Corriere 15.6.17
Speer, la falsificazione della storia
Negò ogni sua responsabilità nei crimini nazisti. Una mostra lo smaschera definitivamente
di Paolo Valentino
Il
1° ottobre 1966, dopo venti anni di prigionia, le porte del carcere di
Spandau, nella sezione occidentale di Berlino, si aprirono per Albert
Speer. Architetto del regime nazista, amico intimo di Hitler, ministro
degli Armamenti e della Produzione bellica del Terzo Reich durante la
Seconda guerra mondiale, Speer aveva abilmente evitato la condanna a
morte al Processo di Norimberga, assumendosi una generica responsabilità
storica e ammettendo di aver subito il fascino del Führer, ma negando
di esser mai stato a conoscenza dei crimini di guerra
nazional-socialisti, tantomeno dello sterminio degli ebrei.
Accolto
come una rockstar da una folla di fotografi e inviati dei media di
tutto il mondo, in quell’autunno di mezzo secolo fa Speer iniziò una
seconda carriera di testimone oculare del suo tempo, autore di
bestseller mondiali, ospite di convegni e trasmissioni televisive,
corteggiato dai circoli intellettuali. Nella Germania del Dopoguerra che
faceva ancora conti sommari con il passato nazista, preferendo
rimuoverlo, si credeva volentieri a quel signore alto, elegante e colto,
la cui narrazione in apparenza sincera sembrava aiutare
l’auto-assoluzione di un’intera generazione. «Ha mai sentito il nome
Auschwitz?», gli chiese in una celebre intervista Joachim Fest, lo
storico che ne raccolse le memorie e uno dei tanti che accettarono per
buona la «verità» di Speer. «Non l’ho mai sentito direttamente», fu la
risposta.
Speer morì nel suo letto, ormai celebrità
internazionale, nel 1981. Ma ci volle più di un decennio perché la sua
leggenda fosse completamente smascherata e venissero alla luce le sue
enormi responsabilità nei crimini del nazismo, incluso il pieno
coinvolgimento personale nell’organizzazione dell’Olocausto. Una prova
per tutte, oggi ampiamente documentata, la riunione del 15 settembre
1942, nella quale il ministro per gli Armamenti e la Produzione bellica
autorizzò personalmente il progetto del lager di Auschwitz-Birkenau, al
costo di 13,7 milioni di Reichsmark, compresa la costruzione dei luoghi
per i «trattamenti particolari», parole in codice per camere a gas e
forni crematori. Di più, altri documenti venuti alla luce negli anni
Novanta comprovano che due assistenti di Speer lo tennero costantemente
informato dell’avanzamento dei lavori nel più conosciuto lager nazista;
che egli visitò personalmente il campo di Mauthausen e infine che, a
differenza di quanto sostenne a Norimberga dove rovesciò la colpa su
Fritz Sauckel, fu proprio sua l’idea di usare il lavoro degli
schiavi-ebrei nelle fabbriche sotterranee di Mittelbau-Dora, dove si
costruivano le V-2.
Ma come fu possibile che il «racconto»
autoassolutorio di Albert Speer rimanesse non controverso per così tanto
tempo? Come si spiega che così tanti tedeschi abbiano accettato così a
lungo la sua verità, anche dopo che una rigorosa ricerca storica l’aveva
confutata?
È intorno a queste domande che ruota la mostra aperta
fino alla fine di novembre al Doku-Zentrum di Norimberga. Il luogo
dell’allestimento non poteva essere più adatto: il Centro di
documentazione bavarese è infatti ospitato nel monumentale complesso che
proprio Speer progettò per i congressi del partito nazional-socialista e
dove il Reich millenario inscenava la propria megalomania.
Curata
da Martina Christmeier e Alexander Schmidt, la mostra di Norimberga
percorre con filmati, fotografie, documenti e installazioni tutta
l’autorappresentazione «speeriana» dopo il 1945. C’è il suo show da
tecnocrate impolitico a Norimberga, il cinismo con cui rovescia su altri
la responsabilità di decisioni sue. Viene alla luce la rete informale
di amici e familiari sulla quale poté contare in Germania durante e dopo
i vent’anni di prigionia e che fu determinante per ripulire le tracce
del suo coinvolgimento: fra gli altri, i documenti che dimostrano come
Rudolf Wolters, un suo ex assistente, eliminò dai diari del maestro ogni
passaggio compromettente, prima di consegnarne degli «originali»
rifatti agli archivi federali. «Quella di Speer — spiega Alexander
Schmidt — fu una sistematica operazione di falsificazione della storia.
Perfino nelle Memorie , che lui non scrive ma detta a Joachim Fest e
all’editore Wolf Jobst Siedler, i quali probabilmente lo “aiutano” a
ricordare, nulla è autentico, tutto è ricostruito in modo a lui
favorevole».
Un lavoro molto accurato venne fatto, per esempio,
per nascondere la partecipazione di Speer alla famosa riunione di
Himmler con i Gauleiter dell’ottobre 1943 a Poznan, in Polonia, quella
in cui il capo delle SS disse chiaramente e senza eufemismi che tutti
gli ebrei dovevano essere uccisi. In realtà il ministro per gli
Armamenti e la Produzione bellica non solo vi prese parte, ma ebbe anche
una lunga conversazione con Himmler.
Eppure, le giustificazioni
di Speer vennero pienamente accettate in Germania, mentre era ancora in
vita. Perché? «Perché era quello che i tedeschi volevano sentire —
spiega Schmidt —, se perfino lui, che era nel cerchio magico di Hitler e
una delle figure di punta del Reich, non sapeva cosa stesse succedendo,
allora chiunque altro poteva dire in coscienza “anch’io non ne sapevo
nulla”. Il suo racconto assolveva l’intera società tedesca, dopo il 1966
il ruolo di Speer è stato nefasto nel confronto della Germania con il
passato nazional-socialista». Non poco contribuirono il suo carisma, la
sua cultura, la bella presenza, la rassicurante immagine borghese che
faceva a pugni con l’iconografia bovina e criminale dei nazisti.
Con
la mostra di Norimberga cala probabilmente in modo definitivo il
sipario su una delle personalità più significative e controverse del
regime hitleriano. Sfatate le troppe menzogne, l’architetto Albert Speer
emerge come uno dei principali colpevoli dell’universo criminale
nazista. Ma è troppo tardi.
Se i giudici di Norimberga avessero saputo allora ciò che sappiamo oggi, sicuramente lo avrebbero mandato a morte.