Corriere 15.6.17
Speer, la falsificazione della storia
Negò ogni sua responsabilità nei crimini nazisti. Una mostra lo smaschera definitivamente
di Paolo Valentino
Il 1° ottobre 1966, dopo venti anni di prigionia, le porte del carcere di Spandau, nella sezione occidentale di Berlino, si aprirono per Albert Speer. Architetto del regime nazista, amico intimo di Hitler, ministro degli Armamenti e della Produzione bellica del Terzo Reich durante la Seconda guerra mondiale, Speer aveva abilmente evitato la condanna a morte al Processo di Norimberga, assumendosi una generica responsabilità storica e ammettendo di aver subito il fascino del Führer, ma negando di esser mai stato a conoscenza dei crimini di guerra nazional-socialisti, tantomeno dello sterminio degli ebrei.
Accolto come una rockstar da una folla di fotografi e inviati dei media di tutto il mondo, in quell’autunno di mezzo secolo fa Speer iniziò una seconda carriera di testimone oculare del suo tempo, autore di bestseller mondiali, ospite di convegni e trasmissioni televisive, corteggiato dai circoli intellettuali. Nella Germania del Dopoguerra che faceva ancora conti sommari con il passato nazista, preferendo rimuoverlo, si credeva volentieri a quel signore alto, elegante e colto, la cui narrazione in apparenza sincera sembrava aiutare l’auto-assoluzione di un’intera generazione. «Ha mai sentito il nome Auschwitz?», gli chiese in una celebre intervista Joachim Fest, lo storico che ne raccolse le memorie e uno dei tanti che accettarono per buona la «verità» di Speer. «Non l’ho mai sentito direttamente», fu la risposta.
Speer morì nel suo letto, ormai celebrità internazionale, nel 1981. Ma ci volle più di un decennio perché la sua leggenda fosse completamente smascherata e venissero alla luce le sue enormi responsabilità nei crimini del nazismo, incluso il pieno coinvolgimento personale nell’organizzazione dell’Olocausto. Una prova per tutte, oggi ampiamente documentata, la riunione del 15 settembre 1942, nella quale il ministro per gli Armamenti e la Produzione bellica autorizzò personalmente il progetto del lager di Auschwitz-Birkenau, al costo di 13,7 milioni di Reichsmark, compresa la costruzione dei luoghi per i «trattamenti particolari», parole in codice per camere a gas e forni crematori. Di più, altri documenti venuti alla luce negli anni Novanta comprovano che due assistenti di Speer lo tennero costantemente informato dell’avanzamento dei lavori nel più conosciuto lager nazista; che egli visitò personalmente il campo di Mauthausen e infine che, a differenza di quanto sostenne a Norimberga dove rovesciò la colpa su Fritz Sauckel, fu proprio sua l’idea di usare il lavoro degli schiavi-ebrei nelle fabbriche sotterranee di Mittelbau-Dora, dove si costruivano le V-2.
Ma come fu possibile che il «racconto» autoassolutorio di Albert Speer rimanesse non controverso per così tanto tempo? Come si spiega che così tanti tedeschi abbiano accettato così a lungo la sua verità, anche dopo che una rigorosa ricerca storica l’aveva confutata?
È intorno a queste domande che ruota la mostra aperta fino alla fine di novembre al Doku-Zentrum di Norimberga. Il luogo dell’allestimento non poteva essere più adatto: il Centro di documentazione bavarese è infatti ospitato nel monumentale complesso che proprio Speer progettò per i congressi del partito nazional-socialista e dove il Reich millenario inscenava la propria megalomania.
Curata da Martina Christmeier e Alexander Schmidt, la mostra di Norimberga percorre con filmati, fotografie, documenti e installazioni tutta l’autorappresentazione «speeriana» dopo il 1945. C’è il suo show da tecnocrate impolitico a Norimberga, il cinismo con cui rovescia su altri la responsabilità di decisioni sue. Viene alla luce la rete informale di amici e familiari sulla quale poté contare in Germania durante e dopo i vent’anni di prigionia e che fu determinante per ripulire le tracce del suo coinvolgimento: fra gli altri, i documenti che dimostrano come Rudolf Wolters, un suo ex assistente, eliminò dai diari del maestro ogni passaggio compromettente, prima di consegnarne degli «originali» rifatti agli archivi federali. «Quella di Speer — spiega Alexander Schmidt — fu una sistematica operazione di falsificazione della storia. Perfino nelle Memorie , che lui non scrive ma detta a Joachim Fest e all’editore Wolf Jobst Siedler, i quali probabilmente lo “aiutano” a ricordare, nulla è autentico, tutto è ricostruito in modo a lui favorevole».
Un lavoro molto accurato venne fatto, per esempio, per nascondere la partecipazione di Speer alla famosa riunione di Himmler con i Gauleiter dell’ottobre 1943 a Poznan, in Polonia, quella in cui il capo delle SS disse chiaramente e senza eufemismi che tutti gli ebrei dovevano essere uccisi. In realtà il ministro per gli Armamenti e la Produzione bellica non solo vi prese parte, ma ebbe anche una lunga conversazione con Himmler.
Eppure, le giustificazioni di Speer vennero pienamente accettate in Germania, mentre era ancora in vita. Perché? «Perché era quello che i tedeschi volevano sentire — spiega Schmidt —, se perfino lui, che era nel cerchio magico di Hitler e una delle figure di punta del Reich, non sapeva cosa stesse succedendo, allora chiunque altro poteva dire in coscienza “anch’io non ne sapevo nulla”. Il suo racconto assolveva l’intera società tedesca, dopo il 1966 il ruolo di Speer è stato nefasto nel confronto della Germania con il passato nazional-socialista». Non poco contribuirono il suo carisma, la sua cultura, la bella presenza, la rassicurante immagine borghese che faceva a pugni con l’iconografia bovina e criminale dei nazisti.
Con la mostra di Norimberga cala probabilmente in modo definitivo il sipario su una delle personalità più significative e controverse del regime hitleriano. Sfatate le troppe menzogne, l’architetto Albert Speer emerge come uno dei principali colpevoli dell’universo criminale nazista. Ma è troppo tardi.
Se i giudici di Norimberga avessero saputo allora ciò che sappiamo oggi, sicuramente lo avrebbero mandato a morte.
Repubblica 15.6.17
Enigmi, desideri e segreti il figlio secondo Recalcati
Massimo Recalcati
Due differenti paradigmi si impongono per interpretare il rapporto tra padri e figli. Il primo è quello che si incarna nelle tragiche vicende dell’Edipo di Sofocle: la vita del figlio porta con sé, secondo la profezia dell’oracolo, un destino di morte. Edipo, il figlio maledetto, è destinato a divenire il figlio parricida. Di fronte a questa verità Laio – il padre – decide di dare la morte al figlio: la morte contro il pericolo della morte. Ma nella profezia del Dio Apollo non si svela forse una verità che riguarda il processo della filiazione in quanto tale? Non accade sempre che un figlio uccida, almeno simbolicamente, il proprio genitore? La bellezza, la forza, lo splendore, l’indolenza atroce e la bizzarria dei nostri figli non rivela sempre il nostro stesso destino mortale? Edipo è la verità di Laio, ma è una verità che Laio non sa accettare. I vecchi padri non vogliono tramontare, hanno paura dei loro figli, non si lasciano superare. Dunque rispondono alla giusta esigenza di conflitto dei propri figli entrando a loro volta in conflitto con loro. Questo è un passo falso per ogni genitore ed è il passo falso di Laio, il padre orco, il padre tiranno, quello che teme e odia la giovinezza dei figli. Diversa è la posizione che assume – ecco il secondo paradigma – il padre della parabola evangelica di Luca del figliol prodigo. Questo padre sa lasciare al figlio la propria libertà, sa rinunciare alla proprietà esclusiva di suo figlio. Sa, cioè, non rispondere alla necessità del conflitto del figlio con la stessa moneta, sa assumere una posizione non-simmetrica: lasciare andare il figlio e, al tempo stesso, saperlo attendere. Rispettare il segreto del figlio nella sua assoluta differenza dalle attese dei suoi genitori. È quello che le retoriche pedagogiche oggi dominanti delle regole, del dialogo, dell’empatia e della comprensione occultano. Ogni figlio porta con sé un segreto – un desiderio – che è giusto resti illeggibile agli occhi dei propri genitori che non devono essere occhi che sanno leggere tutto. Ogni figlio eccede il piano universale delle regole perché ogni figlio è storto a suo modo. La retorica del dialogo, dell’empatia e della comprensione – alla quale oggi nessuno può sfuggire se vuole essere politicamente corretto - rispetta davvero il segreto del figlio, la sua libertà, la deviazione sempre irregolare del proprio desiderio, che, molto spesso non coincide con i programmi di famiglia, oppure è un modo per assimilare al figlio a quello che i loro genitori si attendono che lui diventi?
il manifesto 15.6.17
La Torre di Babele che dà i nomi alle cose
«Filosofie del linguaggio», a cura di Felice Cimatti e Francesca Piazza
Meschac Gaba
di Alberto Giovanni Biuso
«‘Sono sempre stato affezionato a quest’altura’ non è la stessa cosa di ‘sempre caro mi fu quest’ermo colle’». Lo riferisce Emanuele Fadda, in un saggio contenuto nel volume Filosofie del linguaggio, a cura di Felice Cimatti e Francesca Piazza, (Carocci, pp. 414, euro 29). Perché non è la stessa cosa? L’enigma del linguaggio sta anche in questa differenza. Il linguaggio è infatti in sé differenza. E questo in senso sia storico sia sostanziale.
IN SENSO STORICO perché una lingua è viva in quanto e sino a quando è capace di mutare, di diversificarsi, di trasformare le proprie strutture, di abbandonare molte parole per generarne altre, anche allo scopo di comprendere e dire il mondo che incessantemente diviene. In senso sostanziale perché il parlare umano esiste dove ci sono differenze tra le cose, anche allo scopo di rendere conto di queste differenze.
