lunedì 19 giugno 2017

Corriere 19.11.17
Qualcosa non quadra a sinistra
di Paolo Mieli


A conclusione del vivace incontro dell’associazione «Libertà e Giustizia» tenutosi ieri al teatro Brancaccio di Roma, qualcosa ci dice che la prospettata costruzione di un unico movimento alternativo al Pd renziano (un Pd considerato ormai dal loro leader Tomaso Montanari «parte della destra») si va facendo più incerta. Aspettiamo il primo luglio quando si riuniranno i seguaci di Giuliano Pisapia, ma già fin d’ora c’è qualcosa che non quadra. Del resto nei giorni scorsi Montanari, aveva rimproverato a Pisapia una presunta predilezione per Blair rispetto a Corbyn, la proposta di Giorgio Gori a governatore della Lombardia (circostanze negate dall’ex sindaco di Milano), ma soprattutto l’innegabile posizione da lui assunta al momento del voto dello scorso 4 dicembre: «Non sono sicuro che chi ha sostenuto il Sì al referendum sia la persona giusta» per guidare la grande coalizione civica di sinistra, ha detto lo storico dell’arte. Dopo l’assemblea del Brancaccio, si conferma l’impressione che il giudizio sul 4 dicembre sia dirimente per la scelta del leader del futuro raggruppamento che dovrebbe far concorrenza al Pd. Anche se, ad essere lineari, per paradosso Silvio Berlusconi — che al referendum votò No, assieme all’intera destra — dovrebbe avere più titoli non solo di Pisapia ma perfino di Enrico Letta e di Romano Prodi i quali, come è noto, si pronunciarono per il Sì.
Dietro a tale questione, poi, se ne nasconde un’altra, forse ancora più rilevante: quella dei rapporti di questa nuova sinistra — che, tra l’altro, si è data come ambizioso orizzonte «il superamento delle diseguaglianze e delle ingiustizie» (Anna Falcone) — con il movimento di Grillo. Rapporti che restano benevolmente interlocutorii (anche se Montanari lo ha definito «prigioniero di un’oligarchia imperscrutabile») a dispetto delle posizioni che Grillo stesso e i suoi hanno preso di recente su rom e migranti. Machiavellismi dei leader? Non solo. Qualche giorno fa il Fatto ha pubblicato un sondaggio sulle intenzioni di voto in relazione alla prefigurata «Lista unica a sinistra del Pd». Colpiva che, dei potenziali elettori di tale raggruppamento, il 62% suggeriva di mettere fin d’ora in cantiere un’alleanza con il Movimento Cinque Stelle e soltanto il 25% chiedeva di fare lo stesso con il Pd (il 9% preferiva non concedersi a nessun patto e predisporsi a restare all’opposizione). A corroborare l’opzione pentastellata, il quotidiano diretto da Marco Travaglio pubblicava un articolo di Antonio Ingroia che aderiva alla proposta di «un’alleanza per la Costituzione» che avrebbe trovato nel Movimento Cinque Stelle il proprio interlocutore naturale. A questo punto la domanda da porsi è: può una lista di sinistra presentarsi alle elezioni con la prospettiva di appoggiare, dopo il voto, un governo composto da seguaci di Di Maio, Di Battista, in eventuale compagnia di Salvini? E non risulta questo un elemento di debolezza quantomeno pari a quello che, ai simpatizzanti della progettata lista, si prospetta con la possibile intesa postelettorale tra Renzi e Berlusconi?
Il sondaggio del Fatto annunciava inoltre che la Sinistra unita, se guidata da Roberto Saviano, Stefano Rodotà o Pier Luigi Bersani (Pisapia si classificava soltanto quarto) avrebbe potuto aspirare a un ammontare «potenziale» del 16 per cento dei voti. Non male. Anche se, a leggere meglio i dati, si scopriva che al momento Antonio Noto (l’autore della ricerca demoscopica) assegnava alla compagine di nuova sinistra un «voto certo» assai più contenuto: attorno al 4%. Il che induceva a un qualche raffreddamento degli entusiasmi. Qualche giorno dopo, infatti, sempre sul quotidiano di Travaglio, Luciano Canfora è intervenuto per ricordare i tempi della nascita di Rifondazione comunista quando gli allora fuorusciti dal Pci erano sicuri di ottenere risultati strepitosi scorrazzando in «chissà quali praterie», ma dopo un po’ di tempo dovettero constatare che «le percentuali si assottigliavano, fino a divenire quasi irrilevanti». Rimembranze che adesso inducevano l’antichista a considerazioni più ponderate e ad accontentarsi, alle prossime elezioni, di un 6% dei voti, che per le sue valutazioni — diceva — sarebbe un «bottino significativo».
