Corriere 9.6.17
Firenze o Siena? E la Crusca infilzò lo storico
di Gian Antonio Stella
E
se Alessandro Manzoni avesse risciacquato i cenci nell’Arbia? La
domanda, cheal posto dell’Arno («nellecui acque risciacquai i miei
cenci») tira in ballo quel torrente senese citato da Dante a proposito
della sanguinosa battaglia di Montaperti del 1260 («Lo strazio e ‘l
grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso») spunta fuori
un’altra volta. Semprelì si torna: l’italiano è nato a Firenze o a
Siena?
Discussione antica. E riproposta sulla rivista online
dell’Accademia della Crusca da Rita Librandi, docente di Storia della
lingua italiana e Linguistica italiana all’«Orientale» di Napoli, membro
della celeberrima istituzione nata nel 1585 dalla «brigata dei
crusconi» e presidente dal gennaio 2012 dell’Associazione per la storia
della lingua italiana. La quale, dopo avere speso buone parole per Il
Tempo e la Storia , la trasmissione della Rai «per altri versi ben
costruita e particolarmente encomiabile per le sue finalità educative»,
infilza uno dei più noti storici italiani, Lucio Villari. Reo di aver
partecipato a una puntata sostenendo la tesi senese.
Autore di
molti libri (da Machiavelli. Un italiano del Rinascimento a La roulette
del capitalismo , da Bella e perduta ad America amara ), collaboratore
di lunga data di molti giornali, noto agli amanti del cinema nelle vesti
del padrone di casa ne La terrazza di Ettore Scola, l’ottantatreenne
professore già docente a Roma Tre non è neppure nominato nel breve
saggio dell’accademica. Rispetto, forse. Il giudizio di Rita Librandi
sull’«illustre storico dell’età contemporanea» è però micidiale.
A
partire dalle «imprecisioni gravi». Certo, ammette, «sarebbe eccessivo e
forse ingiusto soffermarsi dettagliatamente» su quelle imprecisioni:
«Non possiamo, però, esimerci dal sottolineare la sicurezza con cui si
dava per autentico un luogo comune infondato e da tempo confinato solo
alle conversazioni salottiere». Insomma, un conto è discuterne a tavola
con gli amici, accusa la linguista, un altro divulgare una tesi in una
trasmissione culturale televisiva.
Ecco i passaggi sotto accusa.
Conduttrice: «Il fiorentino che usano i letterati, i mercanti, i notai
per i loro affari, i commerci, è già il nostro italiano?». Professore:
«Beh, diventerà gran parte del nostro italiano, ma anzi si dice non il
fiorentino forse il senese è quella dove questa lingua si è un po’ più
elaborata, si è un po’ più raffinata, perché il fiorentino in senso
stretto, come diceva Carducci, è un po’ sciocco, cioè un po’, diciamo,
insipido, sciocco in questo senso…». Conduttrice: «Perché proprio il
senese?». Professore: «… un po’ insipido, basta pensare alla poesia
Davanti a San Guido , dove dice appunto che è sciocco questo fiorentino.
Il senese è una lingua già elaborata che si estende un po’ in Toscana e
diventa…» Conduttrice: «Quindi una lingua più raffinata rispetto al
fiorentino che si utilizzava all’epoca».
Non l’avessero mai detto!
Vabbé la conduttrice, ma il professore! «A parte la citazione
palesemente erronea di Carducci, che in Davanti a San Guido contrappone
“la favella toscana” che usciva, con accento della Versilia, dalla bocca
della nonna Lucia, alla favella “sciocca” di chi si sforzava di
imitare, anche senza essere fiorentino o toscano, le scelte linguistiche
manzoniane, la conclusione che trasforma il senese in lingua “già
elaborata, che si estende un po’ in Toscana” e “più raffinata rispetto
al fiorentino che si usava all’epoca” (ma quale epoca?) lascia veramente
senza parole».
«Gli storici della lingua, e con loro la gran
parte degli studenti che frequenta i corsi di laurea in Lettere», scrive
la Librandi affondando il coltello, «sanno bene che la prima
codificazione del nostro italiano è da ricondurre alle indicazioni di
Pietro Bembo, che nella sua trattazione sulla lingua, pubblicata nel
1525, consigliò con successo agli scrittori italiani di prendere a
modello per i propri testi la lingua di Boccaccio per la prosa e di
Petrarca per la poesia: da qui muove la nostra prima unificazione
linguistica e su quel fiorentino trecentesco, senza alcun intreccio con
le vicende del senese, si fonda il nostro italiano».
Letale la
chiusa: «È evidente che non tutti gli studiosi sono tenuti a conoscere
con precisione tematiche che non rientrano tra i loro oggetti di studio,
ma dispiace constatare come passaggi della nostra storia linguistica,
che sono anche passaggi essenziali della nostra storia culturale, non
siano patrimonio condiviso almeno dagli intellettuali».
Il
presidente onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini, lui
pure come Lucio Villari a lungo docente a Roma Tre e autore con Vittorio
Coletti del celebre Dizionario , è meno tranchan t. Sottolinea ad
esempio che l’Università di Siena, fondata nel 1240, è più antica della
sorella fiorentina ed «è stata la prima ad avere, nel 1588, una cattedra
di italiano. Un titolo forte dei senesi. Però…»
Però il ruolo
centrale è di «quel geniaccio di Dante e della vivacità culturale e
artistica di Firenze a cavallo tra la fine del Duecento e la prima metà
del Trecento. Di più: la lingua ha bisogno di qualcuno che pronunci
parole e scriva testi. E lì è stato fondamentale l’Alighieri non solo
con la Commedia , ma prima ancora con la consapevolezza della necessità
di una lingua valida per gli italiani. Non la chiama “lingua italiana”
ma è quella cosa lì. Esprime l’idea già nella Vita Nova, quando dice che
non ha ancora una lingua nuova per celebrare Beatrice. Poi nel Convivio
e nel De vulgari eloquentia elabora fortemente l’idea di questa lingua
letteraria italiana. La Commedia sarà il passo finale».
Del resto
gli stessi accademici fondatori della Crusca, spiega Sabatini, «non
chiamavano questa lingua né italiana, né toscana, né fiorentina. La
chiamavano “la nostra favella”». Quanto al Manzoni e alla lettera alla
madre sui panni risciacquati, «scrisse i Promessi sposi lavorando molto
sui libri e i vocabolari e fu folgorato, andando in vacanza a Firenze
nel 1827 dopo aver già rifinito la seconda stesura del romanzo, a
sentire che quella lingua che lui aveva cercato sui testi, i fiorentini
la parlavano davvero. E allora risciacqua sul serio, da cima a fondo, il
suo capolavoro lì, sull’Arno. Anche perché tra Firenze, Siena e Pisa le
differenze erano e sono ancora notevoli». Non a caso, ammicca, «diventò
lui pure accademico della Crusca...».