LA VARIETÀ non è quindi un ostacolo al linguaggio ma rappresenta una delle sue ragioni d’esistenza. Il racconto della Torre di Babele è un mito linguistico fondativo perché coglie in modo drammatico e chiaro l’inevitabilità della differenza affinché linguaggio ci sia. Questa è la ragione più profonda che dovrebbe indurre a respingere ogni monoteismo linguistico, come ad esempio quello che si tenta oggi di imporre con l’inglese.
PARLARE SIGNIFICA anche articolare suoni con alcune parti del corpo. Il rapporto del linguaggio con la biologia è chiaro in Darwin, che spiega in maniera assai sensata la questione dell’innato e dell’appreso. Come spiegano Cimatti e Fadda, se infatti «è innata la facoltà del linguaggio, non sono innate le diverse lingue che gli esseri umani possono parlare».
Su questa base si può affrontare anche la questione del linguaggio animale, che certamente esiste sia nella sua continuità con quello umano sia nella sua differenza e soprattutto nella sua molteplicità. Non può infatti esserci un linguaggio animale per il semplice fatto che non esiste l’animale, categoria di comodo all’interno della quale si comprimono, si nascondono, si cancellano le enormi differenze tra gli animali.
DIFFERENZE che riguardano anche uno dei nodi più intricati delle teorie e delle filosofie del linguaggio: il rapporto tra pensiero e parola. L’ingenuità della concezione secondo cui un essere umano completamente solo non avrebbe bisogno di comunicare con nessuno ma avrebbe ugualmente intatte e complete le facoltà linguistiche cominciò a essere abbandonata con Leibniz e Wolff, fu mostrata in tutta la sua astrattezza da Vico ed è oggi decisamente respinta.
Pensiero e linguaggio sono infatti inseparabili sia sul versante della costante conversazione che intratteniamo con noi stessi sia su quello della comunicazione con gli altri. Inseparabile dal corpo e dal pensiero, il linguaggio è legato anche al tempo, essendo qualcosa che muta di continuo rimanendo però sempre ben riconoscibile. La complessità e la ricchezza di rapporti che il linguaggio intrattiene con il corpo, la biologia, l’animalità, il pensiero, il tempo, mostrano la sua centralità per ciò che definiamo «civiltà».
TRA I MOLTI TEMI esposti e discussi dal libro tre sembrano tuttora fecondi e riassuntivi dell’intero percorso: la distinzione posta da Morris tra la sintattica (che studia le relazioni tra i segni), la semantica (che studia le relazioni tra i segni e gli oggetti a cui si riferiscono) e la pragmatica (che studia le relazioni tra i segni e i loro utilizzatori).
LA CENTRALITÀ del significato così come venne individuato dagli Stoici con il termine lektòn, un’entità immateriale distinta sia dal suono della parola sia dall’oggetto fisico che la parola indica; l’ermeneutica come scienza del linguaggio e della comunicazione, fondata sullo splendore polisemico delle parole, sulla molteplicità dei loro significati e delle interpretazioni.
La fecondità dell’ermeneutica consiste anche nella sua dimensione infinita, aperta, capace di andare al di là di ogni acquisizione qui e ora per conoscere mondi sempre nuovi che sono in primo luogo mondi costruiti dal linguaggio.
il manifesto 15.6.17
Santoro: «La mostruosità di Hitler è davvero così irripetibile?»
Televisione. Il 22 e il 29 giugno su Raidue il suo nuovo format sperimentale, incentrato sulla figura del dittatore tedesco. E sulla situazione a viale Mazzini dice: «Abbiamo bisogno di un grande servizio pubblico. La Rai deve darsi una scossa»
di Stefano Crippa
ROMA Sul logo della cartella stampa la figura stilizzata del folle dittatore si staglia accanto alla M, il titolo della nuova avventura televisiva di Michele Santoro – ispirato al film di Fritz Lang sul mostro di Dusseldorf, due puntate di un inedito format che Raidue2 trasmette in prima serata il 22 e 29 giugno. Si tratta di una formula che prova a tenere insieme i linguaggi cinematografici, teatrali e televisivi. Un «esperimento, un numero zero» come spiega il conduttore, che si concentra sulla figura di Adolf Hitler provando a rispondere alla domanda: «Si tratta di una mostruosità irripetibile?».
Santoro non ne è convinto: «Basta leggere certe dichiarazioni e prese di posizione sui migranti per rendersi conto…». Un attore in studio – Antonio Tidona nei panni di Hitler impegnato in una sorta di «intervista impossibile che diventa possibile perché verranno utilizzati testi realmente pronunciati dal dittatore tedesco», e poi il pubblico (ristretto) e altri attori che inizieranno il dibattito, insieme a una ricostruzione cinematografica che si concentra sul rapporto incestuoso tra Hitler e la nipote Geli: «una vicenda che avrebbe anche potuto cambiare il corso della Storia, se solo non fosse stata insabbiata».
M – sottolinea Santoro, «vuole essere un tentativo resistenziale contro l’invasione dei format americani e l’affermarsi di un pensiero unico televisivo. Noi cerchiamo di fare un prodotto come indipendenti, con i soldi che abbiamo senza pensare a risparmi e guadagni. La Rai è servizio pubblico, e deve cominciare a fare quello che il mercato adesso non sta facendo». Il conduttore di Samarcanda e Servizio Pubblico, si toglie qualche sassolino dalla scarpa: «Sono stato nei corridoi di Rai 2 dove sono esposte fotografie dei programmi storici della rete, ma noi non eravamo presenti. Ho ascoltato Fazio durante la serata sulla mafia mostrare immagini e parlare solo di Maurizio Costanzo Show come se tutto si concentrasse lì, ma quella del 1993 era una staffetta condotta da me e Maurizio, e io mi trovavo in un teatro pieno di Palermo». Alle domande sul perché di un programma di ricostruzione storica risponde: «Perché nessuno mi chiede di fare un programma politico, forse sono considerato ancora un autore proibito…». E sulla missione della Rai, aggiunge: «Abbiamo bisogno di un grande servizio pubblico, solo lei può dare una scossa». Viale Mazzini non può piangersi addosso: «Perché è l’unico soggetto editoriale che grazie al canone può permettersi di sperimentare».
In una situazione che in qualche modo la favorisce: «Mediaset ha problemi, non sa se sarà venduta e Sky non mi sembra abbia più la forza aggressiva di un tempo». Parla anche del tetto compensi: «Il vero problema non sono i soldi a Vespa, Fazio e altri. Il problema è che in Rai le risorse vanno in minima parte al prodotto». Aggiungendo che sarebbe fondamentale il coinvolgimento di autori giovani, almeno per il 30%: «Non possiamo sempre pensare di puntare su Freemantle, Endemol e gli agenti». Santoro sarà protagonista su Raidue anche stasera con la prima tv alle 21.15 di Robinù, il film documentario sul babyboss della camorra presentato a Venezia. «Un altro prodotto – come sottolinea il direttore di Rai 2 Ilaria Dallatana – di artigianato di lusso della factory di Santoro».
Repubblica 15.6.17
Lo scontro.
Polonia, Repubblica ceca e Ungheria annunciano battaglia dopo la procedura d’infrazione sui ricollocamenti
L’Est non si allinea “Le sanzioni sui migranti sono un ricatto della Ue”
Alberto D’argenio
BRUXELLES. In Europa sono giorni ad alta tensione sui migranti, con l’energia polemica accumulata che rischia di esplodere al Consiglio europeo in calendario tra 7 giorni a Bruxelles. I governi restano spaccati: il gruppo di Visegrad — Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia — contro Ue, Italia, Francia e Germania sulle riallocazioni dei richiedenti asilo. Roma e Berlino a loro volta su fronti opposti sulla revisione delle regole per i prossimi anni.
La svolta della Commissione europea di Jean-Claude Juncker è arrivata con il lancio delle procedure di infrazione contro Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, colpevoli di avere boicottato il sistema dei ricollocamenti, l’obbligo di ospitare la propria quota di richiedenti asilo sbarcati in Italia e Grecia per un totale di 160mila persone. Se vorranno evitare Corte di giustizia e sanzioni dovranno aprire ai migranti ma i tre non vogliono allinearsi. L’Ungheria di Orban ha accusato l’Unione di «ricatto e atto antieuropeo » mentre il premier ceco Sobotka ha annunciato che il suo governo «si difenderà» presso la Corte del Lussemburgo.
Se l’affondo contro Visegrad è un segnale politico forte di sostegno a Roma e Atene, la battaglia sui migranti non si esaurisce qui. Il programma di emergenza delle riallocazioni lanciato due anni fa oltre a essere stato un flop scade a settembre e dovrebbe essere sostituito da un meccanismo permanente di solidarietà inserito nella riforma di Dublino, le regole sui richiedenti asilo. Ma nemmeno il summit della prossima settimana sarà decisivo per un accordo. Bruxelles vuol abrogare l’obbligo per il paese di primo approdo di farsi carico dei richiedenti asilo e vuole un meccanismo automatico di redistribuzioni tra partner in caso di sforamento di certi tetti di arrivi. Visegrad blocca la riforma, appoggiata dalla Germania: Merkel non vuole novità fino al voto tedesco. Italia e Francia non accettano di rinunciare alla riforma del paese di primo approdo se non verrà mantenuto il sistema automatico di ricollocamenti. Visegrad fa lobby perché scatti una procedura anche contro l’Italia, accusata di far defluire i migranti negli altri paesi Ue. Italia, Germania e Svezia invece continuano a minacciare di tagliare i fondi europei ai paesi che non rispetteranno stato di diritto e solidarietà sui migranti. Italia e Francia si rendono conto che anche se funzionassero, le indispensabili relocation non sono risolutive: si applicano a siriani, iracheni ed eritrei ma l’85-90% degli sbarchi riguarda migranti economici africani e asiatici ai quali non si applicano le quote. Per questo Gentiloni e Macron chiederanno di rilanciare gli impegni con l’Africa, il fondo Ue da 62 miliardi che resta al palo. Lo testimoniava ieri il presidente del Parlamento Antonio Tajani: «In Africa servono più investimenti europei».
