il manifesto 9.6.17
Racconti da salotto sull’Ottobre sovietico
Centenari.
Alcune proposte editoriali a cento anni dalla Rivoluzione russa. «La
tragedia di un popolo» di Orlando Figes (Mondadori) e «Lenin» di Victor
Sebestyen (Rizzoli). Riproposta da Bollati Boringhieri «Lenin a Stalin.
1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita» di Victor Serge. Ritanna
Armeni invece racconta la relazione amorosa di Lenin con Inessa Armand.
di Andrea Colombo
In
un Paese come l’Italia, dove il sistema mediatico vive di ricorrenze e
celebrazioni e un decennale o un ventennale non si negano mai, è
difficile evitare un certo stupore a fronte della sordina con cui i
media hanno sin qui affrontato quell’episodio minore del XX Secolo che è
stata la Rivoluzione russa. È possibile che qualcosa in più venga
offerto in autunno, allo scadere dei cent’anni dall’Ottobre rosso, ma
anche in questo caso risulterebbe stridente una periodizzazione storica
che identifica la Rivoluzione solo con la presa del potere bolscevica
invece di misurarsi con tutto il 1917 e oltre, essendo ormai assodato
che la Grande Rivoluzione è stata invece un evento lungo, tanto che
nella sua monumentale La tragedia di un popolo (Oscar Mondadori, pp.
1098, euro 20, traduzione di Raffaele Petrillo) lo storico inglese
Orlando Figes ne rintraccia l’inizio nel 1891 e la conclusione nel 1924.
SUL
FRONTE DELL’EDITORIA l’offerta è solo lievemente meno avara. È stato
pubblicato in italiano, a vent’anni tondi dall’edizione originale, il
tomo di Figes, che è probabilmente la più rilevante rilettura della
Rivoluzione Russa uscita dopo la fine dell’Urss. Odoya ha pubblicato
invece, cinquant’anni dopo l’edizione francese, 1917. L’anno della
Rivoluzione Russa, di Roland Gaucher. (pp.351, euro 24, traduzione di P.
Radius). Nonostante l’autore, al secolo Roland Goguillot, fosse un
fascista condannato a cinque anni per collaborazionismo dopo Vichy, la
sua è una cronaca brillante, ricchissima di dettagli storici,
coinvolgente come un romanzo. Ovviamente il fascistone francese non ha
alcuna simpatia per i bolscevichi, tuttavia è impressionante scoprire
che la sua narrazione è più onesta e molto meno preconcetta di quelle
dei tantissimi liberal che intrecciano ricerca storica e demonizzazione
ideologica, sino a rendere difficile distinguere l’una dall’altra.
È
IL CASO del principale e più recente volume uscito in Italia sull’onda
del centenario: Lenin. La vita e la rivoluzione (Rizzoli, pp. 553, euro
25, traduzione di Chicca Galli e Roberta Zuppet), dell’ungherese Victor
Sebestyen che si propone un doppio obiettivo esplicito sin dal titolo
originale: Lenin the Dictator. An Intimate Portrait. Mira a intrecciare
la biografia pubblica e quella privata del leader bolscevico,
privilegiando il secondo aspetto, ma anche a confermare la sua
responsabilità assoluta nella degenerazione dell’Urss, dovuta non solo
alle scelte politiche ma anche alla personalità autoritaria e al
carattere dittatoriale.
È un’impresa che, pagina dopo pagina, si
rivela più difficile del previsto, tanto che spesso lo storico deve
intervenire con commenti personali per «indirizzare» il giudizio del
lettore. Il Lenin che descrive, infatti, è sì estremamente ruvido e
violento negli scontri politici, ma è anche l’opposto, cortese e
rispettoso, al di fuori della politica. Risulta persino agli occhi
ipercritici di Sebastyen assolutamente disinteressato e onesto e la sete
di potere che l’autore gli attribuisce non appare mai supportata dai
fatti. La dedizione incondizionata e fanatica di Lenin, già nota e
sottolineata da suoi contemporanei, è rivolta tutta e solo alla
Rivoluzione: una passione tanto pervasiva da non lasciare spazio alcuno
neppure all’ambizione personale.
CHE VLADIMIR ILIC ULIANOV avesse
un carattere autoritario e poco disposto ad ascoltare le ragioni degli
altri è certo. Nella polemica era spietato, ma privo della vendicatività
che avrebbe invece segnato Stalin. Dopo che due tra i principali
dirigenti bolscevichi, Zinovev e Kamenev, alla vigilia della Rivoluzione
d’Ottobre avevano portato la loro opposizione all’insurrezione sino al
punto di parlarne apertamente sul giornale, con tutto il rischio che ciò
comportava, Lenin, dopo la vittoria, non si sognò neppure di punirli o
epurarli. Al contrario.
