domenica 18 giugno 2017

SULL STAMPA DI DOMENICA 18 GIUGNO

Il Sole Domenica 18.6.17
La manifestazione. Camusso: schiaffo alla democrazia
La Cgil in piazza annuncia il ricorso alla Consulta
di Giorgio Pogliotti


La Cgil accusa il governo di «aver cambiato le carte in tavola, con un’abile mossa che ha impedito ai cittadini di esprimersi al referendum» cancellato dalla Cassazione dopo la soppressione dei voucher decisa dall’Esecutivo. In decine di migliaia ieri hanno risposto all’appello della confederazione guidata da Susanna Camusso, sfilando nei due cortei che hanno attraversato Roma, con la parola d’ordine «rispetto per il lavoro, la democrazia e la Costituzione».
All’indomani del via libera alla manovra correttiva che disciplina il lavoro occasionale introducendo il libretto telematico per le famiglie e il contratto on line per le micro imprese, la Cgil annuncia che chiederà l’intervento della Consulta: «Il governo ha cambiato le norme ma non la sostanza - ha detto Camusso dal palco di Piazza San Giovanni-. È uno schiaffo alla democrazia perché le norme sui voucher che hanno abolito con decreto, sono state reintrodotte con la manovra. Ricorreremo alla Consulta, abbiamo raccolto 150mila firme contro questa esplicita violazione della Costituzione». A sfilare sono stati anche diversi parlamentari di Mdp, da Bersani a Epifani a Speranza, esponenti di Si, mentre Campo progressista di Giuiano Pisapia non ha partecipato, pur dichiarando di condividere le ragioni della manifestazione.
Respinge le accuse il premier Gentiloni: «Rispetto la manifestazione, ma non la condivido visto che è contro le nostre decisioni. Inoltre non è la manifestazione dei sindacati, ma di uno, per quanto numericamente importante». Gentiloni ritiene che la Cgil abbia «sbagliato bersaglio», e domanda: «C’è veramente chi pensa che questi lavori non avessero bisogno di regole?» .
Al contrario per Camusso, con le norme appena licenziate dal Parlamento «si reintroduce l’ennesima forma di precarietà raccontando che è un contratto, mentre è una transazione economica che non prevede diritti per i lavoratori». Camusso rilancia la proposta contenuta nella Carta universale dei diritti, il nuovo Statuto elaborato dalla Cgil che all’articolo 81 affronta il lavoro occasionale disciplinandolo come tipologia di lavoro subordinato. A chi le fa presente che i voucher riguardavano circa lo 0,1% delle prestazioni lavorative, Camusso risponde: «Il problema non è se riguarda tanti o pochi, se c’è un’ingiustizia va risolta». Inevitabile anche un accenno alle polemiche sul “venerdì nero” dei trasporti dopo lo sciopero indetto dai sindacati di base che ha paralizzato le città: «È stato uno sciopero sbagliato - ha aggiunto Camusso - doveva essere chiaro nelle motivazioni e, specie sui servizi essenziali, va trovata un’alleanza con i cittadini. Ma questa non è una ragione per attaccare il diritto di sciopero. Si faccia piuttosto una legge sulla rappresentanza che riguardi sindacati e imprese».

Corriere 18.6.17
Cgil contro i «nuovi voucher»: appello al Colle
Camusso in piazza con Mdp: «Il governo ha violato la Costituzione». Confermato il ricorso alla Consulta


ROMA La battaglia è destinata a proseguire, con tanto di ricorso alla Corte Costituzionale. Sulle norme relative ai voucher la Cgil non intende mollare la presa. Il sindacato guidato da Susanna Camusso punta dritto contro la soluzione, predisposta dal governo, per disciplinare le prestazioni di lavoro occasionali. La mossa dell’esecutivo di abrogare i voucher per decreto, salvo, poi, reintrodurre la formula dei buoni, inserendoli nella manovrina di correzione dei conti pubblici ha generato un duplice effetto. Da un lato ha scongiurato il Referendum sui voucher, temuto dall’esecutivo, e già fissato per lo scorso 28 maggio, dall’altro ha spinto la Cgil a tornare ieri in forze in piazza con una manifestazione contro quello che viene definito «uno schiaffo alla democrazia». Camusso parla davanti al lungo corteo, che prima di riunirsi a Piazza San Giovanni ha sfilato per le vie della capitale.
L’accusa al governo da parte della leader Cgil è di avere reintrodotto i voucher attraverso una manovrina, «un veicolo un po’ clandestino», con l’aggravante di avere «cambiato loro il nome, ma non la schifezza che sono». Per questo, sotto il sole rovente di mezzogiorno, dal palco del luogo simbolo delle manifestazioni della sinistra (presente in piazza anche Mdp con Pierluigi Bersani, Guglielmo Epifani e Roberto Speranza) parte l’appello di Camusso al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, poiché «è stata violata la Costituzione». Il sindacato conferma infatti l’intenzione di ricorrere alla Consulta. Accuse e prospettive che spingono il premier, Paolo Gentiloni, a rispondere in prima persona. «Rispetto la manifestazione, anche se non la condivido», spiega il presidente del Consiglio, specificando che «il bersaglio è sbagliato, c’è veramente qualcuno che pensa che questi lavori non avevano bisogno di regole?» chiede. La discussione, del resto, è ancorata alle nuove norme sui lavoretti occasionali, disciplinati dal governo sotto forma di «libretto di famiglia» e di «contratto di prestazione occasionale» per le piccole imprese fino a 5 dipendenti. Camusso considera inaccettabile che non sia stato permesso ai cittadini di esprimersi con un voto referendario su «l’ennesima forma di precarietà, raccontando che è un contratto, quando è una transazione economica che non prevede alcun diritto per i lavoratori». Reintrodurre i voucher nella manovrina è stata «una furbizia» che si configura come uno «schiaffo alla democrazia».

il manifesto 18.6.17
Il lavoro cuore del conflitto
di Norma Rangeri

Il governo da una parte, la Cgil dall’altra. Su sponde opposte rispetto alla polemica di questo momento sullo sciopero nei trasporti, ma a ben vedere su distanze siderali in merito all’idea stessa di contratto sociale tra rappresentanti e rappresentati.
Al presidente del consiglio convinto che «l’intero paesaggio sociale italiano non è sulle posizioni della Cgil», e pronto a decidere nuove regole sullo sciopero, è arrivata a stretto giro, la replica secca di Camusso nel discorso di chiusura di una bella manifestazione accolta dall’afa bollente:«Non è accettabile che si usi uno sciopero discutibile per attaccare il diritto di sciopero, e al governo dico fate la legge sulla rappresentanza».
Del resto il conflitto tra il sindacato di Camusso e il governo Renzi-Gentiloni si è materializzato con la piazza rossa di San Giovanni a Roma.
Contro i voucher, la Cgil ha risposto al governo con una grande mobilitazione, decine di migliaia di lavoratori chiamati a proseguire la battaglia iniziata con le oltre tre milioni di firme raccolte per un referendum che Renzi ha avuto paura di affrontare temendo una seconda sonora batosta dopo quella del 4 dicembre. Ma non tutto è permesso per evitare il diritto al voto dei cittadini, il governo Renzi-Gentiloni invece ha annullato il referendum e resuscitato i voucher. La Cgil non si dà per vinta e né la Corte costituzionale, né il capo dello stato possono eludere il dovere di esprimersi e di vigilare sul grande scippo.
A vederli sfilare con i loro berretti rossi tutto sembravano ieri i lavoratori venuti a Roma da tutta Italia, tranne che pensionati in gita. Per le strade della Capitale c’erano tutte le generazioni, comprese quelle che dopo 41 anni di lavoro, grazie alla legge Fornero, non possono andare in pensione. Compresi i pensionati che oggi rappresentano il sostegno, l’unico, dei giovani disoccupati, comprese le centinaia di aziende in crisi perché governate da una classe imprenditoriale capace solo di tagliare il salario.
Nei paesi autoritari non c’è libertà del lavoro e non c’è nemmeno democrazia, ha detto dal palco la segretaria della Cgil. E, con lei, ci chiediamo che razza di democrazia è quella italiana dove si cancellano i referendum, dove 12 milioni di concittadini non ricevono le cure del servizio sanitario, dove il lavoro ha perso diritti, dignità e speranza.

Corriere 18.6.17
Migranti, critiche sensate e paranoie identitarie
di Ernesto Galli della Loggia


Pur essendo favorevole in linea generale alla nuova legge sulla nazionalità in discussione al Senato, trovo che le si possono egualmente muovere alcune ragionevoli critiche. Principalmente due.
La prima è che nella concessione automatica della cittadinanza prevista per coloro che sono nati in Italia da genitori di cui almeno uno con regolare permesso di soggiorno da cinque anni come minimo, non si prevede però alcun accertamento preliminare circa la conoscenza né della nostra lingua, né dei costumi, né delle regole, né di niente della società italiana. Si tratta appunto di una concessione automatica che tra l’altro, per il solo fatto di essere tale, viene privata di quel forte rilievo simbolico che invece sarebbe stato giusto conferirle. Bisogna sempre ricordare, infatti, che tutto quanto viene dato senza alcun corrispettivo perde per ciò stesso d’importanza.
Il secondo punto su cui mi sentirei di dissentire riguarda il divieto di doppia cittadinanza, che secondo me sarebbe stato opportuno introdurre in ogni caso e che invece è assente. Mi rendo conto delle possibili obiezioni, probabilmente anche di carattere costituzionale. Ma anche in questo caso era comunque necessario, ne sono convinto, pensare a un modo per conferire alla concessione della cittadinanza un carattere di cesura simbolicamente irrevocabile, di frattura definitiva, rispetto a qualsiasi altra appartenenza .
Bisognava far capire insomma che la concessione della cittadinanza esclude in modo assoluto qualunque eventuale doppia fedeltà. Così come sarebbe stato forse utile considerare l’ipotesi di accrescere i motivi per i quali la cittadinanza, una volta acquistata, la si può anche perdere.
Proprio in relazione a questi ragionevoli dubbi mi pare per nulla campata in aria la preoccupazione che l’immissione di nuovi cittadini provenienti da contesti radicalmente differenti dal nostro possa finire per alterare l’identità storico-culturale del Paese. La Repubblica, con la sua Costituzione, le sue regole le sue leggi, non è nata dal nulla, infatti, e non vive nel nulla, non discende dall’empireo giuridico-formale dei «Diritti». Per mille tramiti essa scaturisce e si alimenta ogni giorno, invece, di una storia — che è anche una complessa storia di valori — la quale, si provi qualcuno a dimostrare il contrario, si colloca nel tempo e nello spazio e ha un nome e un cognome. Si chiama Italia.
Sollevare questioni del genere è semplice buon senso, non ha niente di xenofobico né di razzista. E un Paese serio che si trova davanti un problema esplosivo come quello di una immigrazione apparentemente incontrollabile ne dovrebbe discutere in modo serio.
Ma da noi questo si rivela sempre difficile. Presentando la proposta di legge di cui stiamo dicendo la Sinistra, ad esempio, ha avuto l’indubbio merito di porre il problema in modo concreto, indicando comunque una soluzione concreta, ed è del merito di questa che si dovrebbe parlare. Che bisogno c’è allora che essa ricorra al sentimentalismo un po’ dolciastro di pubblicare teneri visini di bimbi extra-comunitari dagli occhi spalancati, che — si dice per convincerci — «sono nati qui»? È un sentimentalismo, va subito aggiunto, che però ha un’attenuante. Una sola ma politicamente decisiva, dal momento che anche in politica la moneta cattiva è destinata a scacciare sempre quella buona. E cioè il fatto di rispondere al «cattivismo» programmatico e apocalittico di buona parte della Destra. Alla quale, come se non bastasse si è aggiunto ora anche il Movimento Cinque Stelle (dopo essersi astenuto alla Camera).
Gli argomenti messi in campo dagli oppositori si sono distinti infatti per la loro sgangherata demagogia. Abbiamo sentito e letto di tutto tranne che qualche proposta in positivo. Dal «non si fa nulla per gli italiani» (che non si capisce che cosa c’entri, essendo che gli italiani una cittadinanza fino a prova contraria già ce l’hanno) alla denuncia per gli affari sporchi connessi al traffico e all’accoglienza degli immigrati (tutto vero, ma realmente si pensa che eliminando il «business» dell’immigrazione magari si elimina anche l’immigrazione?), all’allarme diffuso per le terribili malattie che gli immigrati importerebbero (anche qui: ma che cosa c’entra con la nazionalità?).
Su tutto aleggia poi una sorta di furibonda paranoia identitaria nonché l’idea, non saprei dire se più ingenua o più bizzarra, che senza la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana di una legge sulla concessione della nazionalità, milioni di africani se ne starebbero tranquilli a morire di fame rinunciando a intraprendere il loro disperato viaggio verso l’Europa.
Invece, se una cosa è certa è l’impeto ininterrotto e di difficilissimo contenimento del fenomeno migratorio da cui siamo investiti. Si tratta di una vera e propria emergenza nazionale che richiederebbe alle forze politiche d’opposizione, ma in modo tutto particolare a quelle della Destra, il perseguimento degli interessi vitali del Paese, non la ricerca a tutti i costi di un qualche possibile guadagno elettorale.
La cultura della nazione, il patriottismo, quello vero, significa tra le altre cose anche questo: capire quando bisogna rinunciare agli interessi della propria parte in nome di un interesse generale.
Oggi tale interesse si sostanzia in due obiettivi assolutamente prioritari. All’interno, evitare da un lato l’apartheid di fatto e dall’altro il comunitarismo multiculturale, assicurando nel modo più rigoroso la legalità e la sicurezza; all’esterno utilizzare tutte le risorse politiche e diplomatiche (il ricatto compreso, caro presidente Gentiloni, il ricatto compreso!) per obbligare i nostri soci europei a non lasciarci da soli nelle peste alle prese con un problema che è anche il loro problema.
Chiunque dia comunque una mano per raggiungere uno di questi obiettivi, a qualunque partito appartenga, è un benemerito del nostro Paese.