Mentre in Italia l’M5S si irrigidisce sui migranti, in Europa i grillini Castaldo, Ferrara e Corrao sembrano andare in controtendenza con due emendamenti che voteranno oggi a Strasburgo che aprono alla protezione anche dei migranti climatici e all’estensione della protezione alle famiglie che si creano dopo l’arrivo del rifugiato in territorio Ue.
Corriere 15.6.17
L’arte africana getta la maschera. Online le immagini
Un proliferare di aste e mostre rivela che l’arte dell’Africa, continente spesso sconvolto da conflitti e disastri, sa dialogare con quella dell’Occidente, che per secoli ha colonizzato queste terre. Un’arte, dunque, che getta la maschera, suscitando un interesse ormai globale. Alle opere di 33 artisti è dedicata la mostra Africa. Raccontare un mondo , al Pac/Padiglione d’arte contemporanea di Milano, dal 27 giugno all’11 settembre. Su «la Lettura» in edicola fino a sabato Stefano Bucci racconta l’esposizione, mentre una scelta delle opere è online su corriere.it/lalettura in un percorso per immagini a cura di Jessica Chia . Su «la Lettura» in edicola, inoltre, 4 pagine sono dedicate all’arte, alla moda, alla tecnolo-gia e alla manifattura che spingono la fragile Africa verso nuove speranze.
Corriere 15.6.17
E le sante divennero monaci
di Eva Cantarella
Bisogna ammetterlo, sono vite a dir poco inconsuete, quelle delle sante che questo libro ci fa conoscere. E sono vite sino a oggi praticamente, e in un caso assolutamente ignote al pubblico dei non specialisti: di quella di una di esse, Eufrosine, non esiste traduzione in alcuna lingua moderna; di quella delle altre, con l’eccezione di Maria/Marino, questa è la prima traduzione italiana. E a dire quanto inconsuete siano le loro storie basta il titolo del libro che ce le fa conoscere: Cinque sante bizantine. Storie di cortigiane, travestite, eremite, imperatrici, a cura di Laura Franco (edizioni SE, pagine 155, e 19). Raffinata bizantinista che, dopo un PhD alla University of London (Royal Holloway) collabora da anni con l’Università di Cipro e tiene corsi di paleografia greca all’Institute of English Studies, Laura Franco, in una interessantissima postfazione (che consiglierei di leggere come introduzione) spiega l’importanza e il ruolo nel mondo bizantino del culto dei santi, le cui Vite venivano raccontate sia nelle chiese e nei monasteri sia nel corso di cerimonie alle quali partecipavano anche i laici. Erano insomma, quelle Vite, esempi e modelli cui era affidato il compito di rafforzare il senso di appartenenza comunitario del gruppo che li ascoltava.
Ma torniamo, tutto ciò premesso per meglio comprenderne il valore, alle storie delle nostre cinque sante: storie singolarissime, diverse tra loro sia nel registro linguistico sia perché appartengono a epoche differenti, ma quasi tutte accomunate dalla decisione delle loro protagoniste di travestirsi da monaco. Come fece, per cominciare, la bellissima Pelagia, una prostituta di Antiochia che dopo la conversione visse in eremitaggio, trasformandosi da danzatrice voluttuosa in sobria penitente e infine in eunuco scarnificato dai patimenti autoinflitti. Una scelta mirata, volta ad assumere un’identità asessuata che le consentiva, attraverso la negazione della femminilità, di raggiungere la perfezione androgina degli angeli. E veniamo a Maria/Marino ed Eufrosine: entrambe orfane di madre, entrano travestendosi da uomo in un monastero dove, Eufrosine come Pelagia, assumono le sembianze di un eunuco, cosa che consente loro di sottrarsi all’autorità maschile proprio laddove questa le precluderebbe l’ingresso. In sostanza, il travestimento da monaco serve a eludere i cardini di una società patriarcale senza metterli in discussione: una scelta, a ben vedere, analoga — anche se diversa nelle forme— a quella dell’imperatrice Teodora (tra queste figure l’unica realmente esistita). Moglie fedele e devota dell’imperatore Teofilo, Teodora, che non condivide le posizioni iconoclaste del marito, non le contrasta, ma alla morte di questi, mantenendo saldamente nelle sue mani la guida dell’impero, riesce ad assicurarsi la santità riabilitando il culto delle icone.
E per concludere l’elenco ecco Teoctista, la monaca che, fatta prigioniera dagli Arabi, sfugge in modo rocambolesco ai suoi rapitori e diviene eremita su un’isola deserta. Anche lei, come le altre, dotata di qualità morali considerate appannaggio maschile: la capacità di sopportazione, il distacco dai bisogni del corpo, la forza d’animo, il coraggio. Anche lei una donna virile, capace di affrancarsi dalla debolezza e dalla mancanza di razionalità secondo le convinzioni dell’epoca connaturate al sesso femminile. Un libro che vale la pena di leggere, una galleria di ritratti femminili non banali, che si discostano dall’immagine stereotipa sia della donna medievale, dedita esclusivamente alla cura dei figli e della famiglia, sia e forse soprattutto da quella tradizionale della santa.
il manifesto 15.6.17
Sui reperti del nostro territorio
I bambini ci parlano. «Anche io non pensavo che qui da noi c’erano stati degli uomini primitivi. Io non pensavo neppure che qui a Calerno passava un fiume perché adesso non si vede nessun fiume e allora non lo potevo sapere»
di Giuseppe Caliceti
Questa mattina abbiamo iniziato il nostro Laboratorio di archeologia con Silvio Chierici, che fa parte del Gruppo Archeologico di Calerno e di Sant’Ilario d’Enza.
Mi dite cosa vi ha colpito di più di tutte le cose che ha detto e che vi ha fatto vedere?
«Mi sono piaciute molto le pietre che ha portato. Le amigdale. E anche gli altri reperti». «Mi ha colpito che lui è un dottore, un ottico, che fa gli occhiali alle persone, però per hobby fa anche l’archeologo. Quando non deve lavorare». «Anche io lo conoscevo già. Però non sapevo che era un archeologo. Pensavo che era solo un dottore. Il dottore degli occhi». «Io mi sono stupito quando ha detto che qui da noi, dove adesso abitiamo noi, tanti anni fa abitavano degli uomini primitivi». «Sì, anche io. Degli uomini primitivi del Neolitico». «Io mi sono stupito quando ci ha detto che il torrente Enza, che passa adesso da Sant’Ilario d’Enza, tanti anni fa passava anche da Calerno». «Io mi sono stupito che sul nostro territorio sono stati trovati reperti archeologici anche di 40.000 anni fa, perché non pensavo che ci fossero proprio qui da noi». «Anche io non pensavo che qui da noi c’erano stati degli uomini primitivi. Io non pensavo neppure che qui a Calerno passava un fiume perché adesso non si vede nessun fiume e allora non lo potevo sapere». «A me è piaciuto quando Silvio ci ha spiegato che ha trovato due sepolture, cioè dei resti di scheletri primitivi. E anche quando ha spiegato che erano in posizione fetale, cioè come quella di un bambino quando è ancora nella pancia della mamma. E con la testa rivolta a est, dove nasce il sole. Questo perché speravano che i morti rinascessero».
Altre cose che vi hanno colpito e vi ricordate?
«Io mi sono stupito quando ha detto che il nostro senso più antico, di tutti i cinque sensi, era l’olfatto. Infatti io non sapevo perché tutte le volte che ci faceva toccare e vedere un reperto con le mani noi, per prima cosa, lo annusavamo. Invece adesso ho capito perché».
«Anche il mio cane annusa sempre tutto». «Io mi sono un po’ meravigliato quando Silvio ci ha raccontato che Silvio e i suoi amici archeologi fanno sempre delle ricerche archeologiche nei campi arati dei contadini, quando i contadini arano i campi, in autunno. Oppure quando fanno le fondamenta delle case nuove che devono costruire i muratori, con lo scavatore». «Mi ha colpito quando ha detto che per lisciare la pietra gli uomini primitivi usavano dell’acqua e della sabbia. Perché adesso ci voglio provare anche io ad usare questo metodo».
«Poi ha detto che per trasportare l’acqua, loro costruivano dei recipienti apposta con l’argilla ma anche con le pelli di animale. Perché io non pensavo che si potessero costruire dei recipienti per l’acqua con le pelli degli animali».
Avete capito perché non si possono portare i reperti in casa propria?
«Sì, perché sono molto importanti». «Perché se li porti a casa tua, li vedi solo te. Invece questi reperti li devono vedere tutti. Non sono tuoi e basta. Sono di tutti. Allora chi li trova deve fare come Silvio e i suoi amici: portarli al museo, così dopo le persone del museo li lavano li puliscono, li catalogano e li fanno vedere a tutti quelli che vanno al museo di Reggio Emilia». «A me ha colpito quando Silvio ha fatto vedere l’arco primitivo che aveva ricostruito con il suo amico. Perché io non pensavo che lui era capace di costruire un arco vero. E poi non sapevo che tirata con l’arco il dardo di selce poteva uccidere un animale anche a cento metri di distanza. Pensavo che la freccia andava più piano, più vicina».
«Io spero che al prossimo incontro Silvio ci porti anche delle altre amigdale e degli altri chopper perché per me erano bellissime le amigdale e i chopper». «Io ho provato a sentire la punta dell’amigdala ed è vero che era affilata, è vero che tagliava. Io pensavo che forse, se trovo una bella pietra, forse provo anche io a fare un’amigdala per me. Però quella, dopo, il la devo portare al museo? Non credo, maestro, perché quella l’ho fatta io. Non l’ha fatto un uomo primitivo».
Il Fatto 15.6.17
Pd, bilancio in rosso per 9,5 milioni: ne ha buttati 14 per la campagna “Basta un Sì” al referendum
I conti dem rivelano oltre 12 milioni di spese elettorali. I gruppi parlamentari hanno messo altri due milioni
Pd, bilancio in rosso per 9,5 milioni: ne ha buttati 14 per la campagna “Basta un Sì” al referendum
di Wanda Marra e Marco Palombi
L’ordalia del referendum costituzionale rischia di costare assai cara al Pd: aver puntato tutto sul voto del 4 dicembre, infatti, ha portato Matteo Renzi e soci a spendere sulla campagna per il Sì soldi che il partito non aveva. Il bilancio 2016, svelato ieri da Huffington Post dopo l’approvazione in Direzione, si chiude con un rosso da 9,5 milioni di euro, che andrà coperto nel prossimo biennio a colpi di tagli sanguinosi, soprattutto al personale, visto che dal 2017 non c’è più il finanziamento pubblico (ne consegue, peraltro, che un rilancio dell’Unità a carico dei democratici è impossibile).
Nonostante le professioni di sobrietà arrivate dai vertici del partito nei mesi scorsi (“spenderemo massimo 6 milioni”) e il generoso aiuto degli imprenditori d’area (il finanziere Davide Serra è stato l’unico, però, a dichiararlo ufficialmente), la faraonica campagna referendaria “Basta un sì” ha ammazzato i conti del partito: incrociando il bilancio del Pd e i rendiconti dei gruppi parlamentari appena pubblicati, si arriva a una spesa di almeno 14 milioni di euro, quattro in più – per dare un’idea – di quanto al Nazareno si spese per la campagna elettorale delle Politiche del 2013, quando però c’era ancora un ricco “rimborso” per ogni voto ricevuto.
Sta di fatto che i democratici avevano chiuso il 2015 con un bilancio in sostanziale pareggio e disponibilità liquide per quasi 10 milioni e ora sul conto si ritrovano un milione e 700mila euro e il rosso di cui sopra. La nota integrativa non lascia dubbi: “Il decremento delle disponibilità liquide è legato ai maggiori esborsi che il partito ha avuto nell’esercizio 2016 e legati principalmente ai costi della campagna referendaria”.
I numeri aggregati sono questi. Nel bilancio del partito firmato dal tesoriere renziano Francesco Bonifazi risultano spese per campagne elettorali nel 2016 per 11,6 milioni di euro: l’anno scorso ci sono state anche le amministrative (Roma, Milano, etc) per le quali non risultano però contributi straordinari del partito. “Basta un sì”, insomma, dovrebbe aver assorbito gli 11 milioni e mezzo delle spese elettorali dichiarate dal bilancio democratico e pure quasi tutti i 763 mila euro classificati come “manifestazioni, eventi e servizi elettorali in genere”. I soldi che mancano per arrivare a 14 milioni li hanno messi i gruppi parlamentari: “La campagna informativa sulla Riforma costituzionale e il referendum costituzionale del 4.12.2016” è costata “1.416.384 euro”, si legge nel rendiconto dei deputati Pd. Con gli eventi sul territorio, le altre campagne di comunicazione, gli spazi informativi alla Festa nazionale dell’Unità intitolata al Sì alla riforma Boschi si arriva a circa due milioni (600mila euro dal gruppo del Senato, il resto da quello della Camera).
Con questi soldi – oltre al mega-compenso del guru Jim Messina, che ha appena terminato di rendere i suoi servigi a Theresa May, dopo aver dato lustro alla campagna di Hillary Clinton – sono stati pagati gli innumerevoli eventi pubblici di “Basta un sì” (il bilancio ne cita “tra i principali” la bellezza di 52) e le campagne “porta a porta”: solo spedire 2,5 milioni di lettere agli italiani all’estero e consegnare 16 milioni di volantini a quelli residenti in patria dovrebbe essere costato ai democratici almeno 7 milioni di euro.
Il tesoriere Bonifazi, sempre con l’Huffington, non pare preoccupato: “La gestione caratteristica è virtuosa. La perdita, sulla base del piano industriale asseverato da uno dei migliori studi italiani di consulenza (lo studio Pirola – Pinnuto – Zei, ndr) porta all’assorbimento della medesima tra l’esercizio 2017-18. Percorreremo con forza le strade del potenziamento del funding e del 2×1000, di recupero delle somme ancora dovute da una parte minoritaria di parlamentari, nonché con una necessaria ulteriore diminuzione dei costi”.
Quanto alle donazioni e al 2 per mille difficile salire abbastanza, mentre tagliare il personale o la spese del partito è inevitabile, anzi è un processo già iniziato: a Genova, per dire, avevano chiesto 100mila euro per la campagna elettorale e non li hanno avuti e ora il candidato del centrosinistra Crivello si trova oltre 5 punti dietro a quello del centrodestra Bucci. Non è antipatia per il candidato in odor di Bersani del capoluogo ligure: il futuro che attende il partito è questo e sta scritto nei numeri.
Il bilancio del Pd, per effetto dell’abolizione del finanziamento pubblico, si contrae da anni: il “fatturato” dem nel 2013 era di quasi 49 milioni di euro per la metà dovuti a rimborsi elettorali; nel 2014 si era già scesi a 27,3 milioni (12 milioni dai rimborsi), diventati 22,2 nel 2015 e venti milioni al 31 dicembre 2016, quando è stata registrata l’ultima tranche di soldi pubblici (2,6 milioni di euro). L’anno scorso, però, il bilancio s’è contratto e le spese invece sono esplose per pompare la grande scommessa renziana: quasi 30 milioni, che hanno causato il rosso da nove milioni e mezzo.
Spariti i soldi pubblici, le fonti di finanziamento più rilevanti del partito – ora e per il futuro – sono tre: il 2 per mille (6,4 milioni nel 2016), i contributi dei parlamentari (6,6 milioni) e le donazioni di persone fisiche e aziende (quasi un milione e mezzo). Recuperare 9 milioni in due anni con la prospettiva, peraltro, di veder diminuire il numero dei parlamentari (e i relativi contributi) significa una cosa sola: l’attività del partito sarà ridotta al lumicino e il costo maggiore lo pagheranno i 184 dipendenti (56 in aspettativa e 13 in distacco), che costano la non piccola cifra di quasi 8 milioni l’anno.
Per poter fare la campagna per le prossime elezioni politiche, insomma, Matteo Renzi, più che organizzare cene di finanziamento, dovrà aprire un ristorante a ciclo continuo oppure cambiare metodo: come dimostrano i quasi 20 milioni di No al referendum, i soldi non sono tutto.
il manifesto 15.6.17
Intervista a Anna Falcone
«Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza»
«Prima il programma, la sinistra parla solo di leadership»
«Pisapia? Non capisco come possa convergere con il Pd. Non c’è D’Alema dietro di noi
Il nostro non è un partito né un movimento, ma un percorso democratico. Terremo un dibattito aperto. Il programma concreto verrà scritto nelle assemblee territoriali»
di Daniela Preziosi
Per quasi tutto il tempo dell’intervista tiene in braccio la piccola Maria Vittoria che gorgheggia. La bimba è nata un mese dopo il referendum del 4 dicembre. Quello in cui Anna Falcone, avvocata, calabrese, di famiglia socialista – non craxiana – è stata in prima fila. «L’anti Boschi», hanno scritto di lei. «È competente ed efficace» dicono i suoi compagni, quasi tutti di un’età rispettabile (lei ha passato da poco i quaranta). È anche una bella donna. Mezzo sorriso: «Chi mi ascolta non bada alla mia faccia». Falcone è firmataria, con lo storico dell’arte Tomaso Montanari, di un documento intitolato «Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza» che lancia l’appuntamento civico del 18 giugno al Brancaccio.
«Una sola sinistra», avete scritto, «in una sola lista». Conosce la tradizione di conflitti in quest’area. Come pensate di unirla?
Prima di una lista abbiamo chiesto una convergenza su un percorso unitario. Crediamo che le tante anime della sinistra ma anche le forze civiche, spesso cuore di tante iniziative di successo, possano convergere su alcuni punti. Prima del nostro appello a sinistra c’era un dibattito tutto incentrato sulle leadership e poco sui programmi. Vogliamo mettere insieme un’area della sinistra più sinceramente democratica – io non ritengo il Pd un partito di sinistra – per dare una risposta alle diseguaglianze e al senso di ingiustizia diffuso. Con il 18 iniziamo un percorso partecipato individuando cinque-dieci punti.
Come li sceglierete?
Terremo un dibattito aperto. Stiamo raccogliendo i contributi, ogni partecipante avrà una scheda. Il programma concreto verrà scritto nelle assemblee territoriali. Noi ci facciamo garanti che siano aperte e democratiche.
Noi cioè lei e Montanari?
Noi due, due innamorati della costituzione e convinti che Davide può sconfiggere Golia. Il 4 dicembre è già successo.
Voi siete «civici», ma avete raccolto il sì entusiasta dei piccoli partiti: Sinistra italiana, Prc, Pci, Possibile, alcuni socialisti. Come eviterete l’eterna diatriba fra civici e politici?
Non forzeremo nessuno. Chiediamo di aderire ad un progetto. Il nostro non è un partito né un movimento, ma un percorso democratico. Chi è d’accordo con i punti andrà avanti. Qualcuno forse vorrà aderire dopo. La nostra non è una scelta di potere, ma di concretezza e costruttività.
Come sceglierete i candidati?
Individueremo insieme i metodi democratici. Partiremo anche da segnalazioni spontanee, di persone valide, anche senza identità politica definita.
Insomma farete le primarie?
Questo termine è stato svalutato da Renzi. Nel Pd le primarie sono diventate un modo per aderire a una scelta indicata dalla segreteria. Ma la selezione sarà democratica, il voto di uno varrà uno. Magari troveremo un metodo più trasparente. Vogliamo fare un upgrade della democrazia.
Pisapia invita Renzi a fare le primarie. Mdp invita voi a partecipare alle primarie della sinistra. Potreste aderire, almeno a queste ultime?
Prima bisogna intendersi: una selezione democratica si fa se si è d’accordo sui fondamentali. Sfidarsi fra idee di società opposte è inutile e anche un tradimento. Al centro del nostro lavoro c’è l’applicazione della Costituzione.
Insomma ci starete?
Con Renzi mai. Pisapia invece si rivolge a un mondo con cui possiamo condividere una vasta parte del nostro programma. Per questo mi stupisce che proponga le primarie a Renzi. Non credo che possa convergere con il Pd che ha aumentato le diseguaglianze, aggravato la perdita dei diritti e sostituito le politiche sociali con i bonus. Noi siamo su un orizzonte alternativo. Con Pisapia può iniziare un discorso, ma prima dobbiamo parlare dell’orizzonte.
Pisapia chiama il mondo a cui si rivolge «centrosinistra», e si rivolge a Prodi.
La categoria del centrosinistra è superata, oggi anche i molti cattolici chiedono politiche molto più di sinistra. Papa Francesco ne è l’emblema. Detto questo, noi ci rivolgiamo a cittadini, non a singole personalità.
Intanto però la sinistra litiga. Credete di avere il vaccino per questa malattia?
Avevamo due scelte: o non fare nulla o lanciare una sfida e chiedere a chi sente la nostra esigenza di lavorare con noi. Non ci mettiamo a capo di niente. Sappiamo che la strada sarà difficile e accidentata. Ma ci sono dei momenti della vita in cui bisogna prendersi delle responsabilità.
Il primo luglio sarete a piazza Santi Apostoli con Pisapia?
Noi lo abbiamo invitato il 18 giugno, se da parte sua c’è una volontà di dialogo bene. Non dipenderà da noi.
Lei ha partecipato al lancio di Art.1. C’è chi dice che dietro di voi c’è D’Alema. È così?
Se è dietro di noi, non ce ne siamo accorti. Non ho nessun rapporto personale con D’Alema, mi avevano invitato per avere la voce di una giovane giurista del No.
Di liste civiche lei ha già un certo know how. Si è candidata con Ingroia. Ingroia, icona dei giustizialisti, lei avvocata garantista.
Ma il guaio non fu quello. Quel processo si inceppò sulla democrazia: non fummo noi a scegliere il leader né i candidati. Invece era una lista partita dal basso. Ero stata indicata dalle assemblee calabresi, fui candidata in Sicilia e in Lombardia, alla fine feci la campagna per spirito di servizio.
Oggi Ingroia fa appello ai 5 stelle. Voi con i 5 stelle in che rapporti siete?
Al momento nessuno. Hanno avuto il merito di interrompere l’assetto incrostato della politica italiana. Ma sono tutti incentrati sulla richiesta di onestà e trasparenza. Che non basta. Noi chiediamo rappresentanza per tutti quelli che si sono impoveriti, la classe media scivolata in precarietà, per i diritti costituzionali.
Con voi invece ci sarà Luigi De Magistris, con cui lei ha collaborato.
No, ero stata indicata nel cda della Bagnolifutura. De Magistris parteciperà alla nostra assemblea. Con Dema c’è un rapporto e una sintonia, ma anche loro decideranno come tutti in che termini partecipare. Ma ci auguriamo che siano una parte importante del nostro progetto.
Vi rivolgete al popolo del No. Pisapia e Enrico Rossi hanno votato sì. Non li volete?
Non abbiamo mai escluso chi ha votato Sì. Il punto è un altro: perché lo hanno fatto? Perché hanno creduto nella favola di Renzi oppure perché hanno creduto in un progetto che andava a toccare i principi fondamentali della Carta? E ora chiediamo: «Vi riconoscete nell’obiettivo prioritario dell’attuazione della Costituzione?». Noi non siamo i censori di nessuno. La discriminante sta nell’aderire a questo progetto e essere credibili.
Vuol dire che chi ha votato Sì per voi non è credibile?
Lo decideranno le persone che aderiranno a questo progetto. Ognuno si presenterà con la sua storia.
La Stampa 15.6.17
Il fattore Prodi per moltiplicare i voti
Pisapia punta agli incerti vicini al Pd
Il Professore si sfila: “Sono un felice pensionato, sbaglia chi immagina il mio ritorno” Ma l’ex sindaco di Milano cerca la sua benedizione per riunire il centrosinistra
di Fabio Martini
Una battuta mal riuscita di Giuliano Pisapia su Romano Prodi non ha compromesso il rapporto tra l’ex sindaco di Milano e il Professore e anzi la manifestazione con la quale il primo luglio sarà lanciato “Insieme” (il nuovo soggetto politico destinato a far concorrenza al Pd), si svolgerà nel luogo simbolicamente più caro a Prodi: piazza Santi Apostoli. Da lì, nel 1996, partì per la prima volta il pullman dell’Ulivo, in quella piazza si sono festeggiate le uniche due vittorie del centrosinistra in Italia e su quella piazza si è affacciato per 12 anni lo studio romano del Professore. Certo, la simpatia umana e politica che lega Prodi e Pisapia, leader in pectore dell’area, non è ancora un solido patto politico, ma l’ex sindaco di Milano ci punta forte. Perché è convinto che una «benedizione» del Professore avrebbe l’effetto di suscitare un «effetto-Prodi» su una parte di elettorato.
Due sere fa, con quel tratto di impoliticità che gli è proprio, Giuliano Pisapia, parlando a “La7”, ha quasi richiamato in campo Romano Prodi, che però è fuori dalla politica attiva da 10 anni: «Ci vorrebbe - ha detto l’ex sindaco - qualcuno che ha vinto contro il centrodestra unendo la sinistra, ci vuole una personalità sopra le parti. Prodi se fosse disponibile a candidarsi a Palazzo Chigi ci metterei la firma, però mi sembra che lui non sia disponibile». Per un personaggio come Pisapia, che dovrebbe conoscere le regole del mondo dell’informazione, usare il condizionale su un’ eventuale disponibilità di Prodi a ripresentarsi per la guida del Paese, è stata un’ingenuità della quale lui stesso si è subito reso conto. Tanto è vero che appena conclusa la registrazione della trasmissione “DiMartedì”, Pisapia ha telefonato al Professore, anticipandogli quel che aveva detto.
E ieri, presentando a Roma il suo libro “Il piano inclinato”, ai cronisti che lo incalzavano, Prodi ha dato la risposta più scontata: «Non tornerà l’Ulivo e non sarò candidato premier». E ha spiegato: «Sono un felice pensionato» e «si sbagliano» quelli che immaginano un ritorno in campo. Ma prima di congedarsi, il Professore ha rilanciato un assist verso Pisapia: «Non sono l’unico in grado di unire il centrosinistra».
E dunque l’ambizione dell’ex sindaco di Milano resta intatta: contare sul Professore come patron del nuovo soggetto politico di centrosinistra che dovrebbe radunare le forze alla sinistra del Pd (Bersani, Pippo Civati, movimenti civici e ambientalisti) ma senza rinchiudersi in un’«operazione di testimonianza», dando vita ad «una sinistra ragionevole» e non «rancorosa», che sia capace di allargarsi fino a personalità come Enrico Letta e come Romano Prodi.
La scommessa di Giuliano Pisapia e di Bruno Tabacci, grande amico del Professore, è riuscire ad attivare un «fattore Prodi». una sorta di calamita elettorale in grado di trascinare verso “Insieme” i tanti elettori incerti che gravitano attorno al Pd. Nessuno pensa che la collocazione di Prodi garantisca una precisa percentuale elettorale, ma che possa agire da “reagente” e da moltiplicatore. Una scommessa incoraggiata da un sondaggio riservato. Racconta Roberto Weber, capofila dell’istituto Ixè: «Prodi può esercitare influenza sui giornali e su una porzione di elettorato più sofisticato ed è difficile immaginare un effetto di massa. Ma attenzione: un recentissimo sondaggio ci ha fornito un risultato sorprendente. Abbiamo chiesto ai cittadini-elettori di indicarci, oltre al partito “preferito”, anche la loro seconda scelta. Bene, mentre tutti i partiti sono saliti dell’8 per cento potenziale sulla base di questa seconda opzione, la formazione alla sinistra del Pd è lievitata di tre volte tanto rispetto agli altri. Con una potenzialità di crescita altissima, inattesa e superiore a quella delle altre forze politiche. E questo dimostra un altro dato che fa riflettere: quello di un elettorato Pd instabile e fragile».
Corriere 15.6.17
Prodi
«Io pensionato felice, non candidato premier»
di Monica Guerzoni
Prodi dopo l’auspicio di Pisapia: con il passato non si salva il presente. Renzi: nomi? Alleanze sui contenuti Manovra, Mdp non vota ma Campo progressista dice sì. Bilancio dem in rosso di 9 milioni per il referendum
ROMA Se non gli dispiace essere tirato per la giacca è per quella «umana vanità» che lui stesso si riconosce. Ma a Palazzo Chigi, giura, Romano Prodi non intende tornarci: «Non farò il candidato premier». Salendo lo scalone del magnifico palazzo di via Caetani che ospita il Centro studi americani — col passo di uno che, a giorni alterni, macina dieci chilometri di corsa — l’ex premier lo ripete due volte: «No, non lo faccio. Non mi vedrete a Palazzo Chigi». In una mano stringe il suo ultimo libro, Il piano inclinato e nell’altra un ramoscello d’ulivo, di cui gli ha fatto omaggio una giornalista tv. Gli chiedono se quelle foglioline simbolo dell’unità del centrosinistra lo emozionino ancora e il prof, con un sorriso dei suoi: «No!». Il perché lo aveva spiegato al mattino con una battuta, confidando che «con il passato non si salva il presente».
Il padrone di casa Paolo Messa richiama tutti all’ordine e però i giornalisti non mollano. Il 1° luglio sarà in piazza con Giuliano Pisapia? «Vedremo, non ne so niente, mi sono fermato, non parlo più di politica italiana». Non sa che l’ex sindaco di Milano, come Bersani, la ritiene l’unico in grado di federare il centrosinistra? «Non è vero, non sono l’unico possibile, chi lo pensa sbaglia». Non le dispiace essere tirato per la giacca? «La vanità ha un suo scopo. E poi vedrete, fra due-tre giorni smettono di tirare... Io sono un pensionato, un felice pensionato».
La moglie Flavia resta un passo indietro, Romano sorride e stringe mani. Gli chiedono se il libro non sia un programma di governo: «Mi piacerebbe che fosse un piano di governo e che qualcuno lo potesse applicare. Ma non io». L’ultima domanda è sui leader del centrosinistra, sul se e sul come Renzi, Pisapia, Bersani, Speranza, D’Alema e Fratoianni riusciranno a mettersi insieme: «Chi sarà in grado di unire il centrosinistra? Nessun problema, si uniscono da soli».
E mentre il fondatore si tira fuori, il centrosinistra si spacca ancor prima di unirsi. Mdp non voterà la fiducia al governo sulla manovrina per non dare il via libera ai voucher. Invece sei senatori vicini a Pisapia — Bencini, Molinari, Orellana, Romani, Stefano, Uras — confermano la fiducia a Gentiloni per non tagliare i ponti con il Pd di Renzi, «solido alleato in difficili prove di governo che abbiamo affrontato positivamente in regioni e città».
Una mano tesa a Renzi, il quale però non la stringe. Intervistato a «Otto e Mezzo», su La7, il leader dem prende distanze dalla manifestazione di Pisapia in piazza Santi Apostoli: «Il 1° luglio sono al concerto di Vasco Rossi. Da Pisapia non vado perché non sono stato invitato all’iniziativa di un altro partito». E spiega: «Alleanze sui contenuti, non sui nomi». Il gioco dei veti incrociati continua. Renzi nega di averne mai posti, per lui «Bersani e altri se ne sono andati per non fare le primarie». La replica del leader di Mdp non è una porta aperta. Al Pd Bersani chiede «solo un programma chiaro, che sia in discontinuità con le leggi di Renzi: «Non può essere lui il testimonial». Infine un avviso ai compagni di viaggio: «Il 1° luglio parte il treno ed è l’ultima chiamata per il centrosinistra».
E ieri la direzione del Pd si è riunita per approvare il bilancio. O meglio, quello che l’ Huff post chiama il «disastro finanziario» del Nazareno. Nove milioni di buco per le spese della campagna referendaria. Ma il tesoriere Bonifazi è tranquillo: «Il piano di rientro c’è».
Repubblica 15.6.17
Il Professore incontra Pisapia e Matteo ora teme la spallata
Ieri l’ultimo colloquio tra i due: “Ma il voto non è più alle porte, ogni benedizione è prematura”. I renziani: “Sperano in un flop ai ballottaggi per silurarci”
Goffredo De Marchis
ROMA. Ramoscello d’ulivo stretto in una mano, Romano Prodi si presenta puntuale al Centro studi americani in Via Caetani. Ha appena preso un caffè (lungo) con Giuliano Pisapia, anche lui a Roma. Solo l’ultimo di molti incontri riservati avvenuti in questi giorni. A conferma che il Professore è pienamente dentro il progetto di centrosinistra portato avanti dall’ex sindaco di Milano. Progetto alternativo a Renzi, al Pd e che per i renziani va intepretato in un solo modo: «Altro che ricerca della coalizione. È solo un tentativo di spallata a Matteo».
Prodi è protagonista assoluto, ormai neanche tanto occulto, dell’unità delle sigle fuori dal Pd, ne è consulente principe, nume tutelare, anche se non sarà il candidato premier per la terza volta.
Se il primo luglio, alla manifestazione chiamata a riunire per la prima volta tutti i potenziali alleati di Pisapia, non lo vedremo a Piazza Santi Apostoli, come è praticamente certo, non dovremo tradurre l’assenza come una presa di distanza. Tutt’altro. «La nascita di questo nuovo soggetto adesso prende un ritmo più sincopato - ha spiegato Prodi ai suoi interlocutori -. Non ci sono le elezioni anticipate alle porte. Ogni tipo di benedizione perciò sarebbe prematura. Tocca a Giuliano. Deve cominciare un giro per l’Italia e farsi conoscere». Prodi ha dunque riconosciuto nell’avvocato milanese il suo successore alla guida del campo di centrosinistra. Lui sarà il nuovo federatore e nelle intenzioni dei compagni di strada il candidato premier.
Alla presentazione romana del libro di Prodi “Il piano inclinato” si scorgono alcune facce conosciute. In terza fila siede Nino Rizzo Nervo, braccio destro di Paolo Gentiloni e vicesegretario di Palazzo Chigi. Più defilato, davanti al camino, si accomoda Paolo Cirino Pomicino con il suo solito sorriso beffardo. Vicino a lui c’è Flavia Prodi, la moglie del Professore.
Il parterre non dice molto. Dicono di più le grandi manovre intorno al Campo Progressista che adesso pensa di poter mettere nel mirino addirittura il Partito democratico. Ovvero, minare da dentro la roccaforte di Matteo Renzi, appena riconquistata con i voti di due milioni di elettori. Possibile? «La partita dentro al Pd è aperta», dice uno degli sherpa dell’operazione. Lo sarà ancora di più se il 25 giugno, come è possibile, come temono a Largo del Nazareno, la sfida dei ballottaggi risulterà una Caporetto dem. Non si è parla più soltanto dell’arrivo di Gianni Cuperlo e della sua corrente, evento quasi scontato a sentire i sostenitori di Pisapia. E nemmeno dei segnali di apertura dell’area Orlando. Il 25 giugno potrebbe certificare uno scollamento totale del popolo dem dal suo partito, avviare un dibattito interno, erodere il consenso di Renzi che pure è stato confermato appena un mese e mezzo fa.
I renziani non hanno dubbi: l’operazione Pisapia non ha nulla a che fare con una politica delle alleanze. Punta a un trofeo molto alto e allo stesso tempo molto più terra terra e più significativo : la caduta del segretario. Ieri era girata la voce di un incontro tra Prodi e Renzi, oggi Roma. Una bufala, non è previsto nessun colloquio. Non è in programma e non ci sarà.
Niente di sorprendente, se non fosse per come i renziani commentano l’inesistente faccia a faccia. Come se dicessero: e per scambiarsi quale parere? Cioè: è tutto abbastanza chiaro, Prodi lavora contro di noi. Punto. La verità è che i rapporti tra il leader del Pd e il fondatore del Pd non sono mai stati così tesi.
Ormai nell’area Pisapia cresce il fronte di chi vede una sola via d’uscita per evitare lo scontro: la rinuncia di Renzi alla candidatura premier, il passaggio del testimone a qualcun altro. Confermando così i sospetti del segretario, di una manovra che ha un solo bersaglio: lui stesso. «I seguaci di Pisapia vogliono la spallata», ripetono dalle parti del Nazareno. E attendono il 25 giugno per raccogliere nuove forze per lo spintone. D’altronde non si può certo dire che Pier Luigi Bersani neghi il concetto. Anzi, lo declina in tutte le salse: «Tutto si può fare nel campo del centrosinistra. Tutto. Ma senza Renzi».
Il Fatto 15.6.17
Il despacito estivo tra Renzi e Pisapia
Martellante - Il tormentone sull’unione del Pd con Campo progressista. Con Prodi e magari anche l’Iri
di Daniela Ranieri
La vita degli italiani, attualmente, è funestata da due tormentoni estivi: Despacito e Giuliano Pisapia. L’uno, la hit latino-americana, ci entra nelle orecchie agli aperitivi, in palestra, nei bar; l’altro, in attesa che arrivi sulle spiagge e venga gridato da un ombrellone all’altro, per ora è confinato tra chi conduce l’esistenza grama degli osservatori politici e dei lettori di giornali.
Ultimamente pare che non si possa andare avanti senza capire che fine farà l’appello lanciato da Pisapia a Renzi affinché il Pd si unisca al suo Campo progressista, o affinché si uniscano tutti in un Campo progressista, ancora non è chiaro. Pendiamo dalle labbra di Matteo per cogliere un sì, o un no, qualcosa che ci dia una speranza o il definitivo permesso per mettere fine alle nostre sofferenze con una capsula di cianuro.
Appena si sono accorti che la vita psichica e politica dagli italiani era posseduta da questa problematica, i giornali hanno preso a dedicarle almeno due articoli al giorno e la settimana scorsa tre prime pagine, sotto le notizie del terrorismo. Venerdì: “Renzi: ‘Al voto nel 2018, apro a Pisapia’” (Repubblica). Sabato: “Renzi: ‘Con Pisapia possiamo arrivare al 40%’” (Corriere). Domenica: “Pisapia gela Renzi: ‘Ora non c’è dialogo’” (Repubblica). E ieri: “Renzi: ‘Pronti alle alleanze ma non rifarò l’Unione di Prodi’”. Pisapia: “Noi siamo alternativi al Pd”. (Repubblica)
Ora, noi siamo gente paziente, ma martedì da Floris era ospite Pisapia, e speravamo di chiudere la faccenda. “Non si può passare da un’ora all’altra da Berlusconi a Pisapia”, ha detto Pisapia con piglio, per farci capire chi è Renzi, lui a noi. Che non solo lo abbiamo chiaro, ma ci chiediamo come si possa passare dall’essere anti-berlusconiani al volersi alleare con Renzi. Ma poi ha aggiunto: “Noi stiamo facendo un progetto alternativo al Pd perché il Pd non ci ha dato una risposta”, dal che abbiamo capito che Pisapia, brava persona e bravo sindaco di Milano, forse non rappresenta nessuno a livello nazionale, ma è quel che si dice un osso duro.
All’indomani del referendum (non è un modo di dire: proprio l’indomani), a cui ha votato Sì, Pisapia propose su Repubblica
un’alleanza tra sinistra “settarista” (cit. Michele Serra) e Renzi depurato da Verdini-Alfano, e chiamò la chimera “Campo progressista”. Ci sfuggiva già allora la logica per la quale uno che fino a un minuto prima degli exit poll non s’era fatto scrupolo di dividere sinistra e Paese potesse essere lo stesso incaricato di riunirli.
Ma sentite come ha risposto Pisapia a Mario Giordano, che gli ha chiesto cosa sia questo Campo progressita: “Sono reti locali capaci di dare una svolta nel campo della politica”. Va bene, ma quale? “Vivere la politica come servizio”. Sì, ma con quali idee? “Dico a Renzi di guardare un po’ a sinistra”. Peccato che Renzi stia pensando di federarsi con “quelli che hanno votato Sì al referendum”, quindi non Bersani ma, ad esempio Alfano, Tosi, Urbani, Pera, Cicchitto.
Qui Pisapia si è incartato in un buco nero di civil-sinistrese borghese dal quale è riemerso con: “Bisogna recuperare 3 milioni di elettori persi dal Pd”. Ma quei 3 milioni se ne sono andati proprio perché c’era Renzi. E si terrebbero lontani da qualunque alleanza preveda Renzi come leader. Infatti, che Renzi si sottoponga a primarie di coalizione con chicchessia, può crederlo solo chi nutre molti sogni o molto cinismo. Non sarà piuttosto che dacché è saltato l’accordo sulla legge elettorale sono svaniti i sogni che Renzi aveva fatto balenare di una coalizione naturale di liste di sinistra? Pisapia lo sa, e da Floris ha avuto il colpo di genio: il “mastice” di questa unione, ha detto, potrebbe essere… Chi, chi? “Prodi”. Prodi? Sì, “anche come presidente del Consiglio”. In effetti anche noi avevamo in mente un giovanotto con solo 54 anni di carriera politica sulle spalle per riunire la sinistra mutata dal renzismo. Ah ma ce lo poteva dire subito. C’era bisogno del Campo progressista, delle reti locali, delle energie giovani eccetera, per rifare l’Ulivo? Non si potevano semplicemente azzerare gli ultimi tre anni, il Jobs Act, lo Sblocca Italia, la Buona Scuola, i tagli alla Sanità e, già che ci siamo, riabiliare quel bravuomo di B.? Ma a questo punto rivogliamo pure L’Iri e la Cassa del Mezzogiorno.
Corriere 15.6.17
Mille giorni sprecati per un compromesso al ribasso
La riforma del processo penale
di Luigi Ferrarella
Allegria: con 18 mesi in più dopo la sentenza di tribunale e altri 18 dopo quella d’appello, prima di prescriversi un processo per corruzione potrà durare quasi vent’anni. C’è da stappare lo champagne?
Magari sì, per chi intende le «riforme» come medagliette da appuntarsi su vestiti rattoppati alla vigilia (domani) della periodica tirata d’orecchie europea dell’Ocse; o come segnaletica stradale da spendere ai semafori del mercato elettorale (come negli aumenti di pena per furti e rapine). Magari no, invece, per le vittime di reato più interessate a sentenze in tempi accettabili, e per gli imputati immeritevoli di restare appesi a vita a un processo. Il 70% di 1 milione e 550 mila prescrizioni in 10 anni è maturato in indagini, e 4 distretti di Corte d’Appello (22% Napoli, 12% Roma, e 7,5% l’uno Torino e Venezia) producono da soli quasi metà di tutte le prescrizioni d’Italia, mentre 70 tribunali su 135 stanno sotto il 3%. Eppure non si è avuto il coraggio di puntare su una prescrizione del reato non troppo lunga, ma combinata dopo la sentenza di primo grado a uno stop definitivo della clessidra, temperato poi da rimedi compensativi (sconto sulla pena in caso di condanna, indennizzo in caso di assoluzione) per evitare che gli imputati restino in indefinita attesa di un verdetto per colpa non loro ma di patologiche lentezze giudiziarie.
Il ritornello di ogni compromesso al ribasso recita che il testo votato sarebbe il più avanzato equilibrio raggiungibile negli attuali rapporti di forza parlamentari. Ma la verità è che riforme davvero ottime — come l’ordinamento penitenziario frutto del lavoro sul carcere della commissione Giostra, o la semplificazione delle impugnazioni mutuata dalla commissione Canzio — sono state usate come norme «ostaggio» da opporre al fuoco amico nella maggioranza, e come norme «digestivo» per farne invece trangugiare altre discutibili. È il caso della delega sulle intercettazioni: ondivaga quando tra i concetti di «irrilevante» e «non pertinente» perde il «manifestamente» contenuto invece nelle tanto lodate circolari dei capi pm; confusa quando non fa più capire come avverrà il contradittorio con i difensori sullo stralcio delle intercettazioni irrilevanti, ora che il testo non parla più di «udienza»-stralcio; e talmente generica, laddove prevede «prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni», che tutti sarebbero insorti se a scriverla fosse stato Berlusconi.
Ma è il caso anche dell’estensione dei processi a distanza in videoconferenza, che oggettivamente sacrifica parte del margine di manovra del diritto di difesa, specie se si fa la legge prima che siano attrezzati i tribunali dove oggi penzolano moncherini di rari microfoni gracchianti. Ed è il caso persino del problema delle indagini scadute che il pm né mandi a processo né archivi: «malattia» reale, che le toghe sbagliano a vivere come lesa maestà, ma che la legge affronta con la «medicina» (controproducente come tutti i rigidi automatismi) dell’avocazione allo scadere di 3 mesi, destinata a risolversi nel mero spostamento di carte dalle Procure alle Procure Generali: quando, invece, ben si sarebbe potuto pensare a un potere del gip di valutare di volta in volta la fondatezza delle contingenze addotte dal pm per chiedergli un (limitato e variabile) tempo supplementare.
Su questo, come su altri punti, sarebbe bastata una paziente manutenzione. Invece sia al Senato sia ieri alla Camera il governo ha imposto di nuovo la camicia di forza del voto di fiducia sul non-senso di 95 commi stipati (sui più eterogenei temi) in un unico articolo. E pensare che, dal primo annuncio nel Consiglio dei ministri del 30 agosto 2014, sono passati 1.018 giorni: una media di 10 giorni interi per ciascun comma, a volerli discutere nel merito.
Il Fatto 15.6.17
Giustizia è sfatta: bavaglio, prescrizione e blocca-processi
I pm dovranno cestinare le intercettazioni “irrilevanti” anche se di interesse pubblico, niente trojan anti-corrotti
di Antonella Mascali
I magistrati la considerano troppo blanda se non “dannosa”(copyright Piercamillo Davigo). Gli avvocati la considerano un giro di vite. Ma – nonostante la bocciatura dei protagonisti della giustizia, sia pure per motivi diversi – ieri c’è stato il sì definitivo della Camera alla riforma penale. Anche a Montecitorio, come a marzo scorso al Senato, con tanto di fiducia. “Il ricorso alla fiducia è una forzatura”, è il commento lapidario dell’Anm, il sindacato delle toghe, che denuncia: “Non c’è stato alcun dialogo propositivo, è stato interrotto un percorso che avrebbe potuto dare un reale contributo alla macchina della giustizia, migliorandone l’efficienza”. Dunque, via libera alla modifica all’acqua di rose della prescrizione e alla stretta sulle intercettazioni, grazie alla delega senza confini per il governo. Ma il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il mediatore per eccellenza con i centristi e con i renziani, è contento nonostante quella che è venuta fuori sia una riforma frutto di diverse puntate al ribasso. Tanto che al Senato il relatore Felice Casson, passato con Mdp, da “tecnico”, ha detto, non l’ha votata perché il testo “è diventato mediocre”. Questi i punti principali della riforma.
Intercettazioni Il ministro Orlando ha garantito che non ci sarà il bavaglio per i giornalisti. Forse formalmente no (dobbiamo aspettare il testo di legge) ma di fatto ci sarà, dal momento in cui è previsto che i pm devono “cestinare” intercettazioni ritenute ininfluenti per le inchieste e devono custodirle in una cassaforte. Potranno essere ascoltate dalle parti ma non duplicate. Quello che potrebbe essere irrilevante penalmente, però, può essere di grande rilievo pubblico ma i cittadini non potranno essere informati. Ed è normale che un magistrato, assalito dai dubbi sul depositare o meno un’intercettazione che magari non ha un rilievo penale, però è utile a ricostruire il contesto dell’accusa, tenderà ad accantonarla. Dovranno pure essere ridotti i costi delle intercettazioni.
Trojan Si mettono anche dei paletti sull’uso del trojan, l’intrusore informatico, vietato per colpire i corrotti. La Cassazione ha confermato l’uso per i reati di mafia e terrorismo ma anche per altri reati associativi. Invece il governo, con la delega sulle intercettazioni, prevede l’uso del trojan solo per mafia e terrorismo. Questo vuol dire che i magistrati non potranno più usare, a differenza di oggi, l’intrusore informatico per tutti i reati commessi dai colletti bianchi in forma associata: corruzione, peculato, truffa. E il trojan è fondamentale per colpire la corruzione dato che, nonostante i magistrati l’abbiano chiesto, non sono possibili le operazioni sotto copertura e non c’è una legge premiale per chi collabora. Insomma, le pene più severe per i corrotti, se non si hanno gli strumenti per perseguirli, sono una bandierina.
Prescrizione Secondo il testo della Camera approvato due anni fa, la prescrizione scattava dopo la condanna di primo grado a condizione che l’appello si celebrasse in due anni e la Cassazione si pronunciasse entro uno. Poi la legge è arrivata al Senato e lì i centristi hanno minacciato la crisi se non ci fosse stato un ulteriore ammorbidimento rispetto a quanto chiesto dai magistrati: blocco definitivo almeno dopo il primo grado, come avviene in tanti altri Paesi. Quindi al Senato e ieri, definitivamente alla Camera, è stata votata la prescrizione che si congela dopo il primo grado ma a patto che l’Appello e la Cassazione si concludano entro 18 mesi ciascuno. Peccato che i 6 mesi sottratti all’Appello siano preziosi dato che la maggioranza dei processi si prescrivono proprio in secondo grado.
Avocazione Tra i punti più critici, secondo l’Anm, ce n’è uno che può paralizzare i processi. Si tratta dell’avocazione dei fascicoli da parte del procuratore generale se i pm non chiedono, entro 3 mesi dalla fine dell’indagine, il rinvio a giudizio o l’archiviazione: migliaia di procedimenti penali passeranno, pertanto, dalle procure alle procure generali. L’ex segretario dell’Anm Francesco Minisci, pm antimafia a Roma, al Fatto ha citato l’esempio della procura della Capitale per far capire le conseguenze di questa legge: “Siamo 90 pm, 9 procuratori aggiunti e il procuratore. Con questa nuova norma il lavoro che non riescono a fare 100 pm, dovranno farlo 23 magistrati della procura generale dove si creerà un imbuto e i processi andranno tutti in prescrizione”.
Notifiche elettroniche Non saranno possibili, come ordinato dagli alfaniani, accontentati dal Pd: nell’era di internet si faranno ancora le notifiche a mano agli imputati e agli indagati, anche per il rinvio di un’udienza. Con tutti gli sprechi del caso e a beneficio della prescrizione. Invece, si sarebbero potute fare via mail solo ai difensori.
Voto di scambio Pene più alte per il voto di scambio politico mafioso che passa dai 4-10 ai 6-12 anni. Pene più severe anche per furto in abitazione, con scippo e strappo.
Estinzione del reato e rito abbreviato Alcuni reati perseguibili a querela di parte, come diffamazione o truffa, si possono estinguere se si paga il risarcimento o se si elimina il danno del reato. Resta ancora la possibilità di accedere al rito abbreviato (riduzione di un quarto della pena) per reati gravi.
di Antonella Mascali
Il Sole 15.6.17
Passi indietro
Il rischio di processi infinit
Filippo Sgubbi
Università Luiss-Roma
Il disegno di legge di riforma del diritto e della procedura penale è stato definitivamente approvato, e con uso della fiducia: dopo la promulgazione da parte del Presidente della Repubblica diventerà legge.
A nulla sono valsi gli interventi provenienti da varie fonti (docenti, operatori, Unione Camere penali) volti a richiamare il legislatore - Governo e Parlamento - alle proprie responsabilità istituzionali.
Ma è risaputo che la materia penale è da tempo entrata nel dibattito politico come tema primario: e questo non giova certo alla redazione competente e razionale dei testi di legge. Il che costituisce un serio pregiudizio in termini di certezza del diritto, proprio in un ambito in cui la sicurezza dei confini fra lecito e illecito e le garanzie del giusto e celere processo dovrebbero essere massime.
Dal dibattito parlamentare è così uscito un provvedimento estremamente complesso, disorganico, contraddittorio e non coordinato con il sistema normativo vigente.
La nuova disciplina della prescrizione porta a un allungamento consistente della sua durata: al punto che per taluni reati (dalla corruzione, alla violenza sessuale, alla pedopornografia) l’imputato potrà restare assoggettato – personalmente e con i propri beni sequestrati - a un procedimento penale per una larga parte della propria vita. Certo, si tratta di reati gravi, ma è egualmente iniqua l’irragionevole durata del processo penale.
Sul piano processuale, la riforma, appena approvata dalla Camera dei deputati, lo ripetiamo, in via definitiva, è frammentaria e decisamente complicata: anche a causa di una tecnica legislativa discutibile, seppur ormai ampiamente praticata: inserire o abrogare commi o parti di testo all’interno di singoli commi, col risultato di disorientare perfino l’addetto ai lavori.
Comunque, in questo contesto, emergono alcune novità meritevoli di segnalazione.
La più eclatante è la reintroduzione del cosiddetto patteggiamento in appello: uno strumento deflattivo che aveva dato buona prova di sé, ma che era stato abrogato una decina di anni fa sull’onda emotiva di una qualche vicenda processuale; non era scomparso del tutto, perché nella pratica era rimasto occasionalmente in vita, seppur in modo informale e di fatto.
Il meccanismo è semplice: la parte rinuncia a taluni motivi concordando con la Procura Generale l’accoglimento di altri motivi d’appello, generalmente concernenti la quantificazione della pena; determinando con ciò uno sfoltimento dei giudizi d’appello.
Ma vi sono altre disposizioni che è opportuno segnalare per le loro potenzialità applicative. Mi riferisco alle modifiche al rito abbreviato e, in particolare all’articolo 438 del Codice di procedura penale: la riforma stabilisce che la richiesta di rito abbreviato determina la sanatoria delle nullità (salvo le nullità assolute) e preclude ogni questione sulla competenza per territorio del giudice. Il che comporta un riflesso significativo sulla conduzione dell’udienza preliminare, che deve diventare necessariamente “bifasica”, contrariamente alle tendenze dominanti odierne. Si impone quindi che il giudice dell’udienza preliminare (Gup) decida le questioni di nullità, inutilizzabilità e competenza prima che l’imputato richieda il rito. Altrimenti l’accesso al rito significherebbe un sacrificio indebito di garanzie processuali, con rinuncia a una serie di questioni che attengono alla utilizzabilità degli atti e attinenti all’individuazione del giudice naturale.
Altre disposizioni concernono la disciplina delle impugnazioni: mirano a imporre una redazione dei motivi di gravame molto più articolata e precisa e precludono alla parte personalmente di provvedere al ricorso per Cassazione.
Da ultimo, ci si deve soffermare sulla disciplina del processo a distanza.
Le nuove disposizioni estendono decisamente questa modalità di celebrazione del processo penale e arrivano al punto di consentire alle parti e ai loro difensori di intervenire a distanza, «assumendosi l’onere dei costi del collegamento». Il processo può svolgersi così perfino in un’aula vuota, alla sola presenza dei giudici e del pubblico ministero.
Le decise critiche che sono state rivolte a questa parte della riforma sono ampiamente giustificate: risultano obliterati alcuni canoni fondamentali del giusto processo, quali il principio del contraddittorio, il principio dell’immediatezza e anche il principio costituzionale del diritto di difesa.
Il Sole 15.6.17
Effetto condanna sulla prescrizione: fino a tre anni in più
di Giovanni Negri
Deleghe al Governo per rivedere la disciplina sulle intercettazioni e sui captatori informatici
Alla fine ricorda un po’ le finanziarie dei tempi d’oro, un articolo solo, ma 95 commi. Per toccare tutta la giustizia penale, dal processo ai reati, passando per il carcere. Il disegno di legge approvato ieri sera definitivamente dalla Camera è assai composito, un moloch all’interno del quale misure subito in vigore si mischiano a deleghe che rinviano (forse) a un futuro prossimo. Di certo a cambiare saranno molti aspetti cruciali, sui quali da tempo forze politiche e operatori del diritto dibattono e si scontrano.
In primo luogo, inevitabile, la prescrizione. Il disegno di legge sceglie di non modificare la ex Cirielli nella determinazione dei termini massimi; nello stesso tempo evita di seguire le sollecitazioni soprattutto della magistratura per un blocco del decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale, manifestazione della volontà dello Stato di perseguire il reato.
Percorre invece una via intermedia, che punta sull’introduzione di nuove ipotesi di sospensione. A partire dai reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge, diventa possibile uno stop del decorso della prescrizione per 18 mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e per altrettanti dopo la condanna in appello. Al netto di un altra pausa di 6 mesi in caso di rogatoria, oggi non prevista, la sospensione non sarà però valida in caso di assoluzione e il periodo oggetto del blocco verrà riconteggiato se nel grado successivo di giudizio il verdetto è stato di proscioglimento.
Per i reati di corruzione (propria e impropria), corruzione in atti giudiziari, induzione indebita e truffa aggravata per conseguire erogazioni pubbliche, reati che possono emergere molto tempo dopo essere stati commessi, il termine di prescrizione massimo sarà pari alla pena massima aumentata della metà (anziché un quarto come per i reati di minor gravità).
Un insieme di disposizioni affidate a una delega da esercitare entro 3 mesi caratterizza poi la “manovra” sulle intercettazioni. Il futuro decreto delegato, sul quale sarà a breve al lavoro una commissione del ministero della Giustizia, ha come obiettivo quello di evitare la pubblicazione di conversazioni non rilevanti per l’attività d’indagine. soprattutto quando riguardano persone a essa del tutto estranee.
In questo senso si prevede che per la selezione del materiale da inviare al giudice a sostegno della richiesta di misura cautelare, il pubblico ministero dovrà assicurare la riservatezza anche degli atti contenenti intercettazioni inutilizzabili, irrilevanti o su dati sensibili che non riguardano l’accertamento delle responsabilità per i reati per cui si procede o per altri reati emersi nello stesso procedimento o nel corso delle indagini. Questi atti dovranno essere custoditi in un archivio riservato, con facoltà di esame e ascolto, ma non di copia, da parte dei difensori e del giudice. Quattro gli anni di carcere per il nuovo reato di divulgazione di intercettazioni ottenuto con frode.
Con la delega andrà anche disciplinato l’utilizo