LO STORICO UNGHERESE si diffonde a lungo
sulla relazione con Inessa Armand, nata in Francia, cresciuta in Russia
nella migliore borghesia, sposata con un importante industriale e
proprietario terriero, che fu il grande amore del dirigente comunista e
amica di sua moglie Nadja Krupskaja, in una sorta di bizzarra relazione
politico-amorosa a tre. Anche qui, però, l’intento preventivamente
polemico gli impedisce di cogliere la realtà emotiva di quella
relazione. Sebastyen sa tutto di quella storia, ma lo riduce a una serie
di informazioni fredde, che ne tradiscono la verità.
PER
SINCERARSENE basta fare un paragone con il bellissimo libro che a Inessa
e alla sua relazione con Lenin ha dedicato Ritanna Armeni, Di questo
amore non si deve sapere (Ponte alle Grazie, pp. 235 euro 16). La
vicenda è la stessa, ma la giornalista e scrittrice italiana ne coglie
le implicazioni profonde, la affronta con l’empatia che difetta
all’ungherese. Fa emergere la fragilità di Lenin, il suo
tradizionalismo, la sua resistenza a una passione che trova minacciosa
per il suo lavoro proprio come gli capitava con la musica di Beethoven.
Mette in risalto la complessità non solo dell’amore tra il russo e la
francese, ma anche del rapporto tra Inessa e Nadja, il loro punto
d’incontro intorno al tentativo di imporre una specie di femminismo
bolscevico, nel quale la liberazione delle donne e quella dal
capitalismo sono inscindibile, che va a sbattere contro il muro della
sottovalutazione dei maschi, grande capo incluso.
PER ASSURDO, la
figura di Vladimir Ulianov esce più ridimensionata dal lavoro di una
scrittrice che non gli è ostile che da quello dello storico che si
proponeva di demolirlo. Il mondo degli esiliati rivoluzionari campeggia
necessariamente anche nel libro di Sebestyen, avendo Lenin passato in
esilio gran parte della vita, ma ridotto spesso a una sfilata di
macchiette. Nel libro di Ritanna Armeni, che pure lo tratta molto meno
diffusamente, riacquista la sua realtà e la sua vitalità.
Allo
stesso modo, il nodo centrale della continuità tra Lenin e lo stalinismo
è appena accennato da Sebestyen, perché data per ovvia. È stato Figes a
segnalare che non ci sono tracce della disposizione contro le correnti
che, decisa da Lenin, diventerà arma micidiale nelle mani di Stalin. Di
conseguenza non c’è neppure modo per valutare il modo molto diverso in
cui quella disposizione fu tradotta in pratica. Sebestyen ricorda la
reazione di Lenin alle manifestazioni di adorazione nei suoi confronti
dopo l’attentato contro di lui dell’agosto 1918: «È oltraggioso! Mi
chiamano genio, uomo straordinario. C’è del misticismo in tutto questo».
Ma aggiunge che Lenin è ugualmente responsabile del culto della
personalità, non avendo fatto niente per proibirlo. Riduce la messa in
guardia contro Stalin contenuta nel testamento a «diverbio di natura
personale». Cita la polemica di Lenin contro la burocratizzazione del
partito, ma la derubrica a ipocrisia.
COSÌ, PER INDAGARE le
continuità e le discontinuità tra la prima fase della Rivoluzione e
quella segnata dal Piano quinquennale e dal Grande Terrore continua a
essere molto più utile, a 80 anni dalla sua uscita e nonostante una
sguardo troppo poco critico su Ulianov, il Victor Serge di Da Lenin a
Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita (Bollati
Boringhieri, pp. 185, euro 15, traduzione di Sirio Di Giuliomaria,
Introduzione di David Bidussa).
Le rimozioni sono eloquenti. Il
silenzio che i media hanno calato sulla Rivoluzione è un festeggiamento:
quello della vittoria non sulla dittaura sovietica ma sulle istanze
sociali dell’Ottobre rosso. Ed è anche il riflesso di una paura
confessata apertamente da Sebastyen. In fondo, conclude lo storico, le
condizioni per l’emergere di un nuovo Lenin e di un nuovo bolscevismo ci
sono di nuovo tutte. Anche per questo meno e peggio si parla della
Rivoluzione che fece tremare il mondo, meglio è.