Corriere 6.6.17
Verso il voto a settembre con l’incognita del Quirinale
di Massimo Franco
L’
accelerazione verso le elezioni è nei fatti: al punto che Paolo
Gentiloni sta esaminando i provvedimenti da approvare in extremis prima
che siano sciolte le Camere. La controprova di un asse ferreo sulla
riforma tra Pd, FI, M5S, più la Lega, è l’attacco di Beppe Grillo agli
scissionisti di Mdp: i nemici giurati di Matteo Renzi. Il Movimento li
bolla, sfruttando l’acronimo, come «Mantenimento delle Poltrone». E,
schierandosi col segretario dem, dice che per quello temono il voto
anticipato. Si parla addirittura del 24 settembre, giorno di elezioni
anche tedesche, come possibile data.
Sembra tutto così scontato
che c’è da chiedersi se finirà davvero così; soprattutto, se il capo
dello Stato, Sergio Mattarella, dopo avere preso atto della volontà dei
partiti, terrà conto dei timori diffusi in Italia e in Europa. L’ex
premier Massimo D’Alema vede «un patto di potere per espropriare il
Colle». E la presidente della Camera, Laura Boldrini, avverte: «Non c’è
automatismo con il voto anticipato». Il capo del governo Paolo Gentiloni
aspetta di sapere, e intanto cerca di governare, sapendo che c’è chi
confida in un «incidente» al Senato per aprire la crisi.
Anche se
una riforma condivisa va salutata positivamente, e Renzi infatti dice di
esserne fiero. D’altronde, giuristi insigni ritengono che i pericoli di
incostituzionalità siano ridotti. Alcune norme sono state corrette;
altre solo in parte, come i collegi elettorali. Quelli nuovi sono stati
ridefiniti sulla base di un censimento risalente al 1991, dunque molto
vecchio, preparato per il sistema del Mattarellum del 1993. Ma erano gli
unici pronti, e il Pd li ha utilizzati per la fretta di chiudere,
sebbene col rischio di fare un pasticcio. Il problema non è la riforma
elettorale, tuttavia: è il «dopo».
Allarma l’incognita sulle
alleanze, perché per ora non si vedono maggioranze possibili. Preoccupa
ancora di più il contraccolpo che un’Italia rigettata nell’instabilità
può provocare sui mercati finanziari. E, sul piano dei rapporti
politici, l’eventualità di un patto governativo tra Renzi e Silvio
Berlusconi alimenta la conflittualità tra i dem. Il Pd non è pacificato
dopo la scissione. Anzi: l’idea di una convergenza con Forza Italia
spinge esponenti di peso come Romano Prodi su una posizione di attesa
molto critica. C’è un filone ulivista, ma anche vicino al Guardasigilli
Andrea Orlando, che appare come in bilico: aspetta di capire come finirà
la trattativa per decidere se rimanere o andare via.
Di fatto, si
indovina una seconda scissione in incubazione, col movimento dell’ex
sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, come possibile contenitore della
sinistra ostile a Renzi. Il fatto che nella riforma il Pd abbia voluto
mantenere l’indicazione del «capo politico» come candidato a premier
mostra la volontà disperata del segretario di puntare ancora su Palazzo
Chigi. D’altronde, provocare la crisi del terzo governo a guida Pd in
una sola legislatura, e a pochi mesi dalla scadenza, si giustifica solo
con l’ansia di riprendere il potere. Si tratta di un azzardo che sarà
difficile, però, spiegare all’opinione pubblica; e che si ritiene
favorisca un M5S non a caso, di colpo, ammansito.