SULLA STAMPA DI LUNEDI 19 GIUGNO
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Corriere 19.6.17
«Il Vaticano ci dia il dossier su Emanuela»
La richiesta della famiglia Orlandi: la Segreteria di Stato possiede carte mai svelate
di Fiorenza Sarzanini
Trentaquattro anni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi — la quindicenne figlia di un commesso della Casa Pontificia sparita il 22 giugno 1983 —, la famiglia chiede di visionare i documenti riservati conservati in Vaticano sul suo caso e di incontrare il segretario di Stato, Pietro Parolin. La decisione punta a rompere un lunghissimo silenzio, che coinvolge inevitabilmente le gerarchie della Chiesa.
ROMA Un’istanza di accesso agli atti per poter visionare i documenti conservati dalla segreteria di Stato. Una richiesta di audizione con il segretario Pietro Parolin per conoscere «in che modo e da chi è stata seguita la vicenda». Trentaquattro anni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, la famiglia fa una mossa che potrebbe portare a risultati clamorosi. Perché per la prima volta nel documento che sarà depositato questa mattina presso la Santa Sede, si parla esplicitamente di un «dossier» custodito in Vaticano. La circostanza è emersa nel corso del processo Vatileaks ma è stata finora tenuta riservata.
Eppure del carteggio, come si specifica nel ricorso, hanno parlato più fonti arrivando ad elencare la natura di alcuni scritti. L’ultimo mistero di una storia infinita. Per questo Pietro Orlandi, il fratello della quindicenne figlia di un commesso della Casa Pontificia sparita il 22 giugno 1983 che non ha mai smesso di cercare la verità, ha deciso di rivolgersi allo studio dell’avvocato Annamaria Bernardini de Pace: a seguire la pratica sarà l’esperta rotale Laura Sgró. È il cambio di passo per rompere quel silenzio che dura da anni e coinvolge inevitabilmente le gerarchie della Chiesa. La strategia nuova che può portare a sviluppi inaspettati.
Le carte trafugate
Si torna dunque al 2012 quando i «corvi» del Vaticano rubano numerosi dossier riservati che diventano materiale di libri e articoli di giornali. L’indagine condotta dalla gendarmeria porta in carcere Paolo Gabriele, maggiordomo di papa Ratzinger, accusato di essere la «fonte». Non è l’unico, l’inchiesta fa emergere l’esistenza di un gruppo di persone che ha trafugato carte segrete o quantomeno è a conoscenza del loro contenuto. Gabriele però paga per tutti. Viene condannato e poi graziato. Quando il pontefice Benedetto XVI decide di dimettersi, le indiscrezioni accreditano la possibilità che ci siano altri dossier mai rivelati.
Nel 2015 in manette finiscono monsignor Balda e Francesca Chaouqui, accusati di aver consegnato ai giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi altri documenti che riguardano il settore finanziario della Santa Sede. Ma non solo. È un nuovo scandalo che scuote il Vaticano perché ad essere resi pubblici sono i documenti della Cosea, organismo voluto da papa Francesco con l’obiettivo dichiarato di rendere trasparente la gestione economica.
Le verifiche della gendarmeria si concentrano su tutti i fascicoli che potrebbero essere stati trafugati o comunque resi noti al di fuori delle mura leonine. E così si torna a parlare dell’esistenza di un dossier dedicato esclusivamente alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Viene accreditata la possibilità che contenga resoconti di attività inedite almeno fino al 1997. Proprio su questo si è deciso adesso di fare leva per cercare di scoprire chi e perché abbia ostacolato la ricerca della verità.
La segreteria di Stato
Nell’istanza si fa specifico riferimento ad «alcune fonti che riferiscono dell’esistenza presso la segreteria di Stato del dossier con dettagli anche di natura amministrativa dell’attività svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento». E poi si elencano gli atti già acquisiti dalla procura di Roma anche attraverso le rogatorie presso la Santa Sede. Una in particolare, datata 22 aprile 1994, nella quale veniva ammesso come «tutta la dolorosa vicenda fu seguita a fondo direttamente dalla segreteria di Stato».
Ecco perché viene ritenuto fondamentale il colloquio con Parolin. Del resto il cardinale è certamente espressione del nuovo corso, scelto direttamente da papa Francesco per sostituire al vertice della segreteria di Stato Tarcisio Bertone e così dare un segnale di rinnovamento rispetto a una gestione che era stata segnata da numerosi scandali, compreso quello dei conti «privati» aperti presso lo Ior. Finora l’alto prelato ha avuto due colloqui con Pietro Orlandi senza che nulla fosse poi accaduto. Ora c’è però un fatto nuovo, la scoperta di documenti che possono diventare preziosi per comporre un disegno ancora oscuro. Non a caso nell’istanza si cita quel principio del Compendio di dottrina sociale della Chiesa secondo cui «gli uomini sono tenuti in modo particolare a tendere di continuo alla verità, a rispettarla e ad attestarla responsabilmente». Una richiesta che si trasforma in un appello nei confronti del pontefice e delle gerarchie ecclesiastiche affinché diano conforto e giustizia a una famiglia che vive in un incubo infinito.
Il Fatto 19.6.17
La depressione di Trentin per il fallimento della sinistra
Nelle parole dell’ex segretario Cgil la disperazione per una crisi più grande dei piccoli personaggi di allora: le isterie di Occhetto, gli infantilismi di Bertinotti, la forsennata ambizione di Giuliano Amato
di Salvatore Cannavò
Un lucido lamento disperato per la fine della sinistra. I Diari di Bruno Trentin appena pubblicati, a dieci anni dalla sua morte, dalla casa editrice della Cgil (Bruno Trentin, Diari 1988-1994,Ediesse, 510 pg.) restituiscono le angosce psico-fisiche di un dirigente sindacale che incorpora, anche nella depressione, il cambio d’epoca e lo smarrimento della sinistra.
Il crollo del muro di Berlino, la fine dell’Urss, lo scioglimento del Pci, Tangentopoli, la crisi valutaria, la morte di Falcone e Borsellino, l’avvento di Silvio Berlusconi. Il fiato non basta a leggere in sequenza gli avvenimenti storici che si accavallano in quei cinque anni. L’allora segretario della Cgil, chiamato a dirigere il sindacato nel pieno di una crisi e dall’alto di una storia che lo aveva portato, da segretario della Fiom, a guidare l’autunno caldo, ne scrive in modo doloroso nei diari, pubblicati su iniziativa della compagna, Marcelle Padovani (Marie) e grazie al lavoro della Fondazione Di Vittorio della Cgil e di Iginio Ariemma.
Il libro si è già segnalato alle cronache soprattutto per i giudizi impietosi su alcuni personaggi. Dall’ “isteria e rancore monomaniaco” di Achille Occhetto, di cui si sottolinea a più riprese “la povertà culturale” al “lucido ed equilibrato” Massimo D’Alema che “sarà un buon segretario, ma non un riformatore” anche perché “i progetti non lo interessano se non sono la giustificazione di un agire politico”; dall’“avventurismo mascalzonesco” di Fausto Bertinotti con il suo “movimentismo parolaio”, al “vuoto progettuale” di Giorgio Napolitano; dalla “forsennata ambizione” di Giuliano Amato fino alla cultura da “mercanti di tappeti” di Cisl e Uil. Va meglio a Romano Prodi e al suo “corrucciato narcisismo”, molto peggio all’ex Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, “meschino e avido commis del capitale e traditore dello Stato”. Non si salva la Cgil dove Luciano Lama agita “una guerra per bande”, né l’amico Pietro Ingrao, i cui discorsi “attestano un dilettantismo retorico e narcisistico e sono anche un mio fallimento come quello di tutta una generazione”. Viene coinvolta anche Rossana Rossanda con i suoi “penosi balbettii”.
Il rancore amaro, non pensato per la pubblicazione, esprime la disperazione, letterale, per una sinistra immersa in “una cultura politica meschina (…) l’altra faccia, laida, dello sgretolamento del sistema comunista nell’Europa dell’Est, la vanificazione grottesca di decenni di lotte, di sacrifici, di lutti, di odi e passioni”. Trentin sente la crisi storica del movimento operaio: “Questi 40 anni che sono tutta la mia vita e prima ancora gli anni che vanno dalla prima guerra mondiale ad oggi sono stati irrimediabilmente perduti per tre quattro generazioni”. Di fronte al tracollo a Est si rende conto che “ciò che non sarà mai più come prima è la possibilità di contare sulla fiducia di milioni di uomini e di donne nell’ineluttabilità della storia”.
Solo un’altra testimonianza, ben più tragica, ha fatto coincidere così esattamente la disperazione politica per la fine di una utopia con quella esistenziale, il suicidio di Lucio Magri. Anche Trentin ha desideri di morte – “mi pare di dovermi gettare ai margini di un sentiero e morire” -, ma resta immerso nella depressione, appena dilatata dalla bellezza delle scalate in montagna e dalla montagna, letterale, di libri che legge e cita in continuazione, anche in inglese e francese.
La lettura imponente è la prova vivente dell’assillo: la soluzione alla crisi è il progetto, la discussione sull’identità e sui programmi. A Occhetto che vuole “solo cambiare il nome, poi si vedrà” propone una Conferenza programmatica, scelta che le “anime morte del Pds” non sono in grado di affrontare. Diverso sarà nella Cgil nonostante “l’involuzione morale”, i “giochetti politici” del capo della componente socialista, Ottaviano Del Turco, o la “demagogia delirante” di Fausto Bertinotti, il più citato nei diari.
Qui l’azione di messa “in salvo” passa per lo scioglimento delle componenti partitiche e per un dibattito interno rimodulato sul “programma”. Sarà questo a stabilire maggioranze e minoranze. E sul programma Trentin guarda alla Rivoluzione francese, al primato della “libertà” sulla “uguaglianza”. Più Robespierre che Marx anche se la tematica democratica va legata al movimento operaio in un binomio di valori. Nasce il “sindacato dei diritti” e, in pieno travaglio comunista per il cambio del nome, propone a Occhetto “il Partito del Lavoro”. Non sarà ascoltato e l’ex segretario del Pci, scrive Trentin, collocherà il Pds “alla destra di Craxi”.
Della controversa firma nel luglio ‘92, all’accordo sulla scala mobile e della paura di essere additato come responsabile del fallimento finanziario del Paese, si è già scritto molto. Meno dei giudizi dati sui protagonisti: la “miseria” di Amato e del suo “squallido” governo, Luigi Abete, “democristiano, piccolo capitalista assistito”, la “miseria delle reazioni elettoralistiche di gran parte del Pds”.
Ma al di là del lascito sindacale, con errori e contraddizioni, i Diari restituiscono più ampia la dimensione culturale, etica e intellettuale di un dirigente che ha intravisto inascoltato una crisi e una strada da intraprendere, quella della ricerca progettuale. Nessuna delle forze nate in quel bivio storico l’ha mai tentata. Non è un caso se la sinistra oggi non esista praticamente più.
