Corriere 8.6.17
I diari di Trentin: le critiche ai leader della sinistra
Il
dolore di Bruno Trentin. Nei diari dello storico leader Cgil, scomparso
nel 2007, i giudizi aspri sui protagonisti della sua epoca. Con le
critiche ai capi della sinistra.
di Marco Cianca
Il
dolore di Bruno Trentin. Inaspettato e sconvolgente. «Avverto
un’immensa fatica fisica e intellettuale, affettiva, tanto che mi pare a
momenti di dovermi gettare ai margini di un sentiero e di morire, così,
per esaurimento, per incapacità di esprimermi, per disamore per la vita
e la lotta, e semplicemente perché non ho più voglia di battermi e di
farmi capire», scrive a metà agosto del 1992. Sono passati quindici
giorni da quel venerdì 31 luglio che ha segnato il momento più tribolato
della sua vita da sindacalista. La firma di un’intesa nella quale non
credeva, spinto dal timore che il fallimento della trattativa con il
governo avrebbe avuto «effetti incalcolabili sulla situazione
finanziaria del Paese».
Aveva firmato, per «salvare la Cgil», e si
era dimesso. «Che cosa sarebbe successo rifiutando l’accordo, con tutte
le sue nefandezze? Nel mezzo di una catastrofe finanziaria, a chi
sarebbe stata attribuita la svalutazione della lira?», annota. «Un
inferno dentro di me», e intorno «tanti opportunismi». «Miseria di
Amato», «miseria di Del Turco», «miseria degli altri sindacati»,
«miseria delle reazioni elettoralistiche di gran parte del Pds».
Pubblico e privato
Senso
di solitudine, incomprensione, sofferta alterità ma anche gioia di
vivere, voglia di scrivere, di leggere, di andare in montagna: questi
sentimenti permeano le cinquecento pagine dei diari, dal 1988 al 1994,
che l’Ediesse sta mandando in libreria. Riflessioni culturali e
politiche si alternano ai giudizi sulle persone e alle notazioni di vita
quotidiana, la coltivazione di fiori ad Amelia, le suggestioni alpine a
San Candido, le passeggiate, le scalate, i tanti, tantissimi libri, i
viaggi, l’amore per Marcelle Padovani, chiamata affettuosamente Marie. È
lei a spiegare che la decisione di pubblicare i diari non è stata
facile, «testi nudi e crudi, molto passionali ed unilaterali» ma che
servono a «far capire meglio la figura, la personalità e l’importanza di
Trentin».
Iginio Ariemma, che da tempo svolge un intenso lavoro
di scoperta e divulgazione di testi che riguardano l’ex segretario della
Cgil, ha curato questa sorprendente pubblicazione. Sette anni che
sconvolsero l’Italia e il mondo (la caduta del muro di Berlino, il
disfacimento dei regimi comunisti, il cambio di nome del Pci,
Tangentopoli, i bagliori di guerra in Kuwait e Iraq, la caduta di Craxi,
l’ascesa di Berlusconi) visti con occhi attenti, impietosi e anche
profetici.
Nato in Francia nel 1926, figlio di Silvio, professore
universitario che aveva scelto di andare in esilio per non sottostare al
fascismo, uno dei fondatori di Giustizia e Libertà, Bruno fu subito
ribelle. Il padre organizzava la resistenza ma avrebbe voluto che il
figlio continuasse gli studi. Lui s’incise sulla coscia destra una croce
di Lorena come omaggio al generale De Gaulle e a France Libre , formò
una piccola banda e fu arrestato dalla polizia francese passando in
guardina il sedicesimo compleanno così come il diciassettesimo lo
trascorse in una cella italiana, dopo il ritorno in Patria con la
famiglia nel ’43.
La guerra partigiana, il Partito d’Azione, la
laurea, l’ufficio studi della Cgil chiamato da Vittorio Foa, nel ’50
l’iscrizione al Pci, i metalmeccanici, l’autunno caldo, i vertici della
confederazione. E poi segretario generale, dall’88 al ’94, appunto.
Eccolo Bruno Trentin, crogiuolo d’idee, di rigore, di sensibilità e di
esperienze, un eretico della sinistra, un libertario in mezzo a una
folla di «ometti».