il manifesto 18.6.17
La schiavitù invisibile delle migranti. Abusi, tratta e passaporti confiscati
Fuori dall'ombra. 64 ore settimanali è in media l’orario delle lavoratrici domestiche nel Golfo e nel Levante. Le migranti guadagnano tra il 20-30% in meno del salario minimo locale
di Chiara Cruciati


Il dato potrebbe stupire: il Medio Oriente è la regione al mondo con la più alta percentuale di lavoratrici domestiche. Quasi tutte migranti. Tra Golfo e Levante l’Organizzazione Mondiale del Lavoro ne conta 1,6 milioni, quasi il doppio (2,5 milioni) secondo l’International Trade Union Confederation.
NUMERI ELEVATISSIMI, contestualizzati dal sito di monitoraggio Migrant Rights: il 90% dei cittadini del Kuwait ha alle proprie dipendenze una lavoratrice domestica straniera; il 36,6% della forza lavoro femminile in Bahrain è impiegata in case private; il 99,6% degli immigrati economici in Arabia Saudita è un lavoratore domestico. L’altro lato della medaglia è l’assenza totale di diritti: lavorano in media 64 ore a settimana e guadagnano tra il 20% e il 30% in meno del salario minimo nazionale (147 dollari al mese in Kuwait, 100 in Arabia Saudita).
E sono vittime di una forma di schiavitù moderna, invisibile. A monte sta il sistema della kafala, o dello sponsor: l’ingresso di lavoratori stranieri nei paesi del Golfo e in Libano, la residenza e la successiva uscita sono permessi sulla base della sponsorizzazione da parte di un cittadino o di un’impresa privata. Che nella pratica diventano «proprietari» di un essere umano.
PASSAPORTI CONFISCATI, impossibilità di cercarsi un lavoro più dignitoso o meglio remunerato, condizioni di lavoro disumane, violenze fisiche e verbali, suicidi sono le dirette conseguenze per buona parte delle lavoratrici domestiche straniere, tutte provenienti da Sud est asiatico e Africa sub-sahariana.
Un quadro reso peggiore dalla mancanza di una regolamentazione statale del lavoro domestico, escluso dalle leggi sul lavoro apparentemente per non violare privacy e «sacralità» della casa privata.
Le lavoratrici domestiche finiscono così in un limbo di invisibilità, divise tra loro e incapaci di accedere ai propri consolati, costrette alla schiavitù pena l’arresto e l’espulsione. Dietro, un vero e proprio traffico di esseri umani, con agenzie specializzate che traggono profitto dalla «vendita» di donne migranti entrate illegalmente.
Le prime forme di organizzazione sindacale iniziano però ad emergere: se nelle petromonarchie del Golfo sindacati e scioperi sono fuorilegge, in Libano sono radicati. Nel 2015 è così nato il primo sindacato di lavoratori domestici, sotto l’ombrello della più ampia Federazione delle unioni dei lavoratori. Da allora ha firmato accordi con i sindacati nei paesi di origine e lanciato campagne per vedersi riconosciuto come soggetto legittimo da Beirut, sostenuto da cento ong locali.
LE DIFFICOLTÀ non mancano, figlie della scarsa capacità di raggiungere la singola lavoratrice, per ragioni di lingua, isolamento, bassi stipendi che limitano il movimento, timore della deportazione e ora una nuova guerra tra poveri, scatenata dall’arrivo di centinaia di migliaia di rifugiati siriani disposti a lavorare per salari ancora più infimi. Ad organizzarsi, però, è anche la stessa società civile libanese e i movimenti anti-razzisti che hanno fatto delle condizioni delle lavoratrici domestiche (250mila stimate nel Paese dei Cedri) una bandiera.
Se già dal 2011 è stato aperto nella capitale il Migrants Community Center, il primo maggio 2017 le strade di Beirut sono state attraversate dalla parata dei lavoratori migranti, sotto lo slogan «La kafala uccide». Solo pochi mesi prima, nel novembre 2016, il Libano deportava Sujana Rana e Roja Limbu, lavoratrici domestiche leader del sindacato nato due anni fa e tuttora illegale agli occhi di Beirut.
È INVECE OBLIO TOTALE nel Golfo, dove la narrativa su cui si fondano le petromonarchie sunnite – un misto di wahhabismo, interpretazione medievale dell’Islam e soffocamento delle istanze di ogni gruppo «minoritario» inteso come minaccia alla tenuta del regime (dalle donne agli immigrati, dalla comunità sciita alle opposizioni politiche) – crea intorno alle migranti una gabbia che prima che fisica è mentale.
LO SFRUTTAMENTO delle lavoratrici tra le mura domestiche è un fenomeno radicato e diffuso, affatto trattato dai media e marginalizzato dalle autorità che non puniscono mai i responsabili di reati nei rarissimi casi denunciati dalle vittime.
Così si spiegano le drammatiche statistiche dell’intelligence libanese riportate dall’agenzia dell’Onu Irin: in Libano ogni settimana due lavoratrici domestiche muoiono per cause non naturali. Per i pestaggi, per suicidio o per essersi lanciate dal balcone nel tentativo di fuggire.

Repubblica 18.6.17
Prodi, Renzi Pisapia e una certa idea di sinistra
di Eugenio Scalfari


IL MONDO sta cambiando e l’Europa e l’Italia cambiano anch’esse. Questa mutazione ci stupisce: che dobbiamo fare? Assistere passivamente? Reagire? Ma come? Combattendo contro oppure appoggiando il cambiamento e portandolo avanti fino a quando diventi una vera e propria rivoluzione? Una rivoluzione, quando eventualmente scoppiasse, sarebbe mondiale perché viviamo in una società globalizzata. Ogni Paese, ogni Stato, ogni continente reagirebbe a suo modo secondo gli interessi, i valori, i sentimenti delle persone, dei popoli, delle plebi.
È questo fenomeno che si sta per la prima volta verificando? Io non credo: il mondo cambia continuamente e quelli che lo vivono pensano che una grande novità si stia verificando, ma non è così. Tutto si muove di continuo, attimo per attimo, dentro e fuori di noi. Spesso i mutamenti ci sembrano impercettibili e infatti lo sono, ma col passare del tempo diventano massa. Questo ci spaventa e ci mobilita. Insomma ci scuote.
Vogliamo dargli un nome? È la vita. Diversa ma estremamente simile per ciascuno di noi.
Noi non distinguiamo una formica dall’altra. Ma a me capita spesso che se incontro un gruppo di cinesi mi sembrano l’uno identico all’altro e se dall’alto di un aereo vediamo a terra un gruppo di persone, ci fanno lo stesso effetto delle formiche.IN CONCLUSIONE: tutto è relativo, ciascuno ha una sua verità assoluta, ma è assoluta solo per lui.
Einstein scoprì la relatività delle onde e delle particelle elementari e di quanto venne dopo, ma questa appunto è la vita. La relatività di Einstein è, almeno per ora, la legge del creato.
***
Questa premessa era introduttiva della politica: anche quella sta cambiando in tutto il mondo, ma a me oggi interessa occuparmi di ciò che avviene in Italia. Naturalmente come la vedo io. La politica infatti è il tema principale d’una collettività, ma tutti quelli che se ne occupano portano in campo il proprio Io. E poiché noi siamo fatti in modo che una parte di noi porta se stesso all’opera, dobbiamo rivelarci agli altri prima di raccontare ciò che avviene intorno a noi e di darne un giudizio di valore.
Dunque presento ciò che siamo e pensiamo, anche se gran parte dei nostri amici e lettori lo sa da tempo.
Noi apparteniamo a quella scuola politica dei fratelli Rosselli che lanciò come bandiera di raccolta il motto “Giustizia e Libertà”. Su quello slogan nacque il Partito d’Azione ed anche le brigate partigiane che quello slogan lo diffusero.
A sua volta la Rivoluzione francese del 1789 inventò la bandiera dei tre colori che significavano “libertà, eguaglianza, fraternità”. Da noi la gioventù mazziniana inalberò anch’essa il tricolore (con il verde al posto del blu).
Il Partito d’Azione ebbe breve e sfortunata vita e si divise nel 1948, ma la sua cultura politica è rimasta ed è la nostra e dei nostri giornali: liberal- socialismo o liberal-democrazia, due dizioni diverse che significano la stessa cosa. Potremmo anche dire “sinistra liberale”. È sempre la stessa cosa. Vale per l’Italia ed anche per l’Europa. Ancora non sappiamo se Macron sia un liberal-socialista europeista, ma è molto probabile che lo sia. Anche noi siamo profondamente europeisti; non a caso i tre fautori del Manifesto di Ventotene precedettero il Partito d’Azione ma poi fecero anch’essi proprio lo slogan di “Giustizia e Libertà”. Speriamo che Macron stia dalla stessa parte. La Francia è la Francia e la Marsigliese non è un inno soltanto francese ma anche europeo, come e più dell’Internazionale.
Con queste idee che ci animano, in Italia non possiamo che essere vicini al Partito democratico. Fu fondato da Veltroni il 14 ottobre del 2007; il programma fu da lui esposto al Lingotto di Torino il 27 giugno e le elezioni si fecero il 13 e 14 aprile del 2008. Ottenne quasi il 35 per cento dei voti, pari al massimo raggiunto da Berlinguer.
Poi accaddero una serie di fatti e si succedettero vari governi, tecnici o tecnico-politici: il governo Monti, il governo di Enrico Letta, il governo Renzi ed anche quello tuttora in carica votato da Renzi ma presieduto da Gentiloni. Andrà avanti fino alla fine della Legislatura e si voterà di nuovo nell’aprile del 2018. Quasi certamente sarà Renzi ad andare al voto, ma con quale legge elettorale? E con quali alleati per avere una solida rappresentanza nelle due Camere che hanno pari sovranità politica?
Finora Renzi ha molto oscillato, anche perché per cambiare la legge elettorale ci voleva l’accordo generale dei quattro partiti (o movimenti che dir si voglia): il Pd renziano, la Lega di Salvini, Forza Italia di Berlusconi e il M5S di Grillo, Casaleggio, Di Maio e compagnia.
Inizialmente la legge era quella che imitava la legge tedesca, ma improvvisamente Grillo ha fatto saltare il banco e tutto è tornato a zero.
Tre giorni fa Renzi ha incontrato Romano Prodi che si è posto come federatore tra Renzi e la sinistra dissidente che è uscita dal partito e dalla maggioranza. Questa sinistra sarà in questi giorni convocata da Pisapia e si vedrà se aderirà alle proposte conciliative di Prodi (e quindi di Renzi). Se andasse in porto non sarà però sotto forma di rientro nel Pd, ma di alleanza con esso. In questo caso l’operazione sarebbe pienamente riuscita. La approverà anche Napolitano una sinistra distinta ma alleata che probabilmente raccoglierebbe un 10 per cento del corpo elettorale votante. Renzi punta al 30. Se così andassero le cose il centrosinistra andrebbe vicino al 40 e forse lo sorpasserebbe con il centro guidato da Alfano e Parisi. I veri sconfitti sarebbero in tal caso Grillo e Salvini, con un Berlusconi amichevolmente autonomo.
La nostra valutazione di Renzi l’abbiamo già fatta molte volte, ma non è sempre la stessa. In certe occasioni i suoi errori sono marchiani, specie in politica economica quando prende la mano a Padoan ed opera senza di lui. E non parliamo del suo rapporto con la sinistra dissidente e con alcune personalità che hanno grandi meriti nella vita italiana e che lui ha sempre volutamente ignorato.
Altre volte invece la valutazione è stata positiva. Quando si è occupato di rafforzare l’Europa indicando quali erano le finalità europeiste. Dovrebbe puntare molto su Macron, ma lì interviene probabilmente una rivalità personalistica che non coincide con il vero interesse franco-italiano che dovrebbe esprimersi con un legame politico e personale tra i due personaggi che si propongono la costruzione della vera Europa.
Comunque, se l’iniziativa di Prodi con Pisapia andasse a buon fine, probabilmente le doti di Renzi vincerebbero le sue debolezze e darebbero al nostro liberal-socialismo lo slancio economico e politico per l’Italia e l’Europa.
Il mio carissimo amico Ezio Mauro ha scritto giovedì scorso un articolo con una parte del quale chiudo questo mio articolo.
«È ben chiaro che l’Italia dei piccoli paesi e delle lunghe periferie, sotto i colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento di comunità, su una scala europea, nella fiducia di una tradizione occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale».

il manifesto 18.6.17
Nessuno del Pd, solo abbracci per Bersani
di Nina Valoti


Come previsto nessuno del Pd in piazza. In compenso tutta Mdp, con Pierluigi Bersani che arriva direttamente a piazza San Giovanni e viene accolto dall’abbraccio di Susanna Camusso in testa al corteo.
Da quel momento solo tante strette di mano e richiesta di «tornare a sinistra» da parte dei militanti Cgil. «Questa gente fa una sacrosanta battaglia, parlano di futuro, altro che manifestazione nostalgica», spiega l’uomo che ha lasciato «la ditta».
Nessun fischio e nessuna tensione anche verso i parlamentari del neo gruppo che sono usciti dall’aula invece di votare contro sia alla Camera che al Senato per la fiducia sulla manovrina.
Enrico Rossi e Arturo Scotto sono in camicia bianca (madidi di sudore a riprova della partecipazione a tutto il corteo), Roberto Speranza, Davide Zoggia e Filippo Fossati sono in maglietta.
Nel retropalco viene accolto con sorrisi e abbracci anche Guglielmo Epifani, sebbene qualcuno storca la bocca sulla «coerenza» dell’ex segretario Cgil. La delegazione di Sinistra Italiana è al completo: Nicola Fratoianni e Stefano Fassina non hanno problemi di coerenza appoggiando la battaglia contro il Jobs act della Cgil fin dal principio del governo Renzi.
Stamattina in molti si incontreranno al Teatro Brancaccio per l’iniziativa “Insieme” lanciata da Tomaso Montanari e Anna Falcone. Bersani non ci sarà: «Leggo ogni giorno sui giornali di strategie oniriche: listone di qui, di lì… Una strategia al giorno toglie il leader di torno».