Il Fatto 19.6.17
La sinistra del No a Mdp: “O con noi o con Pisapia”
La manifestazione di Falcone e Montanari a Roma. Il bersaniano Gotor contestato quando cita l’ex sindaco di Milano
di Fabrizio d’Esposito
“Anna e Tomaso”, con una sola “m”. A furia di sentirli chiamare, invocare, supplicare per nome – accade più di cinquanta volte – viene in mente Anna e Marco del compianto Dalla. “Anna e Tomaso”. Anna Falcone e Tomaso Montanari, che sono vestiti uguale, camicia bianca e jeans e pantaloni blu, hanno lo stesso portatile Mac poggiato sulle gambe e dominano la scena seduti su due candide sedie.
Via Merulana a Roma, alle dieci di mattina. Davanti al teatro Brancaccio c’è una festante ressa. Ritorna il popolo della sinistra. A dire il vero, la recente storia di questo popolo è un lungo elenco di teatri pieni e urne deludenti. Falcone e Montanari sono i volti nuovi di quel comitato del No che il 4 dicembre ha trionfato sull’arroganza del renzismo. Qualcosa è cambiato. Ci sono solo loro due sul palco e l’obiettivo è una lista civica nazionale di sinistra. Il teatro è stracolmo. Oltre 1.500 persone e video e audio per chi è rimasto fuori.
“Un’alleanza popolare per la democrazia e l’eguaglianza”. Un titolo che però non è un nome (ancora), precisa Montanari, incaricato della relazione introduttiva. Le prime file della platea sono una fotografia sparsa dell’universo antirenziano a sinistra. La pattuglia di Articolo 1 – Mdp è foltissima, anche senza Bersani: Massimo D’Alema, Roberto Speranza, Enrico Rossi, Arturo Scotto, Alfredo D’Attorre, Francesco Laforgia, Massimo Paolucci. Poi Sinistra Italiana dei due Nicola, Fratoianni e Vendola, e di Stefano Fassina nonché Possibile di Civati. C’è una delegazione di DeMa ma non de Magistris. Partiti e tanta, tantissima società civile e si scorgono pure Ingroia, Flores d’Arcais, Casarini e Agnoletto. La relazione di Montanari è durissima nella sua chiarezza e traccia un solido argine antirenziano.
Bersaglio di questo sentiment, l’unico che scatena le ovazioni della platea, è Giuliano Pisapia, autocandidatosi a federatore del centrosinistra con il fatidico Campo Progressista. L’ex sindaco di Milano – la cui leadership secondo l’acuto Livio Pepino esiste solo sulle pagine di Repubblica ma non nel Paese reale – persiste nella sua ambiguità nel rapporto con Renzi. Non a caso il redivivo Arturo Parisi sta provando a compattare un fronte ulivista con Romano Prodi ed Enrico Letta non ostile al Pd renziano.
Ma per questo popolo, ormai, “il Pd è un pezzo della destra” e Montanari non risparmia neanche i presenti, per le colpe del passato. La sua requisitoria contro la Terza Via blairiana in salsa bersanian-dalemiana rievoca una scena di 32 dicembre di Luciano De Crescenzo. È quando il personaggio interpretato da Enzo Cannavale, povero in canna, va a chiedere 100mila lire al fratello ricco e questi, per dargli i soldi, fa uno show di mezz’ora: convoca il pubblico ed elenca tutti i beni dissipati da Cannavale. Ecco, il presente D’Alema e l’assente Bersani sono come quel fratello povero quando Montanari, spietato e misericordioso allo stesso tempo, spiega cosa ha distrutto la sinistra: il sì a guerre illegittime, le privatizzazioni, la riforma Treu, la mancata legge sul conflitto d’interessi.
D’Alema, seduto tra Luciana Castellina e Vendola, gonfia le guance, in una sua tipica posa, e sbuffa, compulsando lo smartphone. Avrebbe voluto parlare, D’Alema, ma forse sarebbe stato troppo. Eppure dentro Articolo 1 è quello che ha le idee più nette su Pisapia, almeno in privato: “Un gigantesco cog…ne”.
Per Articolo 1, invece, interviene il bersaniano Miguel Gotor. E sono soprattuto fischi e contestazioni. Appena sale, un militante attempato grida contro l’uscita dall’aula di Mdp, al Senato, al momento di votare il ritorno dei voucher. È solo un assaggio. Il coraggioso Gotor prova a dire che il primo luglio bisogna andare alla manifestarione romana di Pisapia e sono altri fischi. Indi, una ragazza di DeMa invade il palco e lo interrompe: “Perché fate parlare lui e non me?”. Ai bersaniani tocca la parte più ingrata: costruire un ponte tra i “civici” e il riflusso ulivista e filorenziano di Pisapia.
Gli interventi vanno avanti fino alle tre e mezzo del pomeriggio, con la replica finale di Anna Falcone. Si parla di lavoro e povertà ma non di questione morale su Consip e Banca Etruria. Maurizio Acerbo, segretario di Rc, e il rappresentante di Libera suscitano altri entusiasmi. Formule e alleanza a parte, è la giovane Marta Nalin da Padova a dare la definizione giusta di questo ennesimo tentativo: “Reinventare i corpi intermedi senza demonizzare i partiti e senza santificare la società civile”.
Repubblica 19.6.17
La sinistra: “Mai col Pd” E la platea fischia Gotor
di Monica Rubino
ROMA. Mai con il Pd. Forse con Mdp e Pisapia. È il nodo politico emerso dall’appello per una sinistra civica e unita lanciato ieri in un teatro Brancaccio strapieno da Tomaso Montanari, presidente di Libertà e Giustizia, e Anna Falcone, avvocata anti-referendum. «No a una riedizione della lista Arcobaleno con le sagome di cartone della società civile», chiarisce in camicia bianca Montanari dal palco, scenografia minimal, gabbiani in volo su sfondo rosa pastello a indicare l’alba di un nuovo soggetto politico.
L’ambizione è costituire una lista unica che riunisca le varie anime della sinistra escluso il Pd, «ormai un pezzo della destra», puntando a numeri a doppia cifra. E in autunno una grande assemblea nazionale deciderà nome, progetto, simbolo e criteri per le candidature.
Seduto in prima fila, fra Nichi Vendola e Luciana Castellina, c’è anche Massimo D’Alema, che segue le sei ore di interventi prendendo appunti, senza alzarsi nemmeno una volta. E rimanendo impassibile quando un esponente del partito da lui fondato viene contestato: «Mi sento a casa anche di fronte a chi protesta, non sciupiamo questo fiore», dice Miguel Gotor, senatore di Mdp, dopo aver invitato a una stagione di sinistra di governo in discontinuità con il renzismo.
Ma qualche fischio gli arriva lo stesso quando annuncia la sua partecipazione allo showdown del primo luglio lanciato da Campo progressista in Santi Apostoli, la piazza romana dell’Ulivo. Da parte sua l’ex sindaco rifiuta l’invito al Brancaccio con un messaggio: «Non ci sono le condizioni perché io venga», scrive. Montanari ribatte: «Non è un buon inizio ma ha il pregio della realtà.
Aspettiamo il primo luglio per sapere che pensa Pisapia di Jobs Act, Buona scuola e il resto».
L’accusa rivolta da sinistra agli scissionisti del Pd è quella di ambiguità: la scorsa settimana i senatori di Articolo 1 sono usciti dall’aula per salvare il governo sul voto di fiducia alla manovrina che reintroduce i voucher. Nicola Fratoianni, Sinistra Italiana, fa appello all’unità «senza sacrificare la credibilità». E Pippo Civati, leader di Possibile, conclude: «Non chiudiamo porte in faccia .
Se Pisapia si unisce bene, se va con Renzi non lo trattengo».
Corriere 19.6.17
La post-verità da Platone fino a Trump
di Adriana Cavarero
Gli Oxford Dictionaries hanno eletto «post verità» parola internazionale dell’anno 2016, a seguito del controverso referendum sulla «Brexit» e dell’elezione presidenziale americana ugualmente contestata, che hanno contribuito a diffondere questo termine tanto nei mass media che nel gergo politico. Il dizionario definisce «post-verità» come «in rapporto o contestuale a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica rispetto alla leva esercitata sulle emozioni e sulle credenze personali». Il prefisso «post», in questo caso, non significa «successivo», ma anzi denota un’atmosfera in cui la verità è irrilevante e prevalgono le credenze radicate nelle emozioni.
Ci si chiede se una politica che fonda la sua agenda sul principio della verità, scartando il regno emotivo di sentimenti e credenze, sia mai esistita nell’intera tradizione politica dell’Occidente.
A dire il vero è esistita, ma solo nel registro astratto della teoria: nella fervida immaginazione politica di Platone.
Nella Repubblica, Platone esamina l’antagonismo tra una politica costruita sulla verità, che corrisponde alla sua concezione della polis ideale, e una politica costruita invece sulle emozioni, ovvero sul pathos, la patologia di quella entità politica collettiva che egli chiama «i molti» — hoi polloi — e che descrive in modo allegorico come «un grosso animale».
Il contesto in cui questa celebre e ignobile immagine emerge è un discorso di Socrate sulla natura del vero filosofo, che si distingue dalla natura di altri esperti di logos nell’Atene contemporanea, i sofisti. Nello sviluppare una speciale tecnica di linguaggio che riesce ad emozionare «i molti» i sofisti si prestano a pagamento a istruire i futuri leader politici su un discorso che miri a manipolare il pubblico e, tecnicamente, a conquistarsi i voti degli elettori. Platone paragona il sofista a qualcuno che «avesse compreso gli impulsi e i desideri di un animale da lui allevato grande e forte e sapesse come bisogna avvicinarsi a lui e quando e per quali motivi diventa più irascibile o più mite, quali suoni è solito emettere a seconda delle circostanze, e quali, se proferiti da altri, lo ammansiscono e lo irritano; e tutte queste conoscenze, apprese grazie a una lunga dimestichezza, le chiamasse sapienza e si volgesse a insegnarle quasi avesse istituito un’arte;… tutto in base alle opinioni di quel grosso animale».
È risaputo che le teorie antidemocratiche di Platone sono state storicamente cooptate dalla tradizione reazionaria e dall’estrema destra, persino dalle ideologie naziste. Eppure vale la pena riflettere sulla sua critica della democrazia. Platone sostiene che la democrazia si trasforma inevitabilmente in demagogia, un regime politico che provoca la corruzione del popolo tramite la manipolazione dell’opinione pubblica e crea governanti che accrescono la loro popolarità sfruttando il pregiudizio e l’ignoranza di molti, rinfocolando le loro emozioni e contrastando le decisioni ragionate. Questi leader si specializzano nel coltivare, incrementare, riprodurre e riformulare gli impulsi del grosso animale, allo scopo di stabilire e affermare un sistema di potere fondato sul pathos, una forma di «politica patologica». In questo senso, la polis ideale di Platone è all’opposto: come governanti, i filosofi sono in realtà guidati dalla verità del logos, ovvero dalla capacità della ragione di controllare e reprimere gli impulsi delle parti più basse e viscerali. I filosofi, sostiene Platone, devono essere educati ad amare la verità e provare vergogna nel mentire.