È indicativa una frase su Robespierre: «Lo
sento lontano culturalmente e anche psicologicamente e nello stesso
tempo vicino umanamente quando lo riscopro così solo, così tormentato,
così coerente (e incerto) nella sua ansia di vivere in accordo con la
sua morale e le sue speranze». E Trentin, con una ghigliottina etica,
politica e umana taglia tante teste. Giudizi sprezzanti, definizioni
impietose, conclamata estraneità. Un elenco che farà sobbalzare. Guido
Carli, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi, Giuliano Amato, Paolo Cirino
Pomicino, Napoleone Colajanni, Gianni De Michelis, Lucio Colletti, i
dirigenti della Confindustria, Pierre Carniti, Franco Marini, Sergio
D’Antoni, Giuliano Cazzola. Disprezzo per gli «intellettuali a
pagamento» e «i vecchi saccenti senza vergogna e senza il minimo residuo
di morale politica ed intellettuale». A proposito della Cgil: «Guerra
per bande», «basse manovre di Lama e compagni prima dell’ultimo
congresso», «tragico tramonto», «metastasi inestricabile», «miserabile
scenario». Quando nell’88 parte la contestazione ad Antonio Pizzinato,
evidenzia «un attacco torbido e cinico» ma rimarca «una reazione debole,
patetica e astiosa» da parte dell’allora segretario. La voglia di fuga:
«Ho maturato la mia intenzione di lasciare, non posso assistere a
questo scempio e continuare a fare il mediatore e l’anima bella». Ma poi
è lui a essere designato e «comincia la nuova storia della mia piccola
vita».
Si sente circondato: «tristi figuri», «satrapi», «ceto
burocratico di intermediazione», «avventurieri da strapazzo». Riaffiora,
carsica, «la voglia tremenda di mollare tutto» e il desiderio di
gridare: «Non sono uno di questi». Nel partito vede «anime morte che si
incrociano senza comunicare». La decisione annunciata da Occhetto di
cambiare il nome del Pci è ammantata di «improvvisazione e povertà
culturale». Alle critiche, «il segretario reagisce con la ciclotimia di
sempre alternando depressione e psicosi del tradimento con minacce e
tentativi di prepotenza». Più avanti gli attribuirà «un affanno
camaleontico». D’Alema «appare più lucido ed equilibrato di altri» ma «i
progetti non lo interessano se non sono la giustificazione di un agire
politico», «ricorda in caricatura il personaggio di Elikon nel Caligola
di Camus». Nel ’94, senza accennare al duello tra lo stesso D’Alema e
Walter Veltroni, guarda con tormentato distacco «alla penosa vicenda e
al modo isterico, personalistico e selvaggio con il quale si è svolto il
ricambio nella segreteria, con il patetico ma irresponsabile
comportamento di Occhetto».
I rapporti con le sinistre
E
l’altra sinistra? «Un’armata Brancaleone piena di cinismo e di
vittimismo». A Bertinotti affibbia prima «un movimentismo senza
obiettivi, disperatamente parolaio», poi «una meschina ambizione di
protagonismo a qualsiasi costo», disceso nel «suo personale inferno di
degradazione morale», «triste guitto», «ospite giulivo del Maurizio
Costanzo show». A proposito di Rossana Rossanda annota «una risposta
delirante e ignorante» e «penosi balbettii indignati». Parole di fuoco
contro «i giovani rottami» del manifesto , «estremisti estetizzanti». A
tutto questo variegato mondo «tra delirio estremista, gioco mondano e la
lirica dannunziana» muove l’accusa di «disonestà intellettuale» e di
«narcisismo laido e egocentrismo scatenato».
Doloroso il rapporto
con Pietro Ingrao, con «la retorica della pace e del catastrofismo
cosmico», con «il suo rifugio in una sorta di profetismo didascalico che
lo porta a rimuovere ogni vero confronto con il presente».
Un’incomprensione che lo farà piangere.
Nausea e disperazione.
Denuncia «il machiavellismo volgare», «le ideologie rinsecchite» che
diventano «gli orpelli delle più spregiudicate avventure personali e
delle più invereconde forme di lotta politica», «le idee come
grimaldelli» per la conquista del potere, «schieramenti senza
programma». Malinconia, senso di stanchezza e di precarietà: «È come se
gridassi e non uscisse un suono». Ma anche amicizie, affinità elettive e
parole di elogio per figure, ad esempio, come Ciampi e Baffi, o per il
sindacalista Eraldo Crea. E nel tormento dell’incomunicabilità e della
diversità, a prevalere è il desiderio di elaborare un progetto, di
indicare una via d’uscita. Superare il determinismo marxista e ripartire
dalla rivoluzione francese «che non è ancora conclusa», dalla battaglia
per i diritti, dalla società civile, da forme di autogoverno, dalla
dignità e creatività del lavoro. Rifiuto di ogni statolatria e di
soluzioni calate dall’alto, comprese tutte le strategie redistributive
della sinistra che non vanno al nocciolo del problema e diventano
l’alibi per governare. Contro la civiltà manageriale bisogna battersi
per la socializzazione dei saperi e dei poteri. «Trasformare, qui ed
ora, questo mondo nel quale viviamo e combattiamo». L’utopia del
quotidiano, la chiama. La matrice è quella azionista ma la dicotomia tra
giustizia e libertà, l’ircocervo di Benedetto Croce, Trentin la
scioglie senza esitazione: la libertà viene prima. Nei diari c’è in
incubazione «La città del lavoro». È morto il 23 agosto 2007. I conti
con la sua eredità intellettuale sono ancora tutti da fare .