Corriere 18.6.17
«Mia figlia è anoressica, nessuno ci aiuta»


Sono ragazza madre. Alle elementari mia figlia è stata oggetto di bullismo e ha incominciato ad avere problemi di socializzazione fino ad abbandonare la scuola dopo la terza media. Ha incominciato a stare completamente isolata in camera sua, ma sono riuscita a convincerla ad andare a colloquio con lo psichiatra infantile (allora aveva circa 16 anni). I colloqui sono continuati anche se in modo saltuario , perché chi ha questi problemi non ama andare ad analizzarsi. Contemporaneamente, se lo psichiatra non la vede all’incontro non viene certo a chiedere il perché. Poi, all’eta di 21 anni, dopo la morte della nonna, è peggiorata tanto che oggi le sarebbe impossibile andare «fisicamente» dallo psicologo perché allettata dalla debolezza in quanto anoressica. Tutto questo allo Stato va benissimo, e a nessuno interessa che a 25 anni una giovane stia sempre sul letto e non riesca più ad uscire . Perché, allora, la medaglia a certi psichiatri? Beh, quando le prescrivevano dei farmaci, scrivevano come diagnosi «psicosi», ma quando io chiedevo la cartella clinica la parola «psicosi» scompariva perché io non dovevo richiedere la pensione di invalidità, perché, secondo loro, mia figlia ce la poteva fare ad uscirne! Complimenti: ad uscirne indenne è solo lo Stato che ha risparmiato una pensione di invalidità. E non mi si chieda di ricoverarla perché non fa male a nessuno, tranne che a se stessa!
C. S.


Il Sole Domenica 18.6.17
Quella sintonia piena fra il Papa e la Merkel
di Carlo Marroni


È stata la sesta che volta che si sono visti da quando Francesco è stato eletto Papa, la quarta in forma privata. Un record con un capo di Stato. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha stretto un forte legame con Bergoglio, che le riconosce la forte leadership, e non solo europea. «Sintonia sulla necessità di abbattere i muri» è il messaggio che filtra dall’incontro di 40 minuti nel Palazzo Apostolico, e suona come un testamento spirituale di Helmut Kohl, il cancelliere della riunificazione tedesca e maestro politico della Merkel scomparso poche ore prima, protagonista dell’abbattimento del muro più famoso e triste della storia. Tanto che Francesco nel telegramma di cordoglio ha ricordato il grande Kohl, cattolico, come appunto il «Cancelliere dell’Unità, grande uomo di Stato e convinto europeo», impegnato «a favore della pace e della riconciliazione». L’udienza di ieri, annunciata una settimana fa – e propiziata dall’ambasciatrice tedesca presso la Santa Sede Annette Schavan, buona amica della Cancelliera e sua ex ministra – arriva a pochi giorni dal G-20 di Amburgo, che ha al centro i temi della cooperazione con l’Africa, e quindi la lotta alla povertà, e che vede sullo sfondo anche l’immigrazione, dossier su cui la Germania – alleata in questo con l’Italia – ha una posizione molto chiara a favore di una accoglienza attiva. Infine il clima, che ha visto i paesi europei (più Canada e Giappone) schierati contro gli Usa di Donald Trump a difesa dell’intesa di Parigi, posizione del tutto condivisa dalla Santa Sede e dal Papa in persona, che ripete spesso la pastorale ambientale disegnata nell’enciclica Laudato Si’. Questioni poi riprese nell’incontro con il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e il “ministro degli esteri” della Santa Sede, Paul Gallagher. La morte di Kohl ha un po’ modificato l’agenda della Cancelliera, che aveva in programma di visitare la mostra in Vaticano (realizzata con il Museo Ebraico di Roma) sulla Menorah, accompagnata dall’arcivescovo di Berlino, visita cancellata. L’udienza si è aperta - riferiscono fonti presenti in Vaticano - in un clima di cordialità. Merkel, che nei giorni scorsi era stata in Argentina, ha portato in dono a Bergoglio i dolci della sua terra: alcuni barattoli di “dulce de leche” e biscotti argentini. Inoltre ha regalato al Papa cd musicali con le opere di Ludwig van Beethoven. Francesco ha invece donato le copie in tedesco della “Laudato si’”, di “Amoris Laetitia” (i temi trattati sono molto sentiti in Germania) e “Evangelii Gaudium”. Inoltre le ha regalato una scultura bronzea rappresentante un ramo d’ulivo, simbolo della pace. Il rapporto stretto tra il Papa e la Cancelliera – figlia di un pastore luterano – è confermato da diversi elementi: uno di questi è il fatto che Bergoglio lo scorso anno abbia accettato di ricevere il premio Carlo Magno conferito dalla città di Aquisgrana, fatto pressochè unico. Inoltre in Germania – dove si voterà per il rinnovo del Parlamento il prossimo ottobre ed è scontata al momento la conferma della Cancelliera – l’episcopato guidato dal progressista cardinale Reinhard Marx guarda con grande favore al riformismo di Papa Francesco, e questo non può non avere dei riflessi “politici” anche a Berlino. Ma non per questo Bergoglio ha promesso di andare in visita in Germania: per adesso la vecchia Europa – Italia a parte – è fuori dai tragitti papali, e anche le visite in parte promesse, come in Francia, non sono in agenda.

Il Sole Domenica 18.6.17
La narrazione dell’Antropocene
di Amitav Ghosh


Non esiste più la separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale. Le due divinità felicemente accoppiate, Natura e Cultura, sono morte e con loro l’idea di scrittura ecologica
In uno dei passi che più colpiscono di Madame Bovary, Emma descrive i suoi gusti in campo letterario dicendo di adorare le storie che si leggono d'un fiato e mettono paura. E di detestare gli eroi banali e i sentimenti tiepidi come quelli che si trovano nella Natura.
C'è qualcosa di perturbante nel leggere queste parole oggi: sembra quasi incredibile che ci sia stato un tempo in cui le molteplici forze della terra venivano considerare come un tutt'uno – la “Natura” – e associate a parole come “banale” e “tiepido”. È come se l'eco di tali parole giungesse fino a noi dal baratro che separa la nostra sempre più turbolenta era di violente alluvioni, ondate di calore senza precedenti, tempeste epocali e prolungate siccità dal periodo di stabilità climatica che diede origine alle forme di arte e letteratura che associamo con la modernità. È come se stessimo scivolando via su un iceberg appena staccatosi dalla banchisa, fissando sconsolati lo sguardo sul continente che credevamo sarebbe stato per sempre la nostra casa.
2
Se qualcosa contraddistingue gli esseri umani in quanto specie, questo qualcosa, io credo, è la nostra capacità di fare esperienza del mondo attraverso le storie. Quali sono dunque le storie che hanno dato forma alla visione della Natura che si riflette nelle parole di Emma Bovary? Eccone un esempio.
Il racconto si chiama La capanna indiana, e comincia così: “Circa trent'anni or sono fu costituita a Londra un'associazione di studiosi che si proponeva di dedicarsi alla ricerca, nelle varie parti del mondo, di tutte quelle cognizioni che valessero ad illuminare gli uomini intorno ai più disparati problemi della scienza, e a renderli in tal modo più felici”. Erano venti studiosi in tutto, e il più dotto fra loro, un erudito che conosceva l'hindi, oltre all'ebraico e all'arabo, partì per l'India. Dopo tre anni di peregrinazioni, giunse finalmente a Benares, “l'Atene delle Indie”, dove ebbe modo di parlare con molti dotti bramini e raccolse un'immensa collezione di manoscritti. Era sul punto di tornare indietro col suo ricco carico di conoscenza quando apprese che il più dotto fra i pandit dell'India non si trovava a Benares, ma nel tempio di Jagannath, in Orissa. A quel punto lo studioso partì senza indugi alla volta di Calcutta, dove un direttore della Compagnia delle Indie orientali mise a sua disposizione un palanchino e dei portatori che lo scortassero fino al grande tempio. Mentre viaggiava verso sud, pensò che non avrebbe tediato il pandit con questioni di poco conto, ma si sarebbe limitato a tre domande della massima rilevanza. Una volta ammesso nel sancta sanctorum del tempio, si era deciso per tre quesiti che gli sembravano eclissare tutti gli altri: Quale metodo si deve seguire per conoscere la verità? Dove va cercata la verità? È sempre opportuno rivelare la verità agli uomini?
Il pandit aveva risposte pronte per tutt'e tre le domande. La verità risiede tutta nei Veda, disse, e la si può conoscere solo attraverso i bramini, gli unici che posseggono il segreto della lingua in cui la verità è stata rivelata. Quanto all'opportunità di rivelare la verità agli uomini, disse il pandit, “conviene per prudenza nasconderla a tutti; dirla ai bramini, invece, è un dovere”. L'inglese restò talmente costernato da queste risposte che sbottò: “Bisogna dire la verità ai bramini che poi non la fanno sapere a nessuno! Sono ingiusti davvero, i signori bramini...”
Ne conseguì uno spaventoso tumulto, al termine del quale lo studioso fu cacciato dal tempio. Sulla via del ritorno, mentre attraversavano una foresta, lui e il suo seguito furono sorpresi da un ciclone che soffiava dal mare. Affrettarono il passo, sferzati dal vento e dalla pioggia, finché non scorsero una piccola capanna al riparo di colline, rocce e alberi. Lo studioso, sollevato, pensò subito di trovarvi rifugio, ma non riuscì a persuadere i suoi accompagnatori a unirsi a lui. La capanna apparteneva a dei paria, dissero, appartenenti a una delle caste più basse dell'India, e non ci avrebbero messo piede.
“Restate pure qui se volete” replicò lo studioso. “Quanto a me, io non faccio alcuna differenza tra le caste dell'India”. Così dicendo, entrò nella capanna, e ricevette una calorosa accoglienza da chi la abitava, un uomo dalla fisionomia dolce e sua moglie. Mentre fuori imperversava la tempesta, l'inglese parlò a lungo con quell'uomo, e si rese conto che possedeva molta più intelligenza e buon senso di qualunque sapiente o pandit da lui incontrato nel corso dei suoi viaggi. Come aveva fatto quell'uomo così semplice ad acquisire una tale saggezza? Alla fine, incapace di trattenersi, gli domandò dove si trovava il suo tempio.
“Dovunque” rispose il paria. “Il mio tempio è la natura”.
“Da quale libro” lo incalzò lo studioso “avete attinto i vostri principi?”
“Nella natura. Non ne conosco altri”.
“Ah! È un gran libro davvero” disse l'inglese. “Ma chi vi ha insegnato a leggere in esso?”
“La sventura” rispose il paria. “Nato in una casta che nella mia patria viene considerata spregevole, non potevo essere indiano. Così ho fatto di me stesso un uomo; rifiutato dalla società, ho trovato rifugio nella natura”.
Quanto alla questione se la verità dovesse essere rivelata a un mondo che spesso ricompensa l'onestà con la persecuzione, la risposta fu: “La verità dovrebbe essere detta solo agli uomini che hanno un cuore semplice”.
3
Questa, in breve, è la storia narrata in La capanna indiana, un racconto pubblicato nel 1791 da uno scrittore francese che non aveva mai messo piede in India, Bernardin de Saint-Pierre (1737-1814), romanziere, naturalista e filosofo, nonché amico e discepolo di Jean-Jacques Rousseau.
Nel corso di una vita straordinariamente varia e interessante, Saint-Pierre pubblicò un'opera in molti volumi, Studi della Natura, di cui fa parte anche un romanzo esasperatamente romantico, Paul e Virginie, che suscitò l'ammirazione di Alexander von Humboldt nonché di Napoleone Bonaparte, il quale pare lo leggesse e rileggesse quand'era prigioniero a Sant'Elena. I temi del romanzo, ovvero la ripulsa, la ritirata e la sconfitta, non potevano non interessare Napoleone, e anche l'ambientazione su un'isola, Mauritius, dove Saint-Pierre aveva soggiornato nel 1769.
Pare che, nel periodo trascorso sull'isola, Saint-Pierre fosse entrato a far parte della cerchia di Pierre Poivre, un naturalista e funzionario francese che aveva viaggiato in lungo e in largo per l'Asia. Com'è noto, il peculiare ecosistema di Mauritius era stato gravemente impoverito dai primi coloni olandesi . All'inizio del Settecento, il dodo era stato sterminato, e la foresta abbattuta. Rendendosi conto della fragilità dell'ecosistema insulare, Poivre introdusse una serie di misure ambientali ispirate ai metodi della selvicoltura tradizionale praticata in Cina, India, Indonesia e negli insediamenti olandesi del Capo di Buona Speranza. Sebbene effimere, tali misure vengono considerate uno dei primi esempi di interventi statali dettati da preoccupazioni ecologiche
Si potrebbe dunque affermare che Bernardin de Saint-Pierre fu testimone della nascita dell'ecologia e dell'attivismo ambientalista quali li conosciamo oggi, e in tal senso egli va considerato come uno dei principali fautori di una visione della Natura la cui influenza era destinata a prolungarsi ben oltre la sua epoca
6
Le nostre abitudini di lettura – e quelle di Emma Bovary – si sono formate proprio a quell'epoca, quando gli esseri umani e il loro ambiente esterno erano nettamente separati in due categorie: “Cultura” e “Natura”. Tale distinzione è stata in un certo senso assai produttiva per le arti, e soprattutto per la narrativa. Fra i grandi romanzi del Novecento ce ne sono molti in cui i protagonisti umani sono in lotta con la Natura, e alcuni dei più grandi fra questi romanzi sono opera di scrittori nordici, ad esempio Gente indipendente di Halldór Laxness e Il risveglio della terra di Knut Hamsun. Nell'uno e nell'altro, paesaggi straordinari forniscono scenari di incommensurabile potenza proprio per il fatto di essere puri e incontaminati, privi di qualunque traccia umana.
Ma nessuno scrittore può sognarsi di immaginare che tali paesaggi esistano ancora. Se uno scrittore contemporaneo dovesse tornare nei luoghi di cui scrissero Laxness e Hamsun, si troverebbe di fronte a un permafrost in via di scioglimento, popolazioni animali in calo, ritiro dei ghiacciai, nevicate irregolari, aumento della temperatura e via dicendo. In un mondo in cui la vita anche nei più remoti villaggi subisce l'impatto delle emissioni di continenti lontani, non è più possibile conservare l'illusione di un mondo puro e incontaminato.
Una delle ragioni è che il cambiamento climatico ha prodotto un effetto, tanto sottile quanto evidente, anche sullo strumento stesso della letteratura: la lingua. Oggi, tornando nei territori di Laxness e Hamsun, uno scrittore sarebbe costretto non solo a riconoscere l'alterazione subita dal paesaggio, ma anche a usare espressioni stridenti come “ritiro dei ghiacciai”, “innalzamento del livello del mare” eccetera. Una volta introdotte, queste espressioni avranno lo stesso effetto di una specie invasiva in un ecosistema incontaminato: lacereranno inevitabilmente il tessuto poetico della lingua che un tempo permetteva di evocare questi scenari unici.
È passato più di un secolo da quando Bill McKibben scrisse che viviamo in un mondo “post-naturale”. Nell'era dell'Antropocene è diventato impossibile tenere in piedi la finzione di una netta separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale: le due cose oggi appaiono indissolubilmente intrecciate. Ciò significa che quelle due divinità felicemente accoppiate, “Natura” e “Cultura”, sono morte, e che l'idea stessa di “scrittura ecologica”, così come la conoscevamo, è morta con loro.
– Traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti

Il Sole Domenica 18.6.17
Giorello: se non è ribelle che scienza è?
di Armando Massarenti


L’etica del ribelle di Giulio Giorello, una Intervista su scienza e rivoluzione realizzata da Pino Donghi (edita da Laterza) è, tra le altre cose, un omaggio appassionato al proprio maestro, Ludovico Geymonat. Il che di per sé è già una notizia, perché molti ricorderanno ancora il clamore che suscitò, nel lontano 1981, l’edizione per il Saggiatore del saggio Sulla libertà di John Stuart Mill nella cui introduzione Giorello e Marco Mondadori “tradivano” Geymonat dopo anni di elaborazione comune del cosiddetto «neomaterialismo dialettico». La proposta del liberalismo milliano, unita a quella più generale di una forma di utilitarismo che riprendeva il riformismo di Bentham, attualizzandolo attraverso la raffinata riformulazione contemporanea di John Harsanyi, era un vero e proprio atto di ribellione nei confronti non solo della sinistra marxista in generale ma anche di chi ne era stato, dal 1945, una delle principali anime critiche. Ma ora Giorello ci ricorda quanta fedeltà ci fosse in quel tradimento. Il ribelle di cui si parla nel titolo, che intreccia politica, etica e conoscenza, è descritto proprio da Geymonat in quegli Studi per un nuovo razionalismo che volle recassero come data di pubblicazione il 25 aprile 1945, giorno della liberazione dal fascismo ma anche dal conformismo intellettuale del nostro Paese. «Mi ribello, diceva Geymonat, perché non venga meno la mia esigenza di sincerità». Il ribelle, sostiene Giorello, va distinto dal rivoluzionario, il quale, per amore della rivoluzione, può rivelarsi assai poco innamorato della libertà in quanto tale. Anticonformismo ed eccentricità sono i tratti che Mill - e prima di lui Bruno, Milton, Spinoza, altri eroi giorelliani - individua come essenziali non solo sul piano della vita civile improntata al pluralismo delle visioni del bene, ma anche e soprattutto per la vita intellettuale e per la crescita della conoscenza. «In Mill emerge nettamente come la questione della conoscenza incontri la questione della libertà: ben prima di Popper! E se noi pensiamo che, perché un’idea scientifica possa essere accettata, debba essere esposta al fuoco della critica, bisogna che i critici siano liberi, cioè vuol dire che bisogna che la scienza sia parte attiva e imprescindibile della conquista della libertà di espressione». La maggior parte delle rivoluzioni o delle svolte scientifiche sono state determinate da “tensioni concettuali” derivate spesso da una crisi, una difficoltà, un “mostro”, un’eccezione alla regola che poi, grazie alla creatività degli scienziati, si è trasformata in una nuova assai più proficua regola. A simili tensioni sono stati sottoposti i concetti di numero, spazio, energia, materia, pianeta, che hanno dovuto essere reinterpretati alla luce di nuovi fatti inaspettati. «Il progresso nasce proprio da queste mosse di risposta a errori, scacchi, sorprese anche spiacevoli». Giorello ritiene piuttosto sterile la discussione attuale sul nuovo realismo, incentrata sulla messa in discussione del detto di Nietzsche secondo cui «non ci sono fatti ma solo interpretazioni». La confutazione di tale assunto gli appare ovvia: ci sono fatti che entrano in costante tensione con le interpretazioni e le teorie, ma ciò non implica che il realismo sia da preferire sistematicamente al relativismo. Darwin nella sua Autobiografia racconta di quanto abbia passato la vita a raccogliere fatti, fatti, ancora fatti, i più diversi. «Dopodiché, ogni volta che aveva collezionato fatti, non esitava a formulare ipotesi; Darwin le chiama speculations: la speculazione sui fatti raccolti era per lui importante tanto quanto la raccolta medesima. E aggiungeva che quando poi i fatti non corroboravano l’ipotesi, allora scartava l’ipotesi... per provare a elaborarne un’altra». Ed è ancora Darwin a rendere chiara la distinzione tra il rivoluzionario e il ribelle e la sua utilità per capire le dinamiche dei cambiamenti nella conoscenza. In alcune sue lettere Darwin definisce l’idea dell’evoluzione delle specie come un delitto da lui commesso verso la società in cui viveva e contro i suoi valori, precisando però, sottolinea Giorello, di non poter fare diversamente perché altrimenti verrebbe meno il suo desiderio di sincerità. Ecco dunque in che cosa consiste L’etica del ribelle, e perché ha un grande valore per la civiltà: «Darwin preferiva andare contro l’opinione pubblica piuttosto che mentire a se stesso».

Il Sole Domenica 18.6.17
L’evoluzione dei cervelli morali
Conseguenze delle emozioni
Esplorare le ragioni alla luce della natura emotiva dell’uomo: questo è sempre di più l’ambito della neuroetica
di Elisabetta Sirgiovanni


«C’è molto al di sotto del cappello della morale, e noi ne ignoriamo i dettagli a nostro rischio». L’autore del monito è Joshua Greene. Neurofilosofo ad Harvard, ha avuto il merito, sin dai suoi primi studi empirici sulla morale quindici anni fa, di ridare spinta propulsiva al dibattito metaetico. Due testi recenti, uno nelle librerie americane per Oxford University Press, l’altro in traduzione italiana per Raffaello Cortina, consentono di tirare le somme di un ventennio di neuroetica e del clima culturale oramai mutato internazionalmente, con il prepotente ingresso delle scienze del cervello nelle humanities.
Moral Brains, frutto di una conferenza del 2012, è una raccolta di quindici contributi dai più autorevoli studiosi del settore, curata dal filosofo e bioeticista Matthew Liao, direttore del Center for Bioethics della New York University. Storia naturale della morale umana riassume cinque anni di ricerche dello psicologo e etologo americano Michael Tomasello, co-direttore a Lipsia del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology. Chiunque dovrebbe conoscere le insidie dei nostri cervelli morali, poiché continuamente decidiamo tra cosa ritenere permissibile e cosa no circa costumi, atteggiamenti, comportamenti; e puntualmente queste scelte sono influenzate da fattori interni di cui siamo inconsapevoli.
Significative sul piano morale sono le situazioni di conflitto, tra effetti indesiderati e spinte da controbilanciare, che chiamiamo dilemmi morali o anche dilemmi sociali, quando si tratta di giochi di interesse in cui negoziare il proprio tornaconto con quello degli altri. Possiamo ancora valutare affidabili questi giudizi, ignorandone natura e storia evolutiva? Oggigiorno sono sempre meno i professionisti della morale a pensarla in questo modo.
Nelle aule universitarie di tutto il mondo si elargiscono concessioni alle neuroscienze, specialmente per aver dimostrato quanto contino moralmente le emozioni e che a guidarci nelle decisioni e nelle azioni sono disposizioni e motivi inconsci a livello biologico anche profondo. Ma cosa succede se queste conoscenze sono usate per giustificare scelte che hanno funzionato nel passato o per ridurre le incertezze di scenari nuovi?
Greene a conti fatti mantiene un modello Vittoriano: conserva l’idea di una ragione regina sulle ingannevoli passioni ma sostiene, all’opposto di Kant, che questa favorirebbe una morale delle conseguenze. Tomasello specula su una presunta evoluzione a tre tappe che, a pensar male, ricalca una dialettica hegeliana. Si passerebbe da una morale emotiva della simpatia (tu>io), condivisa con i primati superiori, a una morale dell’equità e giustizia (tu=io), solo umana, fino a una forma ultima e genuina di etica, «oggettiva», «sopraindividuale», «fonte suprema del dovere» chiamata «razionalità cooperativa» (noi>io). Una morale che ci renderebbe a sua detta «ipersociali», «ipercooperativi».
Iperumani, quindi? Mettiamola in un altro modo. Siamo sicuri che le emozioni, in una società democratica e liberale, vadano sempre temperate con le prove che un’etica dell’utilità dovrebbe fondarsi sul controllo, attraverso la ragione, di euristiche e intuizioni? Su questo, in dialogo con Greene, gli autori di Moral Brains offrono acuti controesempi ed obiezioni. L’impressione, ad oggi, è che quest’approccio dicotomico e gerarchico tra emozioni e ragione, con le sue irrealistiche conclusioni, richieda raffinamenti, se non ripensamenti, in favore di modelli integrativi e più concreti, non assolutistici.
Meglio dare ruolo chiaro a questi campanelli del conflitto morale che sono le emozioni, capire come intervengono, quando ascoltarle, come riescono a regolarsi, ma anche come possono essere manovrate e come si può esserne travolti. Stiamo capendo distinzioni e effetti, identificando quelle di cui è privo chi ha deficit morali. Alla fine, condannare le emozioni tout court su basi consequenzialiste potrebbe essere un errore – quando cioè pensiamo che buttare un uomo da un cavalcavia per salvarne cinque che rischiano di essere uccise da un treno in corsa sia lo stesso che deviare un treno verso un binario in cui c’è una sola persona perché non ne colpisca cinque.
Già presentando a filosofi e non il dilemma in questo ordine, invece che nel solito ordine opposto, il primo gesto risulta meno grave; ma è discutibile sostenere che le scelte degli psicopatici, calcolatori algidi immorali che non distinguono i due casi, siano le migliori per la nostra convivenza. Tanto più che le reazioni avverse al danno personale, più emotive, rispetto a quelle razionali impersonali, si intensificano con la serotonina, il mediatore chimico dell’umore, che promuove socialità, inducendo a rifiutare le ingiustizie e smorzando atteggiamenti punitivi.
Per rispondere alle aspettative delle società moderne sembra improbabile che occorra, se mai possibile, rimanere imperturbabili. Emerge l’importanza di un’intima pervasione tra emozioni positive e ragione, la stessa che ci ha evolutivamente equipaggiati di quei tratti disposizionali distintivi che caratterizzano l’ingegnosità sociale altruistica - estremamente labile, guidata da strategie di reciprocazione o da interessi di natura.
Questa intelligenza è diversa da quella manipolativa, egoistica e nociva, per quanto vantaggiosa a breve termine, degli antisociali. Attraverso simpatia e avversità al danno verso gli altri, la prima ha mostrato, in ambienti avversi e competitivi, di essere adattiva, costruttiva e protettiva ad ampio spettro e per lungo corso per la specie. Verosimilmente, è la disposizione su cui continueremo a riflettere e scommettere nella neuroetica degli anni a venire, provando, non per forza con successo, a liberarci di rigidi schemi etici del passato e di radicati pregiudizi. Con l’obiettivo di costruire norme che ci indichino come motivarci e auto-regolarci, cognitivamente e emotivamente, cioè per valorizzare la nostra natura competitiva e cooperativa, o semplicemente pro-sociale.
S. Matthew Liao (a cura di), Moral Brains: The Neuroscience of Morality ,
Oxford University Press, New York, pagg. 384, £ 23
Michael Tomasello, Storia naturale
della morale umana , Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 268, € 25