Questa cautela confligge però con una certezza che è quasi dogma per quanti sono schierati a sinistra del partito di Renzi. I rappresentanti politici dell’area di cui stiamo parlando si presentano come portabandiera di quegli elettori («milionate», li ha quantificati Bersani) che nell’era renziana avrebbero abbandonato il Pd in tutti i campi: tessere, primarie, urne. Gli scissionisti del Pd parlano, appunto, come se avessero in tasca la chiave per trattenere o riportare a casa quelle donne e quegli uomini che si sono allontanati dal loro ex partito. Può darsi che abbiano ragione, che sia sufficiente dichiararsi contro i voucher, la «buona scuola», il Jobs act, a favore della reintroduzione dell’articolo 18 e quei milioni di fuggiaschi torneranno alla dimora dei tempi passati. Al momento però non esiste prova che questa prospettiva sia certa. Forse, adesso che le elezioni hanno ritrovato la loro scadenza nella fine naturale della legislatura, la copiosa nomenklatura che si colloca a sinistra del Pd avrebbe il tempo di dimostrare una qualche sintonia con quel popolo di fuggitivi. Come? Accantonando la già annunciata sfilza di festose assemblee autunnali e allestendo, invece, proprie primarie, primarie beninteso alternative a quelle del Pd che si sono già tenute e con i risultati che conosciamo. Tale consultazione preventiva darebbe prova della loro capacità di mobilitazione e consentirebbe l’individuazione di un leader alternativo a Renzi, riconosciuto da tutti loro. Siamo sicuri che quando vedesse quei milioni di ex transfughi tornati a fare la coda davanti ai gazebo allestiti da Pisapia, Montanari, dalla Falcone, da Nicola Fratoianni, Pippo Civati, Marco Rizzo, Maurizio Acerbo (nuovo segretario di Rifondazione comunista), Landini, Fassina e Bersani, anche Canfora tornerebbe a essere più ottimista. Fino a quel giorno, però, il dubbio che la somma di decine di gruppi della sinistra estrema, sigle della società civile e movimenti del ceto medio riflessivo, faccia numero quando prende parte a convegni autocelebrativi, ma non dia poi nelle urne i risultati sperati, sarà legittimo.
Del resto il passato è lì ad indurre a questo genere di esitazione. Alla fine degli anni Sessanta, coloro che militavano a sinistra del Pci guardarono con simpatia al Partito socialista di unità proletaria (nato, nel 1964, da una costola del Psi) che — sotto la guida di personaggi del calibro di Vittorio Foa, Lelio Basso, Tullio Vecchietti, Lucio Libertini, Dario Valori — appariva come la compagine più adatta ad intercettare l’onda movimentista del Sessantotto. Dopo un iniziale ma contenuto successo (ottenuto nel 1968), il Psiup reputò saggio accantonare l’identità originaria e mettersi nelle condizioni di poter raccogliere tutti i frutti che cadevano dagli alberi della sinistra extraparlamentare. Tutti, ma proprio tutti, anche correndo il rischio di ottenerne una macedonia dall’incerto sapore. Risultato: alle elezioni politiche del 1972 quel partito, a sorpresa, non conquistò seggi né alla Camera, né al Senato. Un esponente socialproletario, Mario Albano, ironizzò sulla circostanza che da quel momento in poi la sigla Psiup sarebbe stata letta come acronimo di Partito Scomparso In Un Pomeriggio. A quell’epoca, ricordiamolo, si votava in regime di proporzionale. E non c’era neanche la soglia del 3 per cento.