Corriere 6.6.17
Pochi ma buoni i libri letti da Leonardo
di Luciano Canfora
Per
Aristotele come per Plutarco — due celebri grandi «lettori» — si è
tentato di ricostruire la loro «biblioteca»: vale a dire i libri che, a
giudicare da ciò che citano, presumibilmente usarono. Per Plutarco è
stato osservato che quelli che maggiormente mise a frutto non li ha
forse nemmeno citati. Per Aristotele si pone il problema opposto: come
fa a citare frasi da un’orazione di Pericle (forse per i morti nella
guerra contro Samo) che difficilmente aveva preso la via della
scrittura? Plinio dedica un intero libro a elencare i libri che ha letto
o da cui ha stralciato qualche estratto.
Il più grande dotto del
IX secolo — il patriarca bizantino Fozio — aveva organizzato una cerchia
di lettori, il cui schedario si è salvato: è l’opera che di solito
chiamiamo la Biblioteca (da qualche mese finalmente disponibile in
edizione-traduzione italiana) e che si è a lungo creduto fosse un’opera
destinata ai «posteri». Quella di Fozio fu di sicuro una «biblioteca
perduta» (o meglio scomparsa) perché gli fu punitivamente confiscata
quando cadde in disgrazia. Anche Fozio infatti, poiché leggeva libri e
sollecitava la lettura critica di essi, fu reputato «mago», come del
resto Gerbert d’Aurillac (Silvestro II, il Papa dell’anno 1000).
Quando
si parla di biblioteche (perdute) di antichi, o di figure eminenti di
epoca medievale o umanistica, non si deve favoleggiare di grandi masse
di libri. Quella su cui Fozio concentrò il suo formidabile lavoro
comprendeva circa 360 pezzi. Ed era considerata una enormità. Quella di
Leonardo da Vinci, ora ristudiata da Carlo Vecce nel volume La
biblioteca perduta (Salerno Editrice, pagine 214, e 13) era — a quanto
si può ricavare dai manoscritti leonardeschi — composta di non molti
pezzi ma studiati, epitomati, «usati» a fondo, e forieri di idee.
Ricordiamo l’ironia di Seneca sulle pareti tappezzate di libri non
letti, ma ostentati. Questi uomini invece — e Leonardo forse più che
altri — seguirono la strada contraria: in omaggio al principio non
«multa» sed «multum» .
Nel libro di Vecce, il lettore può anche
trovare, in appendice, un quadro aggiornato e critico di manoscritti
leonardeschi — disseminati ormai tra Londra, l’Institut de France,
Madrid, Milano, Torino, Seattle — a partire dai quali è stata possibile
la ricostruzione della biblioteca del presunto «omo sanza lettere». Nel
quinto capitolo si apprezza il tentativo di fornire un quadro completo,
ragionato, e per «scaffali» (poesia, filosofia, scrittori tecnici etc.).
Nel dodicesimo ha giustamente una parte significativa Ovidio, le cui
Metamorfosi — vero monumento «lucreziano» — furono per Leonardo una
lettura financo inquietante.
Considerate nel loro insieme e sulla
scala dei secoli, le biblioteche dei dotti ci appaiono come un cimitero.
Per lo più «scoppiano», come dicono i bibliofili e gli antiquari
francesi, o si disperdono. Molto dipende dalla moralità e qualità degli
eredi, non solo dalle direttive dell’interessato. Mi piace perciò
ricordare che le «lapidi» di questo cimitero sono i cataloghi di
vendita. Biblioteche benemerite come l’Angelica di Roma o la
Bibliothèque Nationale parigina (la mitica côte Delta della sala W)
hanno il grande merito, tra gli altri, di aver messo, e di continuare a
mettere in salvo queste «lapidi», recanti talvolta persino il nome dei
fortunati acquirenti. Il che ci consente di seguire il cammino di un
libro — e degli effetti che ha prodotto — sino al tempo nostro.