Il Sole Domenica 18.6.17
Filosofia politica
Lecaldano. Le passioni e il senso della vita
di  Sebastiano Maffettone


Sul senso della vita è il titolo ambizioso dell’ultimo libro di Eugenio Lecaldano, già professore alla Sapienza e senza dubbio uno dei maggiori filosofi morali oggi in attività nel nostro paese. Il senso della vita si accosta necessariamente da due punti di vista assieme, quello privato ed esistenziale e quello pubblico e più politico. Il primo è connesso alle nostre biografie e impegna emozioni e partecipazione emotiva. Il secondo è collegato alla «inevitabile dimensione pubblica» e al contesto storico specifico. In questo modo, diventa perspicuo il legame tra ricerca personale del senso dell’esistere e volontà politica di vivere all’insegna di maggiore libertà. Da questo legame dipende poi l’ispirazione filosofica di questo libro che risale a David Hume (come è tradizionale per Lecaldano) e John Stuart Mill.
Nell’affrontare un problema così impegnativo come il senso della vita, dobbiamo giocoforza mettere da parte ogni scetticismo a priori, a cominciare quello promosso da filosofi per altro cari all’autore di questo volume come Ayer e Wittgenstein. Ma se lo scetticismo aprioristico non giova alla causa, nemmeno la via religiosa e spiritualistica –per Lecaldano- serve a molto. L’idea che solo una presenza superiore e creatrice garantisca il senso della vita non ci dice gran che, così come l’assicurazione sull’aldilà non spiega nulla sul contenuto della nostra ricerca esistenziale.
Un’eccezione –e sono d’accordo con l’autore- è costituita dal buddismo, che porta alle estreme conseguenze il potere della riflessività umana senza ricorrere a presupposti teistici. Qui si può solo osservare che il buddismo oscilla tra l’essere una religione e una più generica filosofia di vita. In ogni caso, per Lecaldano –il problema sul senso della vita va affrontato in termini di esperienza individuale. Semplificando al massimo, ognuno deve cogliere l’essenza del proprio carattere per accostare il senso della vita. Qui sono meno d’accordo.
Il problema di questo libro consiste proprio nel fatto che il mero relativismo descrittivo –«ognuno assecondi la sua natura», come si diceva- non soddisfa dal punto di vista normativo (se uno avesse una natura perversa, dovrebbe assecondarla?). Dal punto di vista della filosofia morale gli autori di riferimento sono, per Lecaldano, Bernard Williams e Thomas Nagel, ma notevole spazio è dedicato anche all’opera di Susan Wolf. Nella parte finale, Lecaldano critica con veemenza ogni tentativo di costruire un’identità basata sull’appartenenza culturale, mentre promuove quella ricerca che scava nelle passioni e nelle emozioni in un’ottica «sentimentalistica».
In ultima analisi, una pura analisi razionale della vita non è sufficiente, per l’autore di questo libro, a dare ad essa senso. Ora, si può essere d’accordo con lui sul fatto che esista un residuo personale irredimibile in ogni ricerca sul senso della vita, ma quando l’indagine sul tema viene proposta in forma saggistica, e non come in un racconto, sembra impossibile prescindere da una dimensione normativa e razionale.
Eugenio Lecaldano, Sul Senso della Vita , il Mulino, Bologna, pagg. 147, € 16

Il Sole Domenica 18.6.17
Un convegno a bologna
A che punto siamo con Dio?
di Franco Cardini


Mémoires d’Outretombe. Nel 1961 un sociologo intelligente e marxista a modo suo, Sabino Acquaviva, pubblicava (ovviamente per i tipi di Comunità) un libro dal titolo L’eclissi del Sacro nella società industriale. Dio non è ancora proprio morto, argomentava Acquaviva, ma quasi: dal momento che il fantasma divino era figlio dell’ignoranza, dell’arretratezza, della paura, della superstizione, della miseria, del dolore, a eliminarlo dal nostro futuro dalle “magnifiche sorti e progressive” sarebbero state la sempre maggior libertà e con essa la scienza, la tecnica, il progresso socioeconomico, la vittoria contro le malattie, la sempre più sicura ricerca della felicità. Il che, ad Acquaviva marxista sì ma anche eretico, sorrideva solo fino a un certo punto. Liberarsi di Dio – e quindi dei limiti che la sua stessa idea opponeva alla “volontà di potenza” umana -, sarebbe stato per la nostra civiltà come per l’individuo liberarsi repentinamente da tutti i complessi: qualcosa di non privo di rischi e di forti, inattese problematiche.
Bene: se quello era un rischio, sembra proprio che oggi non lo si corra più. Si poteva sperare o temere, comunque pensare che ce l’avremmo fatta in quella che, al principio degli Anni Sessanta, era appunto la “società industriale”: un’espressione ormai dimenticata, polverosa e vetusta, roba da Oliver Twist e da Padrone delle Ferriere. Oggi, in piena “era digitale”, Dio ha avuto tutto il tempo di eclissarsi e poi di ricomparire in mille modi, con mille volti alcuni dei quali addirittura nuovissimi, postmoderni: abbiamo assistito alla crisi ma anche alla rinascita di molte religioni tradizionali, all’imporsi di nuovi culti e addirittura al “ritorno selvaggio” di un Dio guerriero dai tratti ancor più terribili di quelli delle divinità pagane che le fantasie wagneriane e razziste avevano sembrato evocare nel secolo scorso. Oggi, mentre un pontefice venuto dal Lontano Occidente sembra sconvolgere di nuovo l’equilibrio della Chiesa cattolica e la fitna tra sunniti e sciiti esce dai confini dell’Islam per tracimare sull’Occidente, ci troviamo di nuovo dinanzi a un còmpito inatteso: dover fare i conti con Dio nei suoi mille volti e nei suoi molti aspetti, dover magari cercar di ridefinire quel misterioso senso del “Sacro” che cento anni fa, nel fatidico 1917, Rudolf Otto sembrava aver pietrificato per sempre nella perentoria definizione di ganz Anderes, il “totalmente Altro”, il del-tutto-estraneo-rispetto-a-noi.
È in fondo di tutto ciò che ci si appresta a parlare a Bologna, dove tra oggi e il 22 giugno la European Academy of Religion, sodalizio fondato nel 2016 sotto l’egida della prestigiosa Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII, terrà una Ex Nihilo. Zero Conference ch’è, nel suo stesso titolo, una lampante dichiarazione di paradossale problematicità. Da un lato, l’assunto creazionistico-antiaristotelico dell’ex nihilo, quanto meno se lo riferiamo all’eternità dell’universo sancita dallo Stagirita, ci riallaccia in modo inequivocabile alla “rivoluzione abramitica” e quindi alla Bibbia (ma anche al Vangelo e al Corano); dall’altro, però, l’evocazione dello “zero” (l’as-Sifr degli arabi, il Grande Nulla che conferisce significato a tutti i numeri possibili) pare alludere alla necessità di una ridefinizione coraggiosa, di una generale riconsiderazione del fatto religioso e, con esso, del ruolo dell’essere umano oggi. Nell’era appunto detta “digitale”, un aggettivo ce deriva dall’inglese digital che significa appunto, guarda caso, “cifra”.
Siamo dunque ben al di là sia della teologia, sia delle religioni storiche. E in sede di cerimonia di apertura dei lavori, oggi, spetta proprio ad Alberto Melloni, segretario della Fondazione bolognese, chiarire e definire il carattere e gli scopi di cinque intensi giorni di relazioni scientifiche, di dibattiti e d’incontri ai quali prenderanno parte alcuni fra i protagonisti della vita scientifica e intellettuale italiana ed europea, da Ján Figel a Olivier Roy, da Hans-Peter Grosshans a Pierre Gisel, da Perry Schmidt-Leukel a Radwan Masmoudi, da Dina Porat a Simonetta della Seta, da John S. Kloppenborg a Romano Prodi a molti altri. Si affronteranno ovviamente questioni di scienza delle religioni, ma anche e in un certo senso soprattutto riferite al rapporto tra la crisi della Modernità (l’avvento della “Modernità liquida”, come direbbe Zygmunt Bauman) e al ripresentarsi del fatto religioso in termini talora fenomenologicamente problematici, come quello che fino a qualche tempo fa si definiva in Italia “fondamentalismo” e che trova oggi la sua espressione più allarmante nel cosiddetto islamismo-jihadismo con le sue pertinenze terroristiche, ma che comporta aspetti che vanno ben al di là della cultura musulmana e trovano riscontro anche nel cristianesimo, nell'ebraismo, nell’induismo.
Dal punto di vista della ricerca scientifica, scopo evidente della conferenza è il superamento della tradizionale difficoltà di convivenza tra prospettive propriamente teologiche e prospettive storico-socio-filologiche: ciò sarà ben chiarito nella lectio di Pierre Gisel, Vers une cohéxistence créative entre théologie et science des religions. Lo scopo dell'evento bolognese resta eminentemente legato agli studi. Il che non significa che si vogliano eludere i problemi socioculturali della società di oggi, al contrario: e la lezione di Olivier Roy, dedicata a La question religieuse en Europe à la lumière du débat sur l'islam toccherà al riguardo un tema centrale e nevralgico.
Va detto infine che una grande protagonista di questi cinque intensi giorni, fitti anche di d’incontri specie musicali, sarà la città Bologna col suo arcivescovo Matteo Maria Zuppi, con il rettore della sua quasi-millenaria Università Francesco Ubertini e con le sue sedi più prestigiose, dall’Aula Magna di Santa Lucia al Palazzo di Re Enzo.