Al contrario, dato che i politici educati dai sofisti guardano al logos non come una struttura che racchiude l’ordine della verità, ma piuttosto come uno strumento di azione per manipolare le emozioni della gente, essi mentono. La verità è irrilevante in questo contesto patologico. Talmente irrilevante che qualunque cosa il grosso animale creda o sia persuaso a credere, ciò corrisponde al vero. Il concetto della post-verità applicata alla politica, come suggerisce il dizionario di Oxford e come Platone sembra presagire, non liquida la verità, bensì la rende irrilevante.
La posta in gioco non è la verità, bensì il potere: sia il potere generalmente definito come dominio sugli altri tramite mezzi di persuasione oppure, più nello specifico, come caratteristica distintiva di operazioni linguistiche capaci di dimostrare l’irrilevanza e, in ultima analisi, la superfluità del vero.
Platone, antidemocratico ed elitista, è il primo a detestare i tecnici della manipolazione del popolo che trasformano l’esercizio della menzogna in un’arte politica efficace, accettabile e gradevole, l’arte del discorso acrobatico, una specie di funambolismo verbale assai divertente. Per questo motivo Platone non esita a definire ciarlatani i sofisti e i loro emuli in politica, aggiungendo che la loro esibizione corrisponde ai gusti popolari degli spettatori del circo.
Corriere 19.6.17
Tre giorni di incontri a Brighton dedicati alla filosofa italiana
«Giving life to politics: the work of Adriana Cavarero» è il titolo del convegno internazionale dedicato al pensiero della filosofa italiana, docente di Filosofia politica all’università di Verona. Il Cappe (Centro di Filosofia applicata, Politica & Etica) dell’università di Brighton ospiterà tre giorni di discussioni, da oggi al 21 giugno, e una cinquantina di relazioni per affrontare il contemporaneo attraverso i lavori che hanno caratterizzato il lavoro della filosofa: dalla teoria politica alla fenomenologia della voce, dal pensiero della differenza sessuale all’etica altruistica (che Cavarero ha trattato in Inclinazioni: critica della rettitudine , edito da Raffaello Cortina). Comune a tutto il pensiero di Cavarero è la preoccupazione per l’unicità, l’insistenza sulla vulnerabilità della condizione umana e un’attenta critica della metafisica occidentale. La svolta populista e il fenomeno del terrorismo sono tra le questioni su cui si confronteranno studiose e studiosi provenienti dalle università di tutto il mondo e da diverse discipline. A introdurre i lavori la filosofa americana Judith Butler.
Corriere 19.6.17
«Il Papa da Don Milani è un bel segno Non era un marxista, ma un prete vero»
di Gian Guido Vecchi
CITTÀ DEL VATICANO «Salii da Firenze con un compagno di seminario, su una Lambretta. Andare a trovare Don Milani a Barbiana era proibito. Appena ci ha visti, per prima cosa ha chiesto: “Voi due, avete il permesso del rettore?”. E noi: no. Aveva uno sguardo che ti inchiodava. “Male”, ci fa. “Già solo per questo vi sbatterei fuori, perché siete disobbedienti!”». Il cardinale Gualtiero Bassetti sorride, «era fatto così, ti aggrediva per metterti alla prova, “L’ho sempre detto, io, che sarei l’unico a poter fare l’educatore in seminario!”, ma poi ci fece entrare…».
I tempi cambiano. Il giovane seminarista di allora è appena stato scelto dal Papa come presidente della Conferenza episcopale italiana. E domattina Francesco andrà a Barbiana e prima ancora a Bozzolo, nel Mantovano, per pregare sulle tombe di don Lorenzo Milani e don Primo Mazzolari, ovvero il prete trentunenne che nel ’54 fu mandato in esilio ecclesiastico nel Mugello e il parroco che ad ogni libro veniva messo all’indice dal Sant’Uffizio.
Che cosa significa per la Chiesa italiana, eminenza?
«È un segno molto bello. Il Papa parla anche attraverso i segni. E vuole indicare ai sacerdoti e ai vescovi di oggi due modelli di “Chiesa in uscita”, due pastori che “hanno l’odore delle pecore”, capaci di cogliere i segni dei tempi e sempre dalla parte dei dimenticati, degli ultimi. Le più belle pagine della Chiesa sono state scritte da anime inquiete, diceva don Mazzolari. Vale anche per don Lorenzo. Erano diversi ma entrambi profetici, lontani dalle etichette cui si tenta talvolta di ridurli».
Quali etichette?
«A don Milani, per esempio, hanno cucito addosso dei vestiti che non erano suoi. È una personalità complessa, difficile da afferrare perché aveva un pensiero fermo nei principi ma in costante evoluzione. L’hanno definito ribelle, disobbediente alla sua Chiesa, il prete rosso. Ma lui, come don Mazzolari, è sempre stato fedele alla sua Chiesa, anche nei momenti più difficili. Ed era temuto non solo dai conservatori. Ricordo che una volta disse: il vescovo mi proibisce di parlare alla casa del popolo di Vicchio e io obbedisco, ma faccio un piacere ai comunisti».
E perché?
«Perché parlava chiaro, e non era tenero con nessuna parte. La verità era quella e la diceva. Già nelle esperienze pastorali, del ’54, accusava i comunisti di tradimento nei confronti dei poveri: nelle case del popolo date giochi e valigette borghesi! Li invitava a trasformarle in scuole, piuttosto».
Per quale ragione fu esiliato a Barbiana?
« Talvolta è destino dei profeti il non essere compresi. Dava fastidio la sua scelta radicale per i poveri, la scuola, il suo lottare contro le ingiustizie. Ragazzi sfruttati, in fabbrica per sedici ore con salari minimi. Aveva capito che i ricchi possono scegliere quello che vogliono ma per i poveri c’è solo un destino bieco. E il Vangelo lo portava a stare dalla parte degli ultimi, i dimenticati, non perché fosse un sociologo né tantomeno un marxista, ma perché era un prete. Tanti fanno confusione: poteva arrivare a conclusioni simili, ma diverse erano le premesse. Penso alla tonaca...».
La tonaca?
«Quando Paolo VI autorizzò il clero a indossare il clergyman , credo sia stato l’unico della nostra diocesi che rimase in tonaca. Forse aveva letto Bernanos, il curato di campagna che dice: porto una veste da beccamorto, ma annuncio il Risorto. Un prete fino in fondo. In una lettera del 25 febbraio 1952 scrive che l’ingiustizia sociale non è cattiva anzitutto perché danneggia i poveri ma perché è peccato, offende Dio e ritarda il suo regno. Anche la cultura diventava per lui uno strumento per evangelizzare i poveri. La scuola per i poveri, gli operai, i contadini, divenne il mezzo di questa sua catechesi: crescere i giovani per farne uomini più liberi, più giusti e in fondo più cristiani».
Il Vangelo «sine glossa»…
«Don Milani veniva da una famiglia altoborghese, colta. Arrivò a Barbiana e non c’era nulla, niente acqua, né luce, né gas, né strade. Bisognava vederla, a quei tempi: solo una piccola canonica in cima a un poggio in mezzo al bosco, e 84 anime. La madre gli scrisse: vedrai, il cardinale ti ha mandato là per tenerti lontano dalle chiacchiere, ma poi torni. Lui le rispose: hai capito male, la dignità di un prete non sta nel numero di fedeli, ma nel modo in cui si rapporta al Vangelo».
Corriere 19.6.17
Indagine sul tempo
Oscillante tra scienza e fede il meteo sta così diventando la religione dei nostri giorni
di Roberta Scorranese
Se pensiamo che dalle previsioni meteo dipendono le nostre vacanze, il prezzo del caffé, una miriade di voli internazionali quotidiani, i risparmi di più di una persona negli Stati Uniti (sì, lì ci si scommette in Borsa), la vittoria di un atleta ai Giochi Olimpici (gli allenamenti di chi abita in alta quota sono diversi da quelli che vivono vicino al mare) e persino il mercato dell’energia (in base alle previsioni meteo chi governa decide, ad esempio, quanto gas acquistare), come meravigliarsi dell’espressione «Piove, governo ladro»?
Il meteo è politica. Meraviglia piuttosto il fatto che ancora oggi ci siano previsioni sbagliate e che quelle attendibili a rigor di Ministero dell’Aeronautica si fermino a cinque giorni. «Quelle che vanno oltre sono cabala o giù di lì», precisa il colonnello Guido Guidi, popolare meteorologo e tra gli ospiti dell’incontro Paura e coraggio del meteo , a La Milanesiana 2017.
Ma allora, dato il numero impressionante delle app meteo scaricate e visto l’interesse quasi ossessivo per l’argomento (che si traduce in trasmissioni televisive e libri di successo come Stato di Paura di Michael Crichton o nella proliferazione di specialisti competenti e istrionici come Luca Mercalli), non è che forse è proprio della cabala che abbiamo bisogno? Non è che sentiamo la necessità di un rito antico quanto il mondo, quella danza della pioggia o del sole che propiziavano raccolti e vite all’alba del pianeta?
Guidi puntualizza: «Più che altro, la sensazione è che la gente abbia la memoria corta. Inverni molto rigidi o estati molto calde si susseguono anche a brevi intervalli di distanza, ma ogni volta è come se fosse una grande novità». Alla quale proviamo a dare persino un nome mitologico: Caronte, per esempio. Nulla di più distante dalla precisione dei modelli matematici con i quali l’Ecmwf, il Centro Europeo per le previsioni meteo a medio termine di Reading, in Inghilterra (il cui datacenter arriverà presto a Bologna) è diventato il più affidabile del mondo.
«E il modo in cui si prevede il tempo che farà è semplice — dice Guidi —: si fa una fotografia il più possibile completa della situazione attuale e poi si sviluppano proiezioni matematiche, perché il sistema del clima obbedisce alle leggi della fisica e della chimica». E come nasce l’errore? «Proprio da quella fotografia iniziale: se è incompleta, la visione di partenza sarà sgranata e può annidarsi qui lo sbaglio. Perché ci basiamo sui rilevamenti che arrivano dalle stazioni meteorologiche sparse su tutto il pianeta. Se una zona, specie d’acqua, ne ha di meno, ecco che abbiamo meno materiale sul quale fare proiezioni». Il salto di qualità avverrà, dice lo specialista, quando saremo in grado di utilizzare meglio e con maggiore uniformità i satelliti. Per ora, eccoci pendenti dalle labbra dei meteorologi o dalle app che promettono aggiornamenti addirittura orari. Paura e coraggio. Timore di fallire e voglia di osare anche al di là dei confini della scienza. Tornando alla politica, un altro ospite de La Milanesiana, lo scrittore francese Olivier Rolin, ha scritto Il meteorologo (Bompiani) la storia di Aleksej Vangengejm, comunista e anticipatore dell’energia eolica: popolarissimo nell’Urss, fu mandato a morire da Stalin perché accusato di aver provocato una carestia. Esecuzioni sommarie a parte, anche oggi la responsabilità di chi prevede uragani e tifoni è enorme.
