giovedì 8 giugno 2017

Corriere 8.6.17
Il «vecchio» Corbyn che piace ai ragazzi
di Luigi Ippolito


LONDRA Quando è uscito il programma elettorale, lo hanno paragonato al «più lungo biglietto di suicidio della storia», quel manifesto estremista del 1983 che consegnò i laburisti a una delle loro peggiori disfatte, prologo della successiva svolta riformista del New Labour e dei trionfi elettorali di Tony Blair.
«Ritorno agli anni Settanta», hanno titolato i giornali. E in effetti il leader Jeremy Corbyn prometteva la nazionalizzazione dei servizi pubblici, l’abolizione delle tasse universitarie, pasti gratis nelle scuole, fine dei tagli alla sanità e all’istruzione. Un Paese di Bengodi finanziato da una pesante stangata fiscale sui redditi medio-alti e sulle imprese. L’esatto contrario del Labour vincente di Blair.
Il partito laburista sembrava quindi spacciato, relegato su posizioni di ultrasinistra, nel ruolo di movimento marginale di protesta schiacciato dai tank conservatori di Theresa May.
Perfino i suoi candidati andavano in giro a dire agli elettori: «Votate tranquillamente per me come persona, tanto non c’è nessun rischio reale che Corbyn vinca e diventi primo ministro...».
Ma poi qualcosa è successo. La macchina di propaganda del governo si è inceppata. I laburisti hanno cominciato a macinare consensi, riducendo i venti punti di distacco iniziali. Con qualche sondaggista che dava addirittura Theresa May senza più maggioranza.
Quel programma apparentemente fuori dal tempo è piaciuto agli impiegati del settore pubblico, ai lavoratori del servizio sanitario, ma soprattutto a un Paese stanco di anni di austerità. Ed è piaciuto ai giovani: sotto i 24 anni, i consensi per Corbyn sono al 70 per cento. Come qualcuno ha scritto, è come se i ragazzi avessero trovato un vecchio disco in vinile e scoperto che suona meglio di tutta la musica ascoltata negli ultimi venti anni.
Corbyn piace perché è umile, finanche dimesso, ma autentico: non è un prodotto del marketing elettorale, non è un candidato finto. Ed è soprattutto coerente: ha le sue idee, giuste o sbagliate che siano, e non le ha cambiate in 40 anni di vita politica. È poco efficace nei dibattiti in Parlamento, ma è nel suo elemento nelle piazze: e i suoi comizi sono un evento.
Certo, fuori da Londra e dalle grandi città, nell’Inghilterra profonda, il suo socialismo metropolitano resta «tossico». E la grande maggioranza del gruppo parlamentare, pieno di blairiani e browniani, lo detesta. D’altra parte, Corbyn ha votato almeno 500 volte contro la linea del suo stesso partito e non veniva espulso solo perché era considerato un eccentrico outsider da tollerare, quasi un bonario mattacchione.
Lui stesso, quando si è fatto avanti per la guida del partito due anni fa, non credeva di vincere: la sua era una candidatura di bandiera. Ma è stato plebiscitato da una base che non ne poteva più di blairismo e post-blairismo, reso impresentabile dalla guerra in Iraq, dalle menzogne e dalle relazioni pericolose con capitalisti e dittatori.
Ma l’improbabile ascesa di Corbyn pone una questione a tutta la sinistra. Perché ricalca il fenomeno di Bernie Sanders in America, il vecchio socialista che ha conteso fino all’ultimo la nomination democratica a Hillary Clinton, e ricorda l’improvviso emergere di Jean-Luc Mélenchon in Francia. Tutti casi in cui, di fronte a un riformismo boccheggiante, si è imposto un populismo di sinistra. Non è detto che sia questa la strada. Ma intanto è qualcosa che fa presa.