Corriere La Lettura 18.6.17
Adam Smith sbagliava perché le reti sociali precedono l’economia Siamo figli del dono e non del baratto
di Adriano Favole


Il dono assomiglia a uno di quei corpi celesti che in teoria dovrebbero esistere, di cui si danno cioè segni di presenza, ma che risulta impossibile vedere con certezza. Guy Nicolas (Alfredo Salsano, Il dono perduto e ritrovato , Manifestolibri, 1994) lo definiva la faccia nascosta della modernità: se la ricerca dell’interesse, il calcolo, il profitto, insomma l’economia di mercato ha un carattere evidente, lineare e misurabile, il dono — che pur sorregge e struttura le relazioni sociali — è quanto mai sfuggente. Non poche narrazioni oggi riportano a galla le economie del dono, ma per intendere che cosa?
Il dono è il gesto disinteressato e generoso, l’anonimo che contribuisce a una campagna di raccolta fondi per i poveri oppure è quel principio di reciprocità mosso dalla triplice legge del dare-ricevere-ricambiare come diceva Marcel Mauss ( Saggio sul dono , Einaudi, 2002) che non esclude in realtà il perseguimento dell’interesse e l’ostentazione del dare? Uno scambio di oggetti, servizi, favori è dono e non mercato quando manca la garanzia della restituzione o, meglio, quando essa è affidata al legame sociale e non a un contratto; è dono quando non c’è una misurazione oggettiva del valore. Il dono in questo caso è reciprocità ma tutto ciò ha ben poco a che fare con il dono «puro» e disinteressato.
Diversi libri pubblicati di recente provano a svelare il pianeta nascosto del dono, in una contemporaneità dominata dal paradigma economicista. Cosimo Marco Mazzoni per esempio considera il dono ambivalente, oscuro, contradditorio e lo definisce un «dramma» ( Il dono è il dramma , Bompiani 2016). La gratuità in effetti induce sospetto: «Se è gratis c’è l’inganno», pensiamo; essa nasconde spesso dinamiche di potere per cui il donare apparentemente liberale schiaccia chi lo riceve. La beneficenza è un prodotto di società della diseguaglianza, in cui prima si accumula la ricchezza in poche mani che in seguito si presentano come generose (Jean Starobinski, A piene mani , Einaudi, 1995). Abitante straniero di un continente dominato dal mercato, il dono presenta molti lati oscuri. Mazzoni però contribuisce a spiegarne la forza e la persistenza nella modernità: il dono consente riconoscimento e ri-conoscenza (reciproca). Soprattutto nella figura maussiana del dare, ricevere, ricambiare, donatori e riceventi si riconoscono a vicenda, ribadiscono attraverso la circolazione degli oggetti la loro «presenza» sulla scienza sociale. Il dono, in questo senso — ed è un vecchio tema dell’antropologia economica — fonda la persona relazionale.
Anche il libro di Matteo Aria I doni di Mauss (Cisu, 2016), che ricostruisce puntualmente i dibattiti che hanno accompagnato il dono all’interno della storia dell’antropologia culturale, ne mostra ambiguità e contraddizioni. Fin dal Saggio di Mauss, il dono oscilla tra interesse e gratuità, tra reciprocità e assenza di restituzione. I critici del dono lo vedono come un «camuffamento» della logica di mercato, come una testa d’ariete di un tardo capitalismo edulcorato e travestito. Donando, gli esseri umani perseguirebbero i propri interessi con altre modalità. Gli entusiasti del dono, riuniti nel movimento che porta l’acronimo M.A.U.S.S. ( Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales ) vi vedono invece l’ultima forma di resistenza contro la diffusione della specie invasiva dell’ homo oeconomicus , fattosi macchina calcolatrice e distruttrice di ambienti e relazioni sociali. Un tesoro nascosto fatto di volontariato, collaborazione informale, rapporti inter-generazionali che regge la vita delle società post-welfare state , dove è grazie ai rapporti di reciprocità che si supplisce al venir meno dello Stato madre che si prende(va) cura dei figli. Per diradare le nebbie, Aria distingue il dono dalla «condivisione», nozione più adatta a esprimere quelle situazioni caratterizzate dallo «stare» e dal «fare» insieme, anche a prescindere dallo scambio. Si delineano così quattro diverse logiche dell’agire economico: la condivisione, la reciprocità (o dono), lo scambio-mercato e la redistribuzione garantita dallo Stato o comunque da un centro politico.
Un modo di avvicinarsi al pianeta del dono può consistere nel ritornare agli originali lidi oceaniani che ispirarono Mauss. Serge Tcherkézoff, antropologo francese, tra i più importanti esperti europei di Oceania, ha di recente pubblicato Mauss à Samoa (Pacific-Credo, 2016). I samoani, anche oggi, si scambiano cibo, stoffe di corteccia e soprattutto finissime stuoie ottenute intrecciando foglie di pandano, soprattutto nel corso dei riti di passaggio (nascita, primo tatuaggio, matrimonio, accesso al ruolo di «capo villaggio», funerale). Il termine samoano più vicino all’idea di «dono» è sau . A Samoa, ci dice Tcherkézoff, sau significa «la felicità del donare e la capacità di creare la vita». Come sintetizzò un capo di alto rango a Tcherkézoff all’inizio degli anni Ottanta: «La nozione di sau è legata alla persona. Noi diciamo il sau della vita . Vuol dire: il tuo arrivo, il tuo essere qui è il sau della mia vita », per questo all’arrivo di qualcuno o di uno straniero gli si fa un dono.
Nella cultura samoana i doni, soprattutto le stuoie, simboleggiano la capacità dell’essere umano di «nutrire», avvolgere e dare la vita. L’economia dei doni esprime la dimensione relazionale dell’essere umano, la centralità del legame sociale che va anche oltre la dimensione dell’esistente, perché unisce i viventi con gli antenati e con coloro che stanno per nascere. Si potrebbe dire che se i soldi non si portano nella tomba, i doni tutto sommato sì! E così oggi, la diaspora samoana verso la Nuova Zelanda, il Regno Unito e la costa pacifica degli Usa, si accompagna alla diffusione delle stuoie di pandano che simboleggiano la profondità genealogica dei gruppi e la rete orizzontale che lega tra loro le famiglie samoane.
Fin qui antropologi, giuristi, sociologi: ma che ne pensano gli economisti del dono? Quale spazio gli riservano nei loro studi? Nel recente Economics as social science (Routledge, 2016), Roberto Marchionatti e Mario Cedrini ribaltano la tesi di Adam Smith: «La scoperta di Mauss — scrivono — è la mano invisibile dello scambio dono, vale a dire la fondazione socio-politica delle società, da cui dipende la loro dimensione economica (e razionale)».
L’errore di Adam Smith, replicato all’infinito dai suoi discendenti, è stato quello di porre all’origine delle economie umane il baratto, concepito come una forma arcaica di logica di mercato che dimostrerebbe l’universale (e immutabile) natura umana, ovvero il perseguimento dell’utile e dell’interesse individuale. In realtà, come già ha chiaramente argomentato David Graeber ( Il debito , Il Saggiatore, 2011), all’origine furono il dono e il debito, non il baratto. L’economia è incastonata nelle reti sociali e non viceversa. Uscire dall’imperialismo della scienza economica che da tempo si è chiusa in un’isola separata dalle altre scienze sociali, significa insomma mettere al centro nozioni come quelle di dono, condivisione e redistribuzione, la cui complessità rende ragione di un essere che «ancora non è diventato una macchina calcolatrice», come scriveva Mauss.

Corriere 18.7.16
«Diritto di sciopero, serve una norma contro la dittatura delle minoranze»Ichino: la proclamazione andrebbe vincolata a un requisito maggioritario
di Andrea Ducci


ROMA Un sistema a maglie più strette, per evitare di finire in balia di scioperi indetti da sigle sindacali minori. Lo strumento è il referendum tra i lavoratori. A suggerirlo è Pietro Ichino, senatore del Pd, e autore del disegno di legge, arenato a Palazzo Madama, che dovrebbe disciplinare le regole sugli scioperi.
Senatore ormai da più parti viene evidenziata l’urgenza di regolamentare il diritto di sciopero. Serve davvero un giro di vite?
«Non si tratta di un giro di vite, ma di introdurre un principio di democrazia sindacale, come proposto anche dalla Commissione di Garanzia».
Democrazia sindacale in che senso?
«Nel disegno di legge che ho predisposto si limita l’intervento al settore dei trasporti, perché in questo settore, assai più che in altri, l’astensione dal lavoro di una frazione relativamente piccola di lavoratori può bloccare l’intera azienda o l’intera categoria, ostacolando anche il lavoro di tutti i terzi. Logica vuole che la decisione grave dello sciopero sia presa a maggioranza, o quanto meno con il consenso di una minoranza qualificata attraverso lo strumento del referendum».
Ma il referendum preventivo tra i lavoratori non è una soluzione macchinosa?
«È previsto dalle leggi tedesca, britannica, spagnola, e persino da quella greca: non sarebbe certo una anomalia nel panorama europeo. La mia proposta, però, è che il referendum debba essere attivato solo quando a proclamare lo sciopero sia una coalizione sindacale minoritaria nell’azienda, o nel settore».
Oltre a questa, quali altre misure sono in discussione al Senato?
«La mia proposta prevede anche una disciplina dell’assemblea sindacale per tutto il settore dei servizi pubblici. Il principio deve essere lo stesso che si applica per le ferie: quello cioè del contemperamento dell’interesse dei lavoratori o del sindacato con quello della regolarità del servizio, che di norma non deve essere interrotto dall’assemblea. Un’ulteriore misura è, per esempio, quella del disegno di legge Sacconi che, nei servizi pubblici, obbliga il lavoratore a dichiarare la propria adesione allo sciopero con almeno cinque giorni di anticipo».
Questa proposta di Sacconi in concreto è praticabile?
«Certo che sì. Anzi, in un libro di qualche anno fa sostenni che questo obbligo potesse già dedursi dalla regola vigente dal 1990 che impone l’informazione preventiva degli utenti. Se a questo obbligo sono vincolati il sindacato e l’impresa, perché mai non dovrebbero esservi assoggettati anche i singoli lavoratori? D’altra parte non c’è alcuna questione di segreto o di privacy, perché comunque la loro adesione allo sciopero alla fine è conoscibile da chiunque».
La riforma degli scioperi avviata nel 2015 è finita su un binario morto per ragioni politiche. Chi ha maggiore responsabilità all’interno della maggioranza?
«In realtà, in questa legislatura qualche cosa si è fatto. Mi riferisco all’assoggettamento del settore dei beni culturali alla disciplina generale dello sciopero nei servizi pubblici, a seguito di un episodio di chiusura improvvisa e indebita del Colosseo. Però, è vero, si sarebbe dovuto e potuto provvedere a un intervento più organico di completamento della disciplina della materia, soprattutto nel settore dei trasporti. Purtroppo ci si è limitati a proclamare la necessità di farlo in occasione delle emergenze più gravi. Su questo piano, tutta la nostra politica è responsabile della tendenza a muoversi, o a dire di volerlo fare, solo sotto la pressione delle emergenze».
Realisticamente quanto tempo occorre per ottenere una nuova regolamentazione degli scioperi?
«Se il governo e la maggioranza fanno proprie le dichiarazioni dei giorni scorsi del segretario del Pd Renzi e del ministro dei Trasporti Delrio, le commissioni Affari costituzionali e Lavoro del Senato possono sfornare il testo per l’Aula in quindici giorni. Un testo semplice, di quattro o cinque articoli in tutto, che potrebbe essere approvato anche prima della pausa estiva, poi dalla Camera prima della sessione di bilancio».

Repubblica 18.6.17
Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera: solo le sigle rappresentative proclameranno un’agitazione
“Nessuno vuole toccare i diritti ma ora i Cobas vanno fermati”
intervista di Aldo Fontanarosa


ROMA. Una soglia di sbarramento può salvarci dagli scioperi selvaggi nei trasporti. La proposta di legge a firma Cesare Damiano – indicata ieri dal ministro Delrio a
Repubblica come possibile soluzione – se approvata metterebbe fuori gioco le piccole sigle sindacali e i Cobas. La rappresentatività farebbe capo ai soli sindacati forti di un 5% come media tra le iscrizioni dei lavoratori e i voti ottenuti nelle consultazioni in azienda o in fabbrica. Un’avvertenza, però: presentata nel 2013 in Commissione Lavoro alla Camera, la proposta è ferma.
Damiano, come mai questo stop?
«La situazione, mi lasci premettere, oggi è fuori controllo e va meglio regolata. Nessuno - assicura il deputato del Pd - vuole toccare il sacrosanto diritto allo sciopero. Ma qui parliamo di servizi pubblici essenziali».
Dove una regolamentazione c’è già.
«Esiste, ma è inefficace. Anche la Commissione di Garanzia ha messo in luce un punto debole».
Quale è il tallone di Achille?
«Soggetti sindacali - anche se non rappresentativi o non maggioritari - proclamano scioperi in modo “plurimo”, cioè più volte, e “continuativo”».
Ed è su questo punto della rappresentatività che lei voleva intervenire...
«Non volevo. Voglio intervenire e sono fiducioso che la proposta verrà approvata per tempo se la Legislatura arriverà alla sua fine naturale nel 2018».
Quali regole contiene?
«I tempi sono maturi per regolare la certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali del lavoro e dell’impresa. Oggi la situazione è sfibrata e atomizzata. Il Cnel ci dice che il 70% degli accordi depositati - territoriali, aziendali o anche settoriali – è stato stipulato da organizzazioni del lavoro o delle aziende non rappresentative o di comodo».
Spesso hanno difeso bene i lavoratori...
«No. Il loro obiettivo è la pratica del dumping sociale ai danni degli accordi di Cgil, Cisl e Uil, e Confindustria. Giocano al ribasso sui compensi e le tutele dei lavoratori».
E gli scioperi nei servizi pubblici essenziali? Come ci si arriva?
«Si può decidere che una soglia sindacale è titolata a proclamare uno sciopero, primo, se ha una soglia minima di rappresentatività; in alternativa se ottiene un certo tetto di voti in un referendum tra i lavoratori del settore».
Perché la Commissione Lavoro, che lei presiede, non ha approvato le norme?
«Non c’erano le condizioni. Qualsiasi proposta tocchi la rappresentanza, materia delicata, si ferma se le forze sociali sono ostili. Oggi questa ostilità sembra caduta».
Il senatore Sacconi dice che il Pd, già sotto pressione per i voucher, non ha voluto aprire anche questo altro fronte con i sindacati.
«Fantapolitica. Per il passato non abbiamo niente da rimproverarci. Nel presente abbiamo spinto per mettere in piedi un Comitato ristretto in Commissione, condizione perché il testo possa avanzare».
Forza Italia che cosa ne pensa?
«Noi del Pd siamo determinati e uniti. Il collega Zappulla, del Movimento Democratico e Progressista, relatore del provvedimento, lavora con impegno. In generale dico che ci sono le premesse per un consenso ampio, se non unanime, in Commissione».
Farete in tempo?
«Mi sono battuto per evitare la fine anticipata della Legislatura proprio perché ci sono cose come queste, davvero importanti, che vanno portate alla meta».