«Credo che sia anche per questo potere invisibile che in tv queste figure diventano quasi mitiche» osserva Duccio Forzano, regista che dal 2005 al 2016 ha curato la regia di «Che tempo che fa» su Rai 3. A La Milanesiana Forzano presenterà il suo romanzo Come Rocky Balboa (Longanesi) e racconterà come e perché la pioggia gli dà coraggio, mentre il sole no. La meteoropatia, allargando il concetto, influisce sulla vendita dei medicinali, mentre Andrea Giuliacci nel suo Il meteo dalla A alla Z spiega che dalle previsioni estive dipende finanche il fatturato del settore automobilistico: si venderanno più o meno decappottabili. E infine, come avremmo fatto a godere di un dipinto (di arte parlerà Arturo Carlo Quintavalle) come La Tempesta di Giorgione senza quella tensione che nasce dal temporale imminente?
La Stampa 19.6.17
A sinistra fallisce la prova di unità
La platea anti-Renzi sfida Pisapia
All’assemblea dei comitati del No al referendum accoglienza gelida per D’Alema e gli ex dem Fratoianni: “Il progetto di Giuliano è incomprensibile”. Prodi: basta lacerazioni, farò da Vinavil
di Alessandro Di Matteo
Se non fosse per Matteo Renzi, probabilmente non si sarebbero mai ritrovati nella stessa sala Massimo D’Alema e Marica Di Pierri, l’attivista ambientalista con i capelli rasta che inveisce contro il «capitalismo rapace». Al teatro Brancaccio di Roma va in scena il tentativo di mettere insieme una lista di sinistra alle prossime elezioni, o meglio uno dei tentativi visto che anche Giuliano Pisapia lavora a un obiettivo teoricamente simile. L’ex sindaco di Milano non c’è, e del resto da queste parti non è particolarmente amato: non gli viene perdonato il sì al referendum voluto, e perso, da Matteo Renzi, e non piace nemmeno quel canale che continua a mantenere aperto verso il Pd. I padroni di casa sono Tomaso Montanari e Anna Falcone, gli animatori dei comitati per il no al referendum che ora provano a ripartire da quel successo per costruire «una vera coalizione civica di sinistra». Lo fanno anche con la benedizione di D’Alema, che fa esercizio zen per non raccogliere la diffidenza nei suoi confronti che circola in platea.
La sala è piena, molti restano fuori. C’è Sinistra italiana, Rifondazione, Pippo Civati, l’Arci. Si affaccia Vittorio Agnoletto, Sergio Cofferati è assente per motivi di salute ma manda un messaggio. Tutta gente che non vuole avere nulla a che fare con Renzi e che guarda di traverso anche gli scissionisti Pd che provano a fare da ponte con Pisapia. E poi, appunto, ci sono i bersaniani Miguel Gotor e Roberto Speranza. «È gente che ha votato le riforme di Monti», mugugnano in tanti in sala.
Costruire la lista anti-Renzi è cosa complicata. Ne sa qualcosa Gotor, che appena sale sul palco viene interrotto da una militante: «D’Alema in prima fila è una presa in giro. Lui, Bersani, Vendola… Il vecchio che ritorna», si sfoga la contestatrice con i giornalisti dopo essere stata allontanata. Non è una posizione isolata, Gotor ne ha la conferma quando invita tutti a partecipare anche alla manifestazione che Mdp e Pisapia terranno il primo luglio col titolo «Insieme»: di nuovo fischi, mormorii. Un clima che preoccupa Arturo Scotto, ex Sel, ora in Mdp: «Dobbiamo dire no ai veti. Con Renzi non c’è intesa possibile, ma non possiamo regalargli Pisapia».
Montanari e la Falcone cercano di ammorbidire la platea verso gli ex Pd, chiariscono anche che non ci sono veti nemmeno verso chi ha votato sì al referendum, ma mettono anche le cose in chiaro: «Se l’unica prospettiva della sinistra era allearsi al Pd di Matteo Renzi, noi non avremmo nemmeno votato». Va bene tutto, ma Renzi no: bisogna porsi in chiara alternativa al Pd. Forse per questo D’Alema resta impassibile anche quando Montanari attacca i governi di centrosinistra, quelli degli Anni 90 nei quali lui e Bersani erano ai posti di comando: «L’inizio dello smontaggio della Costituzione, la riforma Treu, la Turco-Napolitano, la guerra in Kosovo (gestita proprio da D’Alema come premier, ndr), il conflitto di interessi nelle telecomunicazioni».
Verso Pisapia c’è gelo e nessuno sembra ascoltare Romano Prodi che si ripropone in versione «Vinavil» per rimettere insieme i pezzi del centrosinistra diviso da «micidiali rotture personali». Lo chiarisce la Falcone: «Non c’è nessun centrosinistra da unire, la terza via ha fallito. Non vogliamo unificare la sinistra, vogliamo costruire la sinistra che non c’è ancora». Montanari cita esplicitamente l’ex sindaco di Milano: «Ci aspettiamo il primo luglio una risposta chiara». Bisogna scegliere, è il senso, il Pd o la sinistra. Una richiesta simile a quella di Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana. «Io il progetto di Pisapia non l’ho ancora capito. Nessun veto ma a Renzi non si può rispondere tornando a parlare di Ulivo, si rischia di sembrare inutili…». Qualcuno, come Vincenzo Vita, ex Pd ora con Civati, dice esplicitamente ciò che molti sperano: «Il dualismo con Pisapia si risolverà perché Giuliano capirà che non c’è spazio accanto al Pd».
Corriere 19.11.17
Qualcosa non quadra a sinistra
di Paolo Mieli
A conclusione del vivace incontro dell’associazione «Libertà e Giustizia» tenutosi ieri al teatro Brancaccio di Roma, qualcosa ci dice che la prospettata costruzione di un unico movimento alternativo al Pd renziano (un Pd considerato ormai dal loro leader Tomaso Montanari «parte della destra») si va facendo più incerta. Aspettiamo il primo luglio quando si riuniranno i seguaci di Giuliano Pisapia, ma già fin d’ora c’è qualcosa che non quadra. Del resto nei giorni scorsi Montanari, aveva rimproverato a Pisapia una presunta predilezione per Blair rispetto a Corbyn, la proposta di Giorgio Gori a governatore della Lombardia (circostanze negate dall’ex sindaco di Milano), ma soprattutto l’innegabile posizione da lui assunta al momento del voto dello scorso 4 dicembre: «Non sono sicuro che chi ha sostenuto il Sì al referendum sia la persona giusta» per guidare la grande coalizione civica di sinistra, ha detto lo storico dell’arte. Dopo l’assemblea del Brancaccio, si conferma l’impressione che il giudizio sul 4 dicembre sia dirimente per la scelta del leader del futuro raggruppamento che dovrebbe far concorrenza al Pd. Anche se, ad essere lineari, per paradosso Silvio Berlusconi — che al referendum votò No, assieme all’intera destra — dovrebbe avere più titoli non solo di Pisapia ma perfino di Enrico Letta e di Romano Prodi i quali, come è noto, si pronunciarono per il Sì.
Dietro a tale questione, poi, se ne nasconde un’altra, forse ancora più rilevante: quella dei rapporti di questa nuova sinistra — che, tra l’altro, si è data come ambizioso orizzonte «il superamento delle diseguaglianze e delle ingiustizie» (Anna Falcone) — con il movimento di Grillo. Rapporti che restano benevolmente interlocutorii (anche se Montanari lo ha definito «prigioniero di un’oligarchia imperscrutabile») a dispetto delle posizioni che Grillo stesso e i suoi hanno preso di recente su rom e migranti. Machiavellismi dei leader? Non solo. Qualche giorno fa il Fatto ha pubblicato un sondaggio sulle intenzioni di voto in relazione alla prefigurata «Lista unica a sinistra del Pd». Colpiva che, dei potenziali elettori di tale raggruppamento, il 62% suggeriva di mettere fin d’ora in cantiere un’alleanza con il Movimento Cinque Stelle e soltanto il 25% chiedeva di fare lo stesso con il Pd (il 9% preferiva non concedersi a nessun patto e predisporsi a restare all’opposizione). A corroborare l’opzione pentastellata, il quotidiano diretto da Marco Travaglio pubblicava un articolo di Antonio Ingroia che aderiva alla proposta di «un’alleanza per la Costituzione» che avrebbe trovato nel Movimento Cinque Stelle il proprio interlocutore naturale. A questo punto la domanda da porsi è: può una lista di sinistra presentarsi alle elezioni con la prospettiva di appoggiare, dopo il voto, un governo composto da seguaci di Di Maio, Di Battista, in eventuale compagnia di Salvini? E non risulta questo un elemento di debolezza quantomeno pari a quello che, ai simpatizzanti della progettata lista, si prospetta con la possibile intesa postelettorale tra Renzi e Berlusconi?
Il sondaggio del Fatto annunciava inoltre che la Sinistra unita, se guidata da Roberto Saviano, Stefano Rodotà o Pier Luigi Bersani (Pisapia si classificava soltanto quarto) avrebbe potuto aspirare a un ammontare «potenziale» del 16 per cento dei voti. Non male. Anche se, a leggere meglio i dati, si scopriva che al momento Antonio Noto (l’autore della ricerca demoscopica) assegnava alla compagine di nuova sinistra un «voto certo» assai più contenuto: attorno al 4%. Il che induceva a un qualche raffreddamento degli entusiasmi. Qualche giorno dopo, infatti, sempre sul quotidiano di Travaglio, Luciano Canfora è intervenuto per ricordare i tempi della nascita di Rifondazione comunista quando gli allora fuorusciti dal Pci erano sicuri di ottenere risultati strepitosi scorrazzando in «chissà quali praterie», ma dopo un po’ di tempo dovettero constatare che «le percentuali si assottigliavano, fino a divenire quasi irrilevanti». Rimembranze che adesso inducevano l’antichista a considerazioni più ponderate e ad accontentarsi, alle prossime elezioni, di un 6% dei voti, che per le sue valutazioni — diceva — sarebbe un «bottino significativo».
