Europa, se
non gli stessi Stati Uniti a cui il Vecchio continente rimane
sottomesso, ci manderebbe i carri armati. I russi poterono fare la
rivoluzione bolscevica senza interferenze, gli italiani quella fascista.
Oggi nessun Paese occidentale è più padrone del proprio destino.
Inoltre
la democrazia, che è sostanzialmente un sistema di procedure e di
parole, ha mille modi per difendersi. In Italia la democrazia, che da
noi non è nemmeno una democrazia ma una partitocrazia, ha innocuizzato
prima la rivolta che si manifestò nella breve stagione di Mani Pulite,
poi la Lega di Bossi e innocuizzerà, come tutto tende a far prevedere,
anche il Movimento 5 Stelle o fenomeni minori come è stato quello dei
‘forconi’.
Per questo da tempo preferisco concentrarmi sull’Afghanistan o sull’Isis. Perché almeno lì parlano i fatti, non le parole.