Il Fatto 18.7.16
Il non governo è il vero killer del delitto di sciopero
di Antonio Padellaro


Traffico nel caos dentro e fuori il Grande raccordo anulare. Code interminabili sulle consolari, dall’Aurelia alla Cassia. Pendolari inferociti per lo stop delle linee metro. Taxi introvabili e liti tra i passeggeri per salire sui pochi.
Corriere della Sera: cronaca dello sciopero nazionale dei trasporti di venerdì scorso.
L’altra sera, a “Otto e mezzo”, Susanna Camusso, dopo aver preso le distanze dall’agitazione proclamata dalla Confederazione unitaria di base (Cub) e da sigle minori che hanno provocato l’inferno nelle città, ha aggiunto che va respinto ogni tentativo di attaccare il diritto di sciopero. Peccato però, vorremmo dire al segretario della Cgil, che quel sacrosanto diritto garantito dalla Costituzione venga progressivamente ucciso. I primi responsabili del delitto di sciopero sono quella miriade di sigle che, pur non rappresentando la maggioranza dei lavoratori, riescono a mettere in ginocchio un’intera collettività (magari con un annuncio revocato all’ultimo momento quando il danno è bello che fatto). Venerdì scorso, a Roma, e in una qualunque altra metropoli precipitata nel caos, bastava sostare nell’attesa vana della metro, o di un bus, o di un taxi (per non parlare della massa di disgraziati intrappolati nelle auto sotto la canicola) per conoscere l’opinione prevalente (e irripetibile) del Paese sullo sciopero. Parole certo dettate dall’esasperazione, ma inascoltabili perfino nella più fascista repubblica delle banane. Lo sappiano le anime belle della politica che pensano di lavarsi la bocca (e la cattiva coscienza) tacciando di fascismo e razzismo tutto ciò che nella loro comoda vita reale neppure li sfiora. Lo sappiano che fascismo e razzismo sono il prodotto di problemi lasciati a marcire da sempre: come i profughi che ciondolano nelle strade abbandonati a se stessi, come i pendolari costretti a perdere una giornata di lavoro da un conducente assai più garantito di loro.
Poi ci sono i veri killer del delitto di sciopero. I responsabili del non governo che da almeno un ventennio hanno costruito, anno dopo anno, le più catastrofiche politiche del non lavoro. L’autoproclamata classe dirigente a cui si deve la duplice strategia della disperazione. Da una parte la giovane Italia che ormai anela il precariato come un miraggio e i voucher come una manna: sempre meglio che raccattare gli scontrini dei bar per farsi pagare la miseria di un rimborso, come accaduto ai ragazzi della Biblioteca nazionale. Poi ci sono le vittime dei grandi fallimenti nazionali, dall’Ilva all’Alitalia. Certo, può sembrare assurdo tenere gli aerei a terra mentre l’ex compagnia di bandiera è sull’orlo del baratro, come osserva la leader della Cisl Annamaria Furlan. A cui però chiediamo: chi ha costretto, disastro dopo disastro, piloti e personale di volo a tutto ciò? A una protesta che suona come un grido nella notte. Dov’era il sindacato mentre i “capitani coraggiosi” e i loro degni emuli spolpavano i resti di quello che era stato l’emblema del paese? Infine, a Matteo Renzi che tuona su Facebook: “L’ennesimo sciopero dei trasporti è uno scandalo”, chiediamo: giusto, ma lui che ha fatto in mille giorni di governo per evitare, tra le tante. questa vergogna?


Il Fatto 18.6.17
“Basta col teatrino di Renzi, dobbiamo ripartire dai diritti”
di Luca De Carolis


“Pier Luigi, vieni qui che ci facciamo una foto”. Alle ore 11 e qualcosa, nei pressi di piazza San Giovanni, Pier Luigi Bersani viene assaltato dai manifestanti della Cgil. In giacca e camicia a maniche lunghe nonostante il clima tropicale, sorride, dà e riceve baci, e si concede a una pioggia di selfie. Per le foto si mette anche il cappellino rosso. Una donna scandisce: “Ecco la vera sinistra del Pd”. Lui sorride, ma forse nella calca non l’ha neppure sentita. Un paio di signori gli lanciano la battuta: “Il bosco è qui”. Ed è un chiaro riferimento a una recente frase bersaniana (“Se l’elettore, cioè mio fratello, va nel bosco io non sto a casa, ma esco e lo vado a cercare”). Però tra un abbraccio e l’altro gli si avvicina anche una donna sui quarant’anni, irritata: “Me lo spieghi perché voi di Mdp vi siete astenuti sui voucher?”. E l’ex segretario del Pd allarga le braccia: “Ma non dovete credere a queste storie che raccontano, sono cavolate”.
Bersani, la signora ha ragione. In Senato siete usciti dall’aula.
Lo ripeto, queste sono sciocchezze. Noi abbiamo fatto la battaglia contro i voucher, dall’inizio. Avevamo detto chiaramente che su questo, per la prima volta, non avremmo votato la fiducia al governo. E così abbiamo fatto.
Potevate votare contro, non crede?
Uscire o votare contro, qual è il gesto più forte? Il risultato resta lo stesso. Sono le solite discussioni metafisiche di una sinistra che cerca il pelo nell’uovo.
Qui in piazza che atmosfera c’è? Per lei è un ritorno a casa?
Non diciamo che questa qui è una roba per nostalgici, sennò mi girano subito le scatole. Se si parla di nuova umiliazione del lavoro si parla dell’oggi e si costruisce il domani per la nostra gente e i nostri giovani.
E come?
Ripristinando i diritti del lavoro, riducendo al margine i voucher e non solo. Non si può andare avanti con il lavoro frantumato, ricattato e sottopagato. Poi bisogna puntare sugli investimenti, per tornare a far girare l’economia. E si deve smetterla di dire “meno tasse per tutti” come slogan. Piuttosto, bisogna tornare a una seria progressività fiscale. Servono politiche diverse rispetto a quanto fatto in questi anni.
Intanto però c’è da ricostruire la sinistra. Come si fa? A guardare da fuori la situazione sembra parecchio confusa.
Il punto di caduta è ripartire da qui, da questi temi. Dobbiamo riunirci con le forze, le associazioni e le persone che sono in questa piazza e anche con tante che non sono qui.
Non pare semplice.
Bisogna uscire da un eccesso di politicismo che c’è in questa fase, e da tutta una serie di strani discorsi.
Nelle ultime ore si parla di listone di centrosinistra, ha visto?
(Sorride, ndr) Ho letto sui giornali. Ma queste sono strategie oniriche. Me lo faccia dire: una strategia al giorno toglie il leader di torno. Sarebbe meglio tornare a un Paese e a un’informazione normali.
Sono indiscrezioni che circolano. Piuttosto, ha visto che baraonda attorno a Romano Prodi? Giuliano Pisapia lo invoca come candidato premier, mentre Matteo Renzi lo incontra perché vuole capire le sue mosse. Lei che ne pensa?
(Risata aperta, ndr). Io voglio bene a tutti, per carità, però… È bene che usciamo tutti da questo teatrino, e da queste cose che vengono insufflate sui giornali. Parliamo di cose serie, parliamo di temi.
Chi è che insuffla?
Lo stesso che lo fa da tre anni. Mi dica lei chi è…
Nel frattempo il M5S ha annunciato l’astensione sullo ius soli: è la conferma che ormai si è posizionato a destra?
I Cinque Stelle stanno radicalmente a destra su alcuni temi e radicalmente a sinistra su altri. È il nuovo partito radicale di centro, che non ci porta da nessuna parte. Spero che non si rassegnino a essere il partito della radicale impotenza.
Bersani saluta, e si rinfila nel gorgo. A diverse persone e a un gruppo di cronisti ripete: “Noi non andiamo con la destra”. Poi riappare dietro il palco: senza giacca.

Il Fatto 18.6.17
Perseguire d’ufficio chi abusa minori? “È meglio evitare…”
La legge col buco - Così hanno risposto i senatori, da Nitto Palma a Mineo, all’appello dell’Unicef: norma ferma in Senato
Perseguire d’ufficio chi abusa minori? “È meglio evitare…”
di Giampiero Calapà


C’è un senatore di Forza Italia, Nitto Palma, che in commissione Giustizia il 22 febbraio 2017 si è opposto all’estensione della perseguibilità d’ufficio dei “mostri” che abusano di bambini tra i 10 e 14 anni (attualmente il magistrato può procedere solo dopo querela di parte) con queste parole: “Chiedo di riflettere sull’impatto che questo avrebbe nei confronti dei minori specie in piccoli Comuni, data l’ampia diffusione che la notizia potrebbe avere in quelle realtà territoriali”. Meglio nascondere tutto sotto un tappetto, qualora capitasse, e farla fare franca all’orco di turno, che dire sì a una proposta di legge, quella firmata dalla deputata Donatella Ferranti (Pd), già approvata all’unanimità dalla commissione Giustizia della Camera il 12 ottobre 2016 e bloccata tredici giorni dopo nelle secche del Senato.
Oggi, infatti, “l’atto sessuale con un minorenne tra i 10 e i 14 anni – spiega Ferranti – non è punibile come prostituzione minorile, nemmeno quando è effettuato in cambio di denaro o altra utilità, ma non rientra nemmeno tra gli atti sessuali per cui si procede d’ufficio. Se non c’è la querela da parte di chi esercita la responsabilità genitoriale, e spesso il minore è senza genitori (o sono difficilmente reperibili) o addirittura, in alcune situazioni di particolare disagio, ha genitori che sono i primi ad acconsentire a quelle prestazioni sessuali, non si può procedere”. In questi casi il giudice, su richiesta del pm, può nominare un curatore speciale, ma è una procedura che richiede tempo e in ogni caso non consente quella tempestività di intervento necessaria per procedere nei confronti di chi compie abusi sui minori. Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia, combatte per l’approvazione della legge: “È una carenza normativa che regala impunità, specie in quei casi in cui l’atto sessuale avviene a danno di un minore straniero non accompagnato”.
Come nel caso – documentato dall’Espresso nel febbraio 2016 con l’inchiesta “Noi, i ragazzi dello zoo di Roma” – dell’ingegnere americano della Boeing in pensione arrestato perché colto in flagranza durante un atto sessuale con un tredicenne straniero adescato alla stazione Termini. “Dopo tre giorni – racconta Rozera – quel mostro fu rilasciato ed è ritornato in America. I genitori del ragazzino vivono fuori Roma ai margini della legalità e quando hanno sentito parlare di tribunali, giudici e forze dell’ordine non hanno voluto procedere con la querela”.
Il 22 febbraio 2017 nella commissione Giustizia di Palazzo Madama il tema è stato affrontato, l’intervento di Nitto Palma ha riscosso successo. Giacomo Caliendo (Forza Italia) si è accodato: “Concordo con le considerazioni del senatore Palma che ammonisce sul pericolo di introdurre normative eccessivamente punitive che non tengano conto di tutelare l’incolumità, anche psicologica, del minore”. Ecumenico Giuseppe Lumia (Pd): “Anche chi non sostiene la procedibilità d’ufficio adduce argomentazioni non prive di pregio”. Addirittura Corradino Mineo (Sinistra italiana) ha evidenziato “la serietà dei punti problematici affrontati dai senatori Palma e Caliendo”. Il seguito dell’esame della legge è stato rinviato, poi è rimasto in un cassetto, “mentre altri mostri possono fare ‘spesa’ senza colpo ferire”, si sfoga Rozera di Unicef. I minori non accompagnati sono circa 26 mila e 500 in un anno e una parte di loro utilizza l’Italia solo come Paese di transito.
Dagli abusi sessuali ad altri tipi di violenza, da situazioni di disagio alla famiglia tradizionale, il quadro dell’infanzia in Italia non è felice. Si stimano in 100 mila i bambini che subiscono maltrattamenti. Un fenomeno particolarmente odioso e difficile da contrastare è quello della cosiddetta “violenza assistita”, ovvero situazioni in cui, nell’ambito familiare, i bambini sono “spettatori” di violenze subìte dalla madre per mano del padre. Un bambino su cinque, tra quelli maltrattati, è testimone di violenza domestica.
Secondo l’Istat (dati 2015) tra le donne che hanno denunciato violenze ripetute subìte dal partner il 65,2 per cento hanno dichiarato che i figli hanno assistito a questi maltrattamenti. Non ci sono leggi al riguardo, ma il Cismai (servizi contro maltrattamenti e abusi dell’infanzia) presenterà venerdì 23 giugno a Roma – Sala del Parlamentino in via Villa di Ruffo 6 alle 14.30 – uno studio sui “requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamenti alle madri”. Per capire la gravità della materia è sufficiente ascoltare alcune testimonianze di minori raccolte dal Cismai. “Quando vedevo la mamma per terra e il papà che la prendeva a calci volevo fare qualcosa… provavo a difenderla… ma ero piccolo, avevo paura… Lo odiavo”, racconta un bimbo di 9 anni.


il manifesto 18.6.17
Seneca, una strategia stilistica per qualificare l’esistenza
Classici commentati. Siamo tutti «occupati» e vittime del tempo: il «De brevitate vitae», «dialogo» del filosofo stoico, nella fortunata interpretazione di Alfonso Traina, senecano
di Maria Jennifer Falcone


«Seneca è un moralista doppiato da uno psicologo. Le morali passano, ma l’uomo resta». Non è raro trovare tra le pagine dei saggi di Alfonso Traina sentenze ‘senecane’ come questa, che illuminano il discorso e si incidono nella memoria. La citazione è tratta dal suo fortunato commento al De brevitate vitae di Seneca, uscito originariamente nel 1970, edito più volte dalla Bur (l’ultima nel 2015) e ora pubblicato dalla Bononia University Press in una nuova edizione aggiornata da Daniele Pellacani (Seneca, La brevità della vita, pp. 126, € 12,00). Se il trattato – una serrata e vivace disquisizione sul tempo e sulla saggezza umana – non può mancare «in un’ideale biblioteca di ‘classici per il terzo millennio’» (così nella quarta di copertina), leggerlo con gli occhi di Traina è un privilegio soprattutto per chi conosce il latino.
Della lingua e dello stile, infatti, egli è stato ed è finissimo studioso, capace di mettere in luce il senso profondo del messaggio filosofico attraverso un’attenta analisi delle scelte lessicali e delle caratteristiche formali del testo: il suo fortunato saggio Lo stile ‘drammatico’ del filosofo Seneca (Pàtron 1984), a cui spesso il commento rinvia, ne è un esempio magistrale. Traina individua nella sententia la «cellula stilistica» del suo linguaggio filosofico, la strategia retorica «con cui Seneca combatte la sua battaglia per la salvezza laica dell’uomo» (p. 21). Nulla lascia al caso questo «scrittore di razza»: anafore, antitesi, figure etimologiche, sintassi e lessico, sistemi metaforici danno efficacia nuova ai contenuti di un’antica saggezza stoica.
Come un sommozzatore esperto, Traina accompagna il lettore nell’esplorazione dei fondali linguistici del trattato. Quando Seneca dice che è davvero poco il tempo in cui viviamo veramente, e che «tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo» (ceterum quidem omne spatium non vita sed tempus est), non gli sfugge il dettaglio, pregnante, della scelta semantica di ceterum, ‘rimanente’, che sottolinea la «forte opposizione qualitativa (reliquum sarebbe stato solo quantitativo)» (pp. 43 s.). Che la qualità della vita non sia in alcun modo legata alla sua durata è tema ricorrente, rappresentato ad esempio dall’immagine di un vecchio canuto e rugoso, di cui si potrebbe pensare che abbia vissuto a lungo, ma – così Seneca in una delle sue folgoranti chiuse sentenziose – non ille diu vixit, sed diu fuit («non è vissuto a lungo, ma è stato al mondo a lungo»). Se questa frase si imprime nella memoria, ciò è dovuto alla sapiente strategia stilistica evidenziata nel commento: lo schema avversativo è sottolineato dalla ripresa di diu (‘a lungo’) e dalla struttura a membri decrescenti (la seconda proposizione è più breve della prima).
L’attenzione scrupolosa verso il lessico permette a Traina di scandagliare a fondo anche il tessuto metaforico con cui Seneca rappresenta i concetti del tempo fugace e della precarietà delle cose terrene (pp. 11-14). E così nel De brevitate, come anche nell’antologia di passi tratti da diverse opere, in fondo al volume, il tempo è descritto come un fiume, un’immagine che Seneca libera dalla polvere della tradizione isolandone gli effetti devastanti sull’uomo e la natura: un fiume, sì, e dunque un corso inarrestabile, ma di questo fiume la piena, la corrosione, la violenza travolgente. C’è, poi, la metafora del punto, quella contrazione totale di spazio e tempo che è il presente, e, conseguente a essa, l’immagine degli abissi del passato e del futuro che insidiano il saggio mentre cerca di tenersi in equilibrio su quel punto.
Tutti siamo vittime del tempo, tutti siamo occupati (parola chiave del trattato): la carrellata di figure umane (palestrati, gente distesa al sole ad abbronzarsi, effeminati che passano le ore dal barbiere, ma anche politici, uomini importanti, filologi puntigliosi) ha, come il mimo, «il sapore della vita». Seneca, che da ‘psicologo’ conosce l’animo umano e da artista lo descrive, da stoico lo spinge verso la saggezza, che Traina definisce come il polo dialettico positivo rispetto al tempo che scorre. Non avendo alcun controllo sulla durata della vita, l’uomo saggio presta attenzione all’uso che ne fa. L’opposizione tra qualità e quantità è vista così da un’angolatura propositiva: cogita semper qualis vita, non quanta sit («pensa sempre alla qualità della vita, non alla sua quantità»), scrive Seneca in un’epistola (70, 5). Chi si concentra sul presente, libero dall’angoscia degli abissi del tempo, può recuperare il passato e il futuro «come dimensioni psichiche» per mezzo del ricordo e della previsione. Fuori dal tempo, il saggio abbraccia ogni tempo, e così, come Dio, trionfa su ogni cosa.
Liberarsi delle occupazioni e iniziare a vivere. È il privilegio o, meglio, la conquista del saggio, che può annettere alla sua l’esperienza dei grandi del passato, quindi «disputare con Socrate, dubitare con Carneade, con Epicuro starsene in pace, vincere con gli Stoici la natura umana, con i Cinici oltrepassarla» (De brev. 14, 2). E, magari, con Seneca imparare a riempire di qualità il proprio tempo, lasciandosi accompagnare dalla sapiente guida di Traina.

il manifesto 18.6.7
La natura umana ribelle alla coercizione politica
Grandi filosofi. Poiché creatività e libertà rappresentano il tratto caratteristico della nostra specie, il discorso di Chomsky sull’educazione ha profonde ricadute su un piano teorico più generale: «Capire il potere», dal Saggiatore
di Francesco Ferretti


All’occorrenza, noi possiamo girare la testa o chiudere gli occhi, lui no: Alex DeLarge – il protagonista di Arancia meccanica, il romanzo di Anthony Burgess tradotto nell’omonimo film diretto da Stanley Kubrick – dedito allo stupro e all’ultraviolenza, oltre che alla passione per Beethoven, non può distogliere lo sguardo neppure per il tempo infinitesimale di un battito di ciglia. Il divaricatore oculare e la somministrazione di un farmaco che induce nausea, rispondono alla perfezione al protocollo della cura Lodovico: imporre che ogni dettaglio della scena osservata (stupri e violenze di ogni tipo) pervada, attraverso gli occhi, la mente di Alex. È il recupero che spetta a chi non è stato educato in modo appropriato e merita una giusta (per quanto tardiva) rieducazione.
Che relazione c’è tra educazione e rieducazione? La risposta a questa domanda rappresenta uno degli assi portanti dell’ultima raccolta di saggi di Noam Chomsky dal titolo Capire il potere (Il Saggiatore, pp. 601, euro 25,00). Descrivendo la situazione della scuola negli Stati Uniti (ma il discorso, a parere di Chomsky, è applicabile in molti altri casi), emerge in tutta chiarezza che il carattere coercitivo dell’educazione imposta ai ragazzi non è molto diverso da quello somministrato ad Alex con la cura Ludovico.
Il caso della scuola, infatti, coincide in larga parte con la questione delle forme di indottrinamento promosse dagli organi di informazione – uno degli altri temi portanti di Capire il potere. Emblematico a questo riguardo è il caso delle università: poiché non ce la fanno ad autofinanziarsi, il livello più elevato dell’istruzione è affidato a istituzioni «parassitarie» che dipendono dagli studenti più agiati e dalle aziende che promuovono ricerche indirizzate esclusivamente ai propri interessi. Secondo Chomsky non solo le università, ma più in generale ogni forma di istituzione scolastica è finalizzata a «fornire un servizio ideologico, promuovendo l’obbedienza e il conformismo», un processo che, secondo lui, comincia dall’asilo. A suo avviso, infatti, la scuola non è altro che questo: «premiare la disciplina e l’obbedienza e punire il pensiero indipendente». Un quadro scoraggiante, non c’è che dire. Che fare?
Chomsky attacca senza mezze misure il libro, che ha avuto una fortuna enorme negli Stati Uniti, di Allan Bloom La chiusura della mente americana (Lindau, 2009) in cui il rimedio al collasso del sistema educativo americano è il ritorno alla lettura dei classici. Il metodo Bloom sarebbe, secondo Chomsky, votato al fallimento perché fondato sull’«assurda pretesa che esista un insieme di “grandi pensieri” che la gente colta seleziona affinché gli stupidi li imparino». Ma il fatto è che non basta individuare cosa leggere, bisogna insegnare come leggere, visto che «il semplice fatto di leggere non significa molto, se le nozioni acquisite non vengono integrate in un processo creativo». Queste considerazioni, che possono apparire di semplice buon senso, hanno per Chomsky una forte valore concettuale: rappresentano il grimaldello teorico con cui aprire un varco nei principi alla base del sistema educativo perché toccano da vicino la questione della natura umana.
Poiché creatività e libertà rappresentano il tratto caratteristico della nostra specie, il discorso di Chomsky sull’educazione ha profonde ricadute su un piano teorico più generale. Distinguendo tra sistemi educativi che mortificano la natura umana e metodi che la esaltano rispettandone le caratteristiche peculiari, il riferimento alla creatività è molto di più di una semplice dichiarazione di principio. È un punto importante per discutere una delle questioni teoriche che da sempre animano il dibattito sul pensiero di Chomsky: il legame tra le sue analisi politiche e le sue riflessioni sul linguaggio.
Rispetto alla questione delle «due anime» del suo pensiero, lo stesso Chomsky ha un atteggiamento ondivago. Il suo parere in Capire il potere è che tra linguaggio e politica esistano soltanto «sottili legami». Per un motivo semplice da esplicitare: se la questione dei rapporti tra linguaggio e politica è strettamente connessa al tema della natura umana, allora non è possibile dire molto circa questi rapporti, visto che quando «ci si addentra nel campo della natura umana, gli scienziati non hanno risposte da dare».
Sostenendo l’idea dei «sottili legami», tuttavia, Chomsky fa torto a se stesso: la scienza ha un accesso privilegiato alla natura umana perché è possibile una scienza del linguaggio e il linguaggio è per Chomsky, da sempre, il tratto distintivo degli individui della nostra specie – è ciò su cui si fonda la «differenza qualitativa» tra noi e gli altri animali.
La tesi di Chomsky, come è noto, è largamente ispirata al programma cartesiano: all’idea che, diversamente dalle macchine e dagli altri animali, gli esseri umani non sono determinati ad agire nel modo in cui agiscono – essi possono essere soltanto incitati o incoraggiati, mai costretti, a fare ciò che fanno. In Conoscenza e libertà. Linguaggio e politica (Einaudi, 1973), un vecchio libro utile a comprendere lo sfondo concettuale alla base di Capire il potere, la chiave della relazione tra linguaggio e politica è affidata all’umanesimo della natura umana professato da Bertrand Russell. Questa forma di umanesimo ha forti assonanze con uno dei principi cardine su cui, seguendo Wilhelm von Humboldt, deve poggiare ogni forma di insegnamento: l’idea che «ogni cosa che non sgorghi da una libera scelta dell’uomo e che sia solo il risultato di istruzione e direzione dall’esterno, non penetra nel profondo della sua autentica natura». È in riferimento a una concezione della natura umana di questo tipo che Chomsky guarda positivamente all’idea di costruire un sistema educativo «che incoraggi l’azione autenticamente umana, cioè quella che sgorga da impulsi interni».
Aderire all’umanesimo della natura umana è per Chomsky un modo per contrastare la visione comportamentista fondata sulla tesi della plasticità dell’individuo e la sua plasmabilità attraverso l’apprendimento e l’educazione. La battaglia contro la concezione comportamentista del linguaggio – che ha caratterizzato la prospettiva chomskiana sin dagli esordi – diviene in questo modo la battaglia politica e sociale contro una visione degli umani come organismi che, seguendo i precetti forniti da John Watson nel suo celebre libro del 1930, ogni educatore può plasmare a proprio piacimento. Appartenendo alla biologia della specie, i tratti specifici della natura umana non sono caratteristiche modellabili dall’esterno in maniera indefinita. La natura biologica degli umani è al tempo stesso la condizione che garantisce loro di fare ciò che fanno e il limite che impedisce di obbligarli a fare ciò si vuole che facciano.
Un antidoto formidabile all’idea che i programmi educativi possano essere interpretati nei termini della cura Ludovico.