Questa cautela confligge però con una certezza che è quasi dogma per quanti sono schierati a sinistra del partito di Renzi. I rappresentanti politici dell’area di cui stiamo parlando si presentano come portabandiera di quegli elettori («milionate», li ha quantificati Bersani) che nell’era renziana avrebbero abbandonato il Pd in tutti i campi: tessere, primarie, urne. Gli scissionisti del Pd parlano, appunto, come se avessero in tasca la chiave per trattenere o riportare a casa quelle donne e quegli uomini che si sono allontanati dal loro ex partito. Può darsi che abbiano ragione, che sia sufficiente dichiararsi contro i voucher, la «buona scuola», il Jobs act, a favore della reintroduzione dell’articolo 18 e quei milioni di fuggiaschi torneranno alla dimora dei tempi passati. Al momento però non esiste prova che questa prospettiva sia certa. Forse, adesso che le elezioni hanno ritrovato la loro scadenza nella fine naturale della legislatura, la copiosa nomenklatura che si colloca a sinistra del Pd avrebbe il tempo di dimostrare una qualche sintonia con quel popolo di fuggitivi. Come? Accantonando la già annunciata sfilza di festose assemblee autunnali e allestendo, invece, proprie primarie, primarie beninteso alternative a quelle del Pd che si sono già tenute e con i risultati che conosciamo. Tale consultazione preventiva darebbe prova della loro capacità di mobilitazione e consentirebbe l’individuazione di un leader alternativo a Renzi, riconosciuto da tutti loro. Siamo sicuri che quando vedesse quei milioni di ex transfughi tornati a fare la coda davanti ai gazebo allestiti da Pisapia, Montanari, dalla Falcone, da Nicola Fratoianni, Pippo Civati, Marco Rizzo, Maurizio Acerbo (nuovo segretario di Rifondazione comunista), Landini, Fassina e Bersani, anche Canfora tornerebbe a essere più ottimista. Fino a quel giorno, però, il dubbio che la somma di decine di gruppi della sinistra estrema, sigle della società civile e movimenti del ceto medio riflessivo, faccia numero quando prende parte a convegni autocelebrativi, ma non dia poi nelle urne i risultati sperati, sarà legittimo.
Del resto il passato è lì ad indurre a questo genere di esitazione. Alla fine degli anni Sessanta, coloro che militavano a sinistra del Pci guardarono con simpatia al Partito socialista di unità proletaria (nato, nel 1964, da una costola del Psi) che — sotto la guida di personaggi del calibro di Vittorio Foa, Lelio Basso, Tullio Vecchietti, Lucio Libertini, Dario Valori — appariva come la compagine più adatta ad intercettare l’onda movimentista del Sessantotto. Dopo un iniziale ma contenuto successo (ottenuto nel 1968), il Psiup reputò saggio accantonare l’identità originaria e mettersi nelle condizioni di poter raccogliere tutti i frutti che cadevano dagli alberi della sinistra extraparlamentare. Tutti, ma proprio tutti, anche correndo il rischio di ottenerne una macedonia dall’incerto sapore. Risultato: alle elezioni politiche del 1972 quel partito, a sorpresa, non conquistò seggi né alla Camera, né al Senato. Un esponente socialproletario, Mario Albano, ironizzò sulla circostanza che da quel momento in poi la sigla Psiup sarebbe stata letta come acronimo di Partito Scomparso In Un Pomeriggio. A quell’epoca, ricordiamolo, si votava in regime di proporzionale. E non c’era neanche la soglia del 3 per cento.
La Stampa 19.6.17
Gotor fischiato ma felice
“Meglio la contestazione del servilismo renziano”
Il senatore Mdp: invito tutti alla kermesse del primo luglio
Miguel Gotor, lei è intervenuto all’assemblea del teatro Brancaccio a nome di Mdp: si aspettava i fischi e le contestazioni?
«La verità è che ci sono stati fischi, ma anche apprezzamento e consenso. Li avevo messi in conto. Non mi fa paura il dissenso, ma il conformismo, il servilismo. In questi anni nel Pd ho visto cose…».
La signora che l’ha contestata dice che lei, Bersani e D’Alema siete il vecchio che ritorna.
«È un atteggiamento settario, contro cui polemizzava già Nenni: a sinistra c’è sempre uno più puro che ti epura. Il settarismo è da sempre il male di certa sinistra. Non dobbiamo escludere, ma includere. Naturalmente, a partire dalle cose da fare: lavoro, lotta alle diseguaglianze, scuola, beni culturali».
Mettere insieme la sinistra di Montanari e Falcone con quella di Pisapia sarà difficile…
«Ho invitato la platea a venire il primo luglio all’assemblea che faremo con Pisapia e Bersani. Serve chiarezza sui programmi. L’unità è un bene prezioso, ma non a tutti i costi. Ci interessa una proposta che sia in discontinuità con le politiche del renzismo. Poi viene il leader, lo sceglieremo in modo partecipato. La parola chiave è insieme. Dobbiamo essere alternativi alla destra, sfidanti con i 5 stelle e competitivi con il Pd renziano».
Prodi invita a mettere da parte i veti, anche su Renzi…
«Io credo che Renzi abbia distrutto il centrosinistra come lo abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni. Serve un nuovo centrosinistra con dentro una sinistra di governo. Ora Renzi propone un listone con Alfano e la Lorenzin, dieci giorni fa faceva l’accordo con Berlusconi: non esiste in natura un centrosinistra che contiene la sinistra e anche la destra. È un tradimento dello spirito originario del Pd».
Lei parla di sinistra di governo, ma buona parte della platea di ieri è lontana anni luce da una linea di governo. L’antirenzismo sembrava il vero collante…
«Per noi il progetto è una sinistra di governo. Chi ha altre idee in testa… Amici come prima! E’ vero, in platea c’erano persone lontane da questo spirito. Tesserà chi ha più filo».
Pisapia sembra meno drastico sul Pd…
«La differenza forse è che Pisapia non è mai stato nel Pd e non ha conosciuto da dentro la mutazione genetica che ha subito. Resta il fatto che in questa fase storica il centrosinistra andrà ricostruito fuori, questa è la sfida di oggi e Pisapia lo sa».
[a. d. m.]
La Stampa 19.6.17
La linea del Pd: disinnescare le mozioni per evitare nuovi imbarazzi su Lotti
I timori dei dem sull’ipotesi di rivelazioni dell’ad Marroni
di Fabio Martini
Con un’abile operazione a tenaglia il Pd è riuscito per qualche ora a spegnere i riflettori che stavano per riaccendersi sul filone «Consip-fuga di notizie» che chiama in causa l’entourage di Matteo Renzi, ma nei prossimi giorni il leader democratico sarà egualmente chiamato a gestire una vicenda che rischia di creargli nuovi grattacapi in termini di immagine. Per tre motivi. Il primo: una volta decaduti i vertici della Consip, teoricamente dovrebbe cadere qualsiasi ulteriore discussione parlamentare su tutta la vicenda, ma le opposizioni non sono di questo avviso e domani al Senato ci sarà bagarre sul caso.
Secondo: l’oscurissima vicenda della quasi certa falsificazione di prove a carico del padre di Matteo Renzi sembrava avesse distolto centralità a un altro filone dell’inchiesta Consip, quella sulla fuga di notizie sull’indagine a suo tempo avviata da parte della magistratura. Un’attenzione che invece si è ora riaccesa, in particolare attorno all’enigma più insidioso: qualcuno dentro il governo sapeva dell’indagine sulla Consip e come ha fatto a saperlo? Oppure si è inventato tutto l’ad di Consip Luigi Marroni, che lo ha rivelato? E il terzo grattacapo che incombe sul Pd riguarda proprio Marroni, super-manager un tempo vicino a Renzi e ora costretto a dimettersi dall’azione concentrica del Pd e del ministero dell’Economia: prima o poi potrebbe rendere pubblico, almeno in parte, ciò che ha detto in un interrogatorio ai magistrati – di Napoli e di Roma - come persona informata dei fatti?
A riaccendere i riflettori sulla vicenda Consip-fuga di notizie è stato un ordine del giorno presentato al Senato su iniziativa di Gaetano Quagliariello, il «dottor Sottile» del centrodestra, col quale si chiedeva il rinnovo dei vertici della centrale degli acquisti della Pa. Con una domanda di fondo: il governo crede all’ad Consip Marroni, che ha raccontato di essere stato informato dell’indagine tra gli altri dal sottosegretario Luca Lotti, braccio destro di Renzi? Oppure crede a Lotti, che nega? Un’ambivalenza sulla quale il governo è riuscito a galleggiare per mesi: da una parte il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che ha rinnovato due volte la fiducia a Marroni e dall’altro Luca Lotti, che ha fornito ai magistrati un versione opposta a quella dell’ad di Consip. Davanti all’iniziativa di Quagliariello, il gruppo Pd del Senato ha subito presentato una mozione dal contenuto simile. Come ha spiegato il senatore del Pd, il renziano Andrea Marcucci, «Consip ha bisogno di una governance rinnovata, autorevole». Ma sotto la guida di Marroni, Consip ha risparmiato in un anno la cifra ragguardevole di 3 miliardi e mezzo (l’entità dell’ultima manovrina) e dunque la mozione Pd equivaleva ad un messaggio: caro Marroni, non hai più la nostra fiducia, dimettiti prima di martedì, quando si discutono le mozioni parlamentari. Poiché Marroni non si dimetteva, le contestuali dimissioni del presidente Ferrara e della funzionaria del Tesoro hanno di fatto sciolto il Cda, costringendo Marroni a lasciare prima del fatidico martedì. Dice Gaetano Quagliariello: «Noi chiederemo che la questione sia discussa egualmente dall’aula del Senato». Il presidente dell’assemblea, Pietro Grasso, interpellato, ha risposto: «Ne discuteremo martedì alle 11…». Dal Pd trapela l’orientamento: le mozioni, una volta decaduti i vertici di Consip, non potranno essere votate. È questo il vero obiettivo del Pd, evitare qualsiasi votazione che chiami in causa indirettamente Matteo Renzi. Per i suoi avversari la battaglia regolamentare si concentrerà su questo punto: votare qualsiasi cosa pur di mettere in difficoltà l’ex premier. Ma Renzi lo sa e proverà a disinnescare la mina.
Repubblica 18.7.16
Prodi
L’ex premier: “Dobbiamo ricomporre le micidiali rotture personali se vogliamo fare il bene del Paese”
“Basta divisioni, faccio il Vinavil Renzi e Letta tornino a parlarsi”
Goffredo De Marchis
ROMA. Romano Prodi, citando alcuni nomi, definisce i confini del centrosinistra che lui sogna: «Spero che si parlino Enrico Letta, Matteo Renzi e Giuliano Pisapia». All’ex sindaco di Milano è affidato il compito di ricostruire una sinistra di governo, al segretario del Pd quello di aprirsi a delle alleanze, al primo lo sforzo più generoso di ricomporre la frattura con chi lo sostituì alla presidenza del Consiglio. «Mi auguro una riconciliazione tra Letta e Renzi altrimenti non si riconcilia il Paese». Lui, garantisce, farà solo da «collante. Sono il Vinavil e non il mediatore».
Dopo giorni di protagonismo il Professore sembra compiere una piccola frenata. Del resto, i tempi diventano necessariamente più lunghi ora che il voto slitta da settembre al prossimo marzo. Si può agire con maggiore calma, provare persino a ricomporre «delle micidiali rotture personali», dice Prodi pensando ai due ex inquilini di Palazzo Chigi e non solo a loro. Purtroppo il tempo lungo a volte finisce per aiutare le divisioni e non le pacificazioni.
Lo dimostra l’assemblea di ieri della sinistra di Montanari e Falcone contrapposta alla manifestazione immaginata da Giuliano Pisapia per il 1 luglio a Piazza Santi Apostoli. Due appuntamenti studiati quando le elezioni apparivano certe il 24 settembre. Se così fosse stato, lanciare un ponte sarebbe stato tutto semplice. Invece la kermesse del Brancaccio ha riservato fischi a Pisapia ricambiati dall’ex sindaco milanese con poche parole ai fedelissimi: «L’avevo detto che non c’erano la condizioni per essere presente. Sapevo che sarebbero stati contro di me».
Prodi, nel colloquio con Lucia Annunziata a In mezz’ora, su Rai3, fa dunque un passo di lato. «Io penso a un dialogo serrato tra gli attori di questa scena. E ci sono molto più idee comuni sul futuro dell’Italia di quante siano le distinzioni». A scanso di equivoci, la “colla” Prodi ribadisce che l’ipotesi di una sua candidatura a premier «appartiene alla categoria dell’impossibilità».
Premessa indispensabile per favorire avvicinamenti. «Il gioco deve andare avanti con chi ha il potere. Io mi limito alle prediche, faccio il predicatore ». Come sulla legge elettorale: «Andrebbe meglio una maggioritaria, ma se è utopia si proceda con questa. Poi verrà cambiata ».
Ma è proprio qui che casca l’asino. Il Consultellum apre le porte a un listone, a un accordo, solo se si superano le spaccature. Cosa che sembra appare una chimera. Persino nel campo della sinistra-sinistra. «Tutti parlano di unità. A dire il vero i tifosi della divisione sono molto più numerosi - dice Pippo Civati -. Io però lotterò fino alla fine per tenere tutti insieme a sinistra. Infatti vado anche da Pisapia. Non c’è ragione per drammatizzare oggi certe incomprensioni».
Vale per chi si è riunito ieri al Teatro Brancaccio e per Pisapia. Il quale però sembra avere le idee chiare rispetto ai promotori dell’iniziativa di ieri mattina a Roma. Niente rotture personali, ma il suo interesse è rivolto soprattutto verso i costituzionalisti che animano per esempio l’associazione Libertà e Giustizia. Sono frequenti i colloqui con Gustavo Zagrebelsky mentre Valerio Onida fa già parte a tutti gli effetti di Campo progressista.
il manifesto 18.6.17
Gramsci il rivoluzionario ridotto a pedagogo
Casi critici. Il rapporto con l’Urss, l’eliminazione di Bordiga dalla segreteria del Pci, Torino e la fase armata del partito... Angelo d’Orsi (da Feltrinelli) tratteggia un «Gramsci» ancorato a un’idea «intellettuale» del capo comunista: superata
di Giorgio Fabre
L’ultima «fatica» di Angelo d’Orsi s’intitola Gramsci Una nuova biografia (Feltrinelli «Storie», pp. 387, euro 22,00). Il «nuova» del titolo si riferisce al fatto che ne esiste una «vecchia», quella gloriosa e godibilissima di Giuseppe Fiori, che risale a cinquant’anni fa; rispetto a quella, questa ha rinnovato la bibliografia (con qualche lacuna). Mentre non contiene documenti o dati nuovi.
Non ci si sofferma qui sulla recensione impietosa del libro fatta da Nunzio Dell’Erba e pubblicata nel suo blog sull’Avanti! l’8 maggio scorso con il titolo Gli studi e gli scritti su Gramsci, tra fanatismo e pregiudizi storici. Dell’Erba ha rilevato diversi svarioni contenuti nelle sole prime pagine del libro: notizie presentate per nuove che invece non sono tali (clamoroso che a p. 24 d’Orsi scriva che «solo in tempi recenti» si sia arrivati alla conclusione che Gramsci era affetto dal morbo di Pott, diagnosticato dal professor Arcangeli nel 1933 – come segnala peraltro lo stesso d’Orsi a p. 345), errori nei riferimenti bibliografici, fonti a stampa usate ma non citate e così via. La recensione è perfino troppo impietosa, ma le osservazioni valgono un po’ per tutto il libro.
Questa «nuova» biografia non è neppure leggibilissima ed è tirata via, forse al fine di cogliere la scadenza dell’anniversario della morte. Inoltre, si sofferma a lungo su dettagli pruriginosi ma non certo fondamentali e perfino problematici come le vicende à trois o addirittura à quatre del grande sardo con le sorelle Schucht (chissà se è tutto vero). O dedica pagine e pagine che ribadiscono la ragione «pedagogica» (addirittura «ossessione pedagogica», a p. 315) che avrebbe sospinto fin da giovane il leader comunista.
Comunque sia, la vita di Gramsci continua a essere rilevantissima e poi, richiede ancora di essere esplorata. Magari anche attraverso questo libro. Interessante è ad esempio che d’Orsi discuta come «filo-mussoliniano» un controverso articolo di Gramsci del 1914; ma occorre ancora lavorarci.
Segnalo poi in particolare un punto non secondario: quanto Gramsci fu effettivamente un concreto rivoluzionario e un capo rivoluzionario? Per d’Orsi fu soprattutto uno studioso di lingue e un filosofo. Sottolinea ad esempio che a Torino nel 1920-’21, nel momento più delicato della sollevazione operaia, «mancava un Lenin» (p. 118). È un punto ancora in gran parte da chiarire. La storiografia del Pci del dopoguerra, tutta proiettata a costruire l’immagine di un partito «di governo», ha avuto difficoltà a fare i conti con quella fase rivoluzionaria – e militarizzata – della propria storia. E invece le officine torinesi nel 1920 ma anche parecchi anni dopo, erano armate fino ai denti. Si veda in proposito il bel saggio di Roberto Gremmo La militarizzazione degli operai torinesi, uscito su «Storia ribelle» nell’autunno 2005 (Gremmo ha in uscita, per settembre-ottobre, un intero volume di documenti). E il partito era anche militarizzato.
Su questo occorre rimeditare con attenzione i testi gramsciani, come quello anonimo, ma attribuito a Gramsci da Renzo Martinelli (con il quale concordo): intitolato I nostri compiti militari, uscì alla macchia nel giugno 1925 e parla senza mezzi termini di «azione armata e violenta». Se non si analizza Gramsci a 360 gradi si finisce per trasformarlo in un «capo» verboso o, appunto, «pedagogo», mentre fu un autentico capo rivoluzionario, anche duro e spregiudicato: si pensi a come fece fuori Bordiga da segretario del partito, questione qui praticamente ignorata. Questa durezza di Gramsci, insieme alla sua lucidità e acuta intelligenza, sono aspetti che stanno emergendo ancora meglio dall’Edizione nazionale delle sue opere pubblicata dall’Enciclopedia Italiana. Segnalo ad esempio l’ultimo volume degli Scritti, con i testi gramsciani del 1917. Forse, prima di riscrivere una biografia di Gramsci sarebbe meglio aspettare che quell’Edizione giunga quanto meno a buon punto, mentre al suo completamento mancano ancora molti volumi.
L’impressione è che d’Orsi sia rimasto ancorato a una vecchia idea tutta «intellettuale» del capo comunista. Idea che invece, ormai da diversi anni, è stata messa in discussione, per far emergere un Gramsci non solo molto più concreto, ma anche fornito di uno sguardo sul mondo internazionale più solido e perfino più vasto e articolato di quanto si potesse immaginare. Anche su questo il libro è carente. Penso per esempio alle interessanti pagine dei Quaderni sul Mein Kampf e naturalmente al suo rapporto con l’Unione sovietica, temi ultimamente sviluppati da vari studiosi e con i quali d’Orsi ha poca dimestichezza. D’Orsi ignora del tutto il fondamentale saggio di Silvio Pons su «Studi storici» del 2004, da cui sono emersi documenti centrali sul rapporto di Gramsci con l’Urss, un paese (il paese di Stalin) su cui si appoggiò seriamente durante la prigionia, ma anche prima, con buona pace della vulgata antisovietica che si è voluta imporre nel dopoguerra. E poco spazio, su questo punto, d’Orsi lascia persino al libro di Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci e alle pagine, talvolta discutibili ma rilevanti che esso contiene sui rapporti tra Gramsci e Mosca .
Talvolta viene il sospetto che le questioni sovietiche non gli interessino. Succede così anche, forse non a caso, che (p. 262) Anatolij Lunacarskij, il celebre ministro della Pubblica istruzione amico di Lenin e uno dei veri «motori» della rivoluzione, divenga «ambasciatore russo a Roma», il che Lunacarskij non è mai stato. D’Orsi deve aver forse ricavato la notizia da un’infelice voce della Treccani online (http://www.treccani.it/enciclopedia/anatolij-vasilevic-lunacarskij/).
Altro esempio. D’Orsi si sofferma a lungo sulla famosa lettera del 14 ottobre 1926, quella che Togliatti fermò a Mosca perché Gramsci vi aveva espresso dei dubbi sul conflitto in corso tra Stalin e Trotzki. Ma poi ignora completamente la lettera che proprio Pons ha trovato nell’archivio di Stalin, scritta dall’ambasciatore Keržencev (era lui l’ambasciatore a Roma, non Lunacarskij) al capo sovietico. Era del 6 ottobre e annunciava quella del 14, come Gramsci gli aveva chiesto di riferire. Il segretario del Pcd’I aveva indicato all’ambasciatore «tutto il danno» causato dai trotzkisti all’estero, anche al partito italiano. Il vero Gramsci era un politico che conosceva benissimo i rapporti di potere, anche in Unione Sovietica e colloquiava direttamente con Stalin. Negli ultimi anni Gramsci si è rivelato figura ancora più grande di quella forgiata nel dopoguerra da Togliatti. Mentre qui siamo rimasti a una sua immagine solo nazionale, ideologica e filosofica.
Corriere 19.6.17
Catastrofi e destino nel paese fiammifero
di Emanuele Trevi
Chiunque viaggi in macchina in Portogallo durante i mesi caldi, potrà farne esperienza diretta: la frequenza degli incendi, in questa terra, è qualcosa che si impone con prepotenza all’attenzione. Noi mediterranei lo sappiamo bene: quando l’erba diventa gialla, e l’ultima pioggia è un ricordo lontano, la sensazione è quella di camminare su un fiammifero. Ma di questo fiammifero il Portogallo è come la capocchia intinta nello zolfo.
Ricordo un lungo viaggio nell’Alentejo, sulle tracce segnate da un bellissimo libro di Saramago, in cui sembrava che un unico incendio, come un dèmone diffidente che avesse deciso di controllare il nostro itinerario, ci seguiva passo passo, bloccando di giorno le strade con il suo fumo torrido e violaceo, e sistemandosi per la notte sul fianco di una collina, dove consumava il suo pasto di alberi e pascoli. Interi paesi vivevano per settimane con il fiato sospeso per un’antica e venerabile foresta di querce da sughero, per le viti, gli uliveti.
Un semplice insieme di circostanze può creare le impressioni e i ricordi più arbitrari su un luogo, ma il caso della combustibilità del Portogallo, così sconcertante, è confermato da dati e statistiche. La Nasa ha segnalato che, di tutti gli ettari di terreno carbonizzati da incendi nel corso del 2016 nei Paesi dell’Unione Europea, oltre la metà apparteneva al Portogallo, fatto strano di per sé, e ancora più notevole se si riflette sulle dimensioni abbastanza ridotte del Paese.
Tutti i fenomeni suscitano teorie e spiegazioni più o meno plausibili. Ma nella scienza degli incendi la malignità e la stupidità degli uomini giocano lo stesso ruolo dei fenomeni più naturali, come il fulmine che si è abbattuto, a quanto pare, su un singolo albero della foresta di Pedrógão Grande. Difficile, tra tanti fattori così diversi, tirare fuori una teoria credibile. Nemmeno il più ambizioso romanziere o regista del genere paranoico-apocalittico potrebbe venire a capo di un tale guazzabuglio di casi.
Non si può dimenticare che anche la storia di Lisbona è stata segnata da due incendi che ne hanno letteralmente plasmato la storia e la fisionomia. Il terremoto del 1755 fu uno dei più disastrosi mai registrati nella storia umana, ma nel giro di pochi giorni l’incendio che finì per consumare quasi tutta la città fece molti più danni e vittime delle distruzioni del sisma.
A partire da Voltaire, tutti i grandi spiriti dell’Illuminismo fecero della catastrofe di Lisbona, città cattolicissima e capitale di un grande impero, il banco d’accusa di un’idea provvidenziale della vita dell’uomo nel mondo crudelmente smentita dall’evidenza dei fatti. Non c’è forse un evento della storia umana che ebbe riflessi simultanei così importanti nella storia della filosofia e in quella dell’urbanistica. Il pensiero moderno affilava i suoi denti mentre gli architetti e gli ingegneri del marchese di Pombal riedificavano la splendida città affacciata sull’Atlantico.
L’altro grande incendio, quello che rese al suolo la zona del Chiado nell’agosto del 1988, non diventò un nuovo simbolo del pessimismo filosofico. Semmai, distrusse un’infinità di memorie, in quel cuore della città vecchia che ancora sopravvive, nitido come un’allucinazione e inafferrabile come un sogno, in tante pagine del Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa. Come in uno spietato regolamento dei conti tramato nei secoli, a cadere nell’incendio del 1988 fu anche la più antica casa di Lisbona, l’unica sopravvissuta all’apocalisse del 1755.
Ci sono circostanze nella vita dei popoli che ripetendosi nel tempo sono capaci di suggerire come l’immagine arcana e incomprensibile del destino. Cercando in Internet gli ultimi avvenimenti sull’incendio di Pedrógão Grande, può capitare di imbattersi in una notizia non più fresca, ma abbastanza recente: nel dicembre del 2015 è andato a fuoco, in Brasile, un grande museo della lingua portoghese, che ospitava libri e preziosi manoscritti.
Chissà cosa avrebbe avuto da dire Antonio Tabucchi, su questa striscia di fuoco che sembra percorrere ostinata e vorace la storia portoghese. Durante uno di questi sbalorditivi picchi estivi di incendi scrisse un reportage: parlava della caligine nera e violacea che riempie il cielo anche a centinaia di chilometri di distanza, dei volti preoccupati fissi sulla televisione nei bar dei paesi. Nemmeno un’occasione così poco propizia gli impedì di esprimere il suo contagioso amore per quella che era diventata la sua patria d’elezione.
Il Fatto 19.6.17
Sedotti, indottrinati e distrutti: il finto mondo delle “psicosette”
Soka Gakka, Scientology, Testimoni di Geova e Damanhur: comunità spirituali con un pericoloso mix di religione, politica e psicologia che miete vittime tra i fuoriusciti
Sedotti, indottrinati e distrutti: il finto mondo delle “psicosette”
di Elisabetta Ambrosi
All’inizio ha la vesti di una grande e affettuosa famiglia, che promette che nulla potrà accaderti (è la fase del love bombing). Poco dopo arriva l’indottrinamento basilare: tutto ciò che di positivo ti accade è merito della pratica spirituale; il negativo invece è un ostacolo per impedire la tua illuminazione e piena realizzazione. La terza fase assume le sembianze di una volontà di dominazione, che investe gli adepti della missione di illuminare gli altri. Ed ecco che si arriva alla fatidica spaccatura noi/resto del mondo, che diventa, quando quest’ultimo si oppone, un demone da trasformare oppure lasciare, che sia lavoro o famiglia.
Sono i tratti comuni di quelle che l’Associazione italiana vittime delle sette (Aivs), nata per dare sostegno ai fuoriusciti spesso ridotti in stato miserabile, chiama “psicosette”, ritenute assai più pericolose delle più folcloristiche, ma del tutto minoritarie, sette sataniche. “Con una scelta che ha suscitato polemiche, ma nella quale crediamo molto, abbiamo deciso di dedicarci a quattro sette o movimenti”, spiega il presidente dell’associazione Toni Occhiello. “Anzitutto, quello della ricchissima Soka Gakkai – parzialmente limitata in Francia e altrove – che prima di ottenere incredibilmente nel 2015, grazie al governo Renzi e nel silenzio generale, l’accesso ai fondi dell’8 per mille, si definiva un’associazione laica. Sul nostro sito ci sono storie di famiglie distrutte, di giovani disoccupati totalmente assoggettati. Io stesso ne ho fatto parte trent’anni e quando sono uscito hanno cercato di screditarmi in tutti i modi. E dire che hanno testimonial eccellenti, come ad esempio Roberto Baggio”. “La seconda setta di cui ci occupiamo è Scientology, che qui in Italia fortunatamente non ha i numeri che ha negli Stati Uniti; poi ci sono i Testimoni di Geova, i più totalizzanti, e Damanhur, comunità piemontese basata sul credo del capo spirituale Oberto Airaudi.
Non vogliamo infine dimenticarci dei ciarlatani che curano tumori con le erbe o degli omeopati che lasciano morire bambini: ma siamo convinti che le psicosette siano più insidiose, perché mascherano, dietro una melassa ecumenica new age, un pericoloso mix di religione, politica e psicologia”. Di tutto questo si parlerà mercoledì 21 a Roma in una tavola rotonda al Senato, organizzate da Aivs, dal titolo “Vittime delle sette. Democrazia negata”. Perché sì, c’è anche un problema normativo visto che, dopo l’abolizione del reato di plagio, avvocati e giudici sono costretti a barcamenarsi tra il reato di circonvenzione di incapace e quello di truffa. Spiega Annalisa Montanaro, avvocata dell’Aivs: “Stiamo studiando una proposta di legge per perseguire, compatibilmente con la legge sulla libertà di culto e di pensiero, la manipolazione psicologica e intellettiva per diffondere una cultura che permetta alle vittime, che spesso si trasformano in carnefici, di reagire”. “Ma no, non chiamateci antispiritualisti”, precisa Occhiello, “la vera spiritualità è complementare alla razionalità. E comunque c’è un principio a cui consiglio di ispirarsi: se è troppo bello per essere vero, allora non è vero”.
Il Fatto 19.6.17
L’impero romano fu il più potente grazie allo Ius soli
di Orazio Licandro
La questione della cittadinanza e la sua concessione agli stranieri non è certo un fenomeno della nostra post modernità. Nell’esperienza giuridica romana il problema non è stato affrontato con divieti, barriere, muri, eserciti, espulsioni. Al contrario, grazie al sano pragmatismo, il processo è stato quello inverso di progressivo, irreversibile allargamento, estensione. All’inizio era cittadino romano chi nasceva da iustae nuptiae e il padre era cittadino romano, altrimenti si seguiva la condizione della madre al momento del parto. Adriano nel II secolo d.C. introdusse una riforma, stabilendo che il figlio di un padre latino e di una madre romana fosse un romano (Gaio, Istituzioni 1.30, 1.80). Ma le classi dirigenti romane nel corso dei secoli concessero la cittadinanza a singoli come a intere comunità, sino a quando Antonino Caracalla, nel 212 d.C., varò la cosiddetta Constitutio Antoniniana (Papiro Giessen 40.1), cioè la concessione universale della cittadinanza a tutti coloro che si trovavano all’interno dell’impero. Oggi la definiremmo una vera, gigantesca sanatoria; eppure quel provvedimento rese l’impero romano multietnico, multireligioso e multiculturale e, anche per queste ragioni, divenne il più potente e longevo del mondo antico. Ecco, osservando con sconcerto l’iter legislativo della riforma sullo Ius soli, e soprattutto l’ennesima piroetta del M5S di revoca del consenso alla proposta di legge, non riesco a trattenermi dal suggerire a quei meravigliosi ragazzi guidati da Grillo di guardare meno a Salvini e magari di studiare di più. Basterebbe appena procurarsi un manuale di storia del diritto romano. Per fortuna, ce ne sono ancora di buoni in circolazione!
Il Fatto 19.6.17
Ripetizioni, il mondo parallelo della scuola
Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le app che mettono gratuitamente in contatto tutor e studenti. “Tenbuilders” è stata ideata da un 20enne
di Patrizia De Rubertis
Prima c’è stato Rolando Ferrazza, alias Carlo Verdone in Acqua e sapone, laureato in lettere con il massimo dei voti che dava lezioni private a un gruppo di migranti che proprio non riusciva a imparare A Silvia. Poi si è distinta la tanto paziente Serena Dandini che negli Anni 90 ha dispensato lunghe ripetizioni a Lorenzo (Corrado Guzzanti), lo studente in stile grunge-romanesco che doveva superare l’esame di maturità con la formula 4 anni in uno. Ma a spiccare oggi sono altre storie (vere), come quella di Marta F. che ha deciso di lasciare il lavoro part-time in un call center di Bologna (6 euro all’ora per 20 ore settimanali) “per dedicarsi ai ragazzi di medie e liceo un paio di ore per due o tre pomeriggi a settimana e il sabato mattina, in cambio di 20 euro l’ora”; in soldoni fa 200 euro a settimana contro 120. Stesso ragionamento che deve aver fatto Luca, un 28enne sardo con una borsa di studio per un dottorato in archeologia insufficiente a coprire le spese per vivere a Milano: “La mia svolta economica? Insegnare materie letterarie a una ragazza per 5 ore la settimana a 15 euro l’ora”.
Insomma, a dispetto della crisi, il business delle ripetizioni non conosce battute d’arresto. Ma non si tratta solo degli universitari che sopravvivono con le ripetizioni, ma anche di chi ha fatto di questo “aiutino” l’unico lavoro con cui pagarsi casa e mettere su famiglia. “Con le lezioni private di fisica e matematica, che sono le materie che per le quali si può richiedere di più (anche 28 euro all’ora) – spiega Francesco M. – arrivo a guadagnare fino a 2 mila al mese”. E c’è chi si è anche specializzato nelle formule di gruppo per abbassare le tariffe ed essere più competitivo: “Ci si mette in 5/6 intorno a un tavolo – racconta la 15enne Elisabetta – e si fa tutti insieme la versione di greco. Così, invece, di pagare 50 euro, al prof. ne diamo solo 25 euro. E faccio risparmiare i miei”.
Per farsi un’idea del fenomeno, si può utilizzare il report dello scorso anno pubblicato dalla fondazione Luigi Einaudi, secondo cui la metà degli studenti delle scuole superiori segue le lezioni private, il cui costo orario medio ammonta a 27 euro. Tanto che per molti professori le ripetizioni continuano a rimanere un efficace modo per integrare lo stipendio, visto che – come ha scritto l’insegnante e scrittore Christian Raimo su Internazionale – la busta paga di un insegnante di ruolo alle superiori ammonta a poco più di 1.400 euro netti. Spiegando che “se si consentisse agli insegnanti di aprire una partita Iva a regime agevolato, con tassazione al 5%, lo Stato recupererebbe subito 40 milioni di euro”. Perché alla fine dell’anno scolastico, quello delle ripetizioni diventa un esborso per le famiglie di 1.620 euro, ma che equivale anche a un’evasione di circa 810 milioni di euro.
Eppure le ripetizioni continuano a essere archiviate come una questione di poco conto, nonostante da oltre un decennio per legge siano un “Lavoro occasionale accessorio”. Il D.Lgs. n. 124/2004 e l’interpello 40/2010 del ministero del Lavoro, infatti, obbligano i professori che danno ripetizioni, ottenendo un salario aggiuntivo, ad avvertire i dirigenti e gli impongono anche di dichiarare queste entrate. Un mercato nero che il governo ha provato prima a far emergere, inutilmente, con i voucher e ora con il neo libretto famiglia, vale a dire i tagliandi telematici da 10 euro l’ora con cui pagare i lavori domestici, tra cui giardinaggio, ripetizioni e baby-sitting.
In attesa, però, che gli effetti si concretizzino, ci sono da preparare gli imminenti esami di maturità (Skuola.net ha calcolato che costeranno alle famiglie qualcosa come 54 milioni di euro tra lezioni private, il contributo scolastico volontario per l’iscrizione all’esame, l’aiuto per la tesina, i 6 milioni spesi dal 33% dei ragazzi per l’acquisto di vocabolari, app, compendi e dispense varie, e i 3 milioni investiti dall’11% dei maturandi per frequentare corsi di preparazione) e c’è l’esito della pubblicazione dei quadri con i relativi debiti formativi, che per gli studenti che riportano delle carenze formative – secondo il Miur si tratta del 42% del totale dei promossi, anche se poi solo uno su 4 li recupera – equivalgono a un’unica certezza: le ripetizioni. La Buona scuola, infatti, a causa della continua mancanza di fondi, prevede solo “proposte didattiche ed educative nel corso dell’intero anno scolastico volte a far superare agli studenti le insufficienze che rischiano di compromettere il proseguimento degli studi”. Alla fine, però, i corsi che gli istituti riescono a organizzare sono pochi da 15 ore per circa 15/18 studenti, con un impatto irrisorio e un evidente risultato: si va tutti alla caccia di lezioni private, passando anche per il mondo delle ripetizioni 2.0, che ha soppiantato il passaparola o il biglietto affisso sui cancelli delle scuole. Un sistema, che esploso negli ultimi anni, fa anche risparmiare: una lezione non supera mai 20 euro. Inoltre, si fa tutto davanti al pc con orari flessibili. E ce n’è per tutti i gusti, preferenze e geolocalizzazioni.
Su Skuola.net ci sono oltre 30mila tutor registrati ed è possibile prenotare la lezione e decidere se svolgerla a domicilio oppure online. Si tratta di un servizio che applica i modelli di successo della sharing economy al campo delle ripetizioni private.
Negli ultimi mesi ha poi subito un’impennata Tenbuilders, un’applicazione in cui i tutor sono rigorosamente universitari e impartiscono lezioni tra i 10 e i 18 euro a domicilio o attraverso Skype. Dopo Milano, il servizio è ora approdato a Firenze e Roma. L’ideatore è uno studente 20enne della Bocconi, che ha lanciato la piattaforma con una spesa di soli 80 euro e nel primo anno e mezzo ha permesso l’organizzazione di più di 2mila ore di lezioni.
Tra i più cliccati ci sono anche Superprof, una community mondiale da quasi un milione e mezzo di insegnanti nata nel 2013 a Biarritz, in Francia, e che nell’arco di tre anni ha raggiunto 10 Paesi, tra Italia, Stati Uniti, Regno Unito e Spagna; il servizio di Pronto Ripetizioni , un sito fondato nel 2012 sulle orme del gemello inglese, che offre una scelta di insegnanti privati basata su feedback e raccomandazioni dei loro clienti precedenti); Tutors Live è una piattaforma gratuita che consente di mettersi d’accordo in privato sulle modalità d’insegnamento e sui prezzi; ad esempio scegliendo il 50 enne Simone G. si pagano 4 euro per un’ora di ripetizioni per le scuole medie; Abacus Online che, oltre alle ripetizioni, assiste lo studente fino a quando non avrà raggiunto la piena autonomia nello studio; per la determinazione del dominio di una funzione integrale o il calcolo combinatorio si può, invece, ricorrere a Cervellotik. È un progetto gestito da un gruppo di 30enni lucani con una particolarità: il prezzo lo fanno gli studenti che, dopo aver formulato una domanda su matematica, fisica o chimica, scrivono anche quanto sono disposti a pagare per ottenere la spiegazione.
Ed ancora: Repeatit2.me consente gratuitamente a tutor e studenti di offrire e cercare ripetizioni, mentre per i più esigenti c’è la versione premium a pagamento; Trovaripetizioni, invece, basa tutto sulle recensioni con un mix di voti tra preparazione del tutor e il prezzo da pagare che fanno salire in cima all’elenco dei prof. quelli con più stelline. Con un dettaglio: quasi tutti questi siti svolgono solo la funzione di contatto; poi il pagamento avviene tra studenti e insegnanti. Il guadagno dei gestori? I banner pubblicitari.
Il Fatto 19.6.17
L’ascensore sociale tra i banchi non funziona più
di Alex Corlazzoli
Marco, non ammesso alla classe seconda. Daniele, non ammesso all’esame di Stato. Così è accaduto anche per Luigi e Carolina e tanti altri. Davanti ai tabelloni esposti nelle scuole medie (per usare una terminologia nota a tutti) in questi giorni abbiamo visto ancora nomi e cognomi con accanto una negazione. Bocciati.
È accaduto anche alla scuola primaria: nell’ultimo anno scolastico 2015/2016 sono stati 11.071 e nell’anno precedente 11.866 i bambini fermati. Pochi percentualmente rispetto al totale degli alunni in Italia, ma se provate a chiedere al ministero chi sono questi ragazzi non c’è una risposta. Non lo sanno: manca un’indagine qualitativa su di loro.
L’unico dato sul quale riflettere arriva dall’Ufficio statistica e studi del Miur rispetto alla secondaria di primo grado: “Il passaggio da un anno scolastico all’altro risulta più problematico nel caso di studenti non italiani: il tasso di ammissione si riduce al 91% rispetto al 97,5% degli italiani”. Davanti alla lista di ammessi e non ammessi non ci si accorge ma si compie il primo passo verso l’immobilismo sociale che ha segnato e segna ancora intere generazioni in Italia.
Per dirla con le parole della casalinga di Voghera (e mi perdonino le casalinghe!) il figlio del dottore non è certo tra i bocciati alla primaria e nemmeno alle medie. E terminata la secondaria di primo grado si iscriverà al liceo. Concluso il Classico o lo Scientifico si iscriverà all’Università e farà il medico o l’avvocato. Così suo figlio, il nipote del dottore.
Una sorta di catena che Marco Magnani in Sette anni di vacche sobrie (Utet) a proposito di mobilità sociale aveva ben compreso scrivendo che “Il titolo di studio posseduto dai genitori è tuttora, in Italia, un forte indice predittivo dei risultati scolastici e universitari dei figli”.
Il problema è proprio il punto di partenza. Non è una questione di merito ma di posizioni di partenza. Scrive ancora Magnani: “La mobilità sociale dovrebbe garantire che l’uguaglianza formale degli individui nelle società moderne, e cioè il riconoscimento degli stessi diritti a tutti i cittadini e a prescindere dalle loro origini, si traduca in una reale uguaglianza delle opportunità”.
Il sociologo Milton Roemer la traduce così: non si tratta di appiattire le differenze e le qualità individuali ma di livellare il campo di gioco. Il nostro campo-scuola è livellato? Se alla scuola primaria da sempre viene riconosciuta una maggiore capacità di dare pari opportunità a tutti, le medie sono l’anello debole del nostro sistema d’istruzione e da anni non si fa nulla per mettere mano a questo pezzo del nostro sistema d’istruzione.
La Fondazione “Giovanni Agnelli” negli anni scorsi ha dedicato il proprio report annuale proprio a questo segmento dando una sentenza che nessun ministro dell’Istruzione ha preso in considerazione: “La scuola secondaria di primo grado non solo è incapace di attenuare le differenze sociali, ma diventa addirittura l’incubatore di disuguaglianze destinate poi a esplodere nel ciclo superiore. Nella scuola media inizia un processo di selezione, che non è neutrale rispetto all’origine sociale e culturale dei ragazzi: abbiamo scoperto che tra l’80% e il 90% della differenza negli apprendimenti per origine sociale si forma proprio alla secondaria di primo grado”.
Non sarà certo la Buona scuola a invertire la tendenza all’immobilismo sociale. Anzi. In questi giorni la stessa ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha ammesso che nella Legge 107 c’è un buco: la scuola media.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Basta saper leggere i dati raccolti da AlmaDiploma su 261 istituti per un totale di 43.171 studenti di sedici regione diverse per capire che siamo impantanati.
Solo un liceale su sei proviene da una famiglia di operai. Nel 2016 al classico si sono diplomati solo l’8,7% di ragazzi figli di impiegati o di genitori che stanno alla catena di montaggio a fronte di un 45% di figli di professionisti, dirigenti, docenti universitari e imprenditori. Così come scopriamo che il 43% dei laureati in medicina proviene da classi sociali elevate. I figli di operai e impiegati rappresentano solo il 15% dei laureati magistrali a ciclo unico contro un 34% costituito da figli della classe sociale più elevata. Ma di fronte a questi dati, voltando le spalle all’articolo 34 della Costituzione che rende “effettivo il diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi con borse di studio” per i capaci e meritevoli anche se privi di mezzo, il governo Renzi aveva messo in campo 400 super -borse nazionali del valore di 15 mila euro annuali che sarebbero andate a una minoranza di ragazzi.
di Alex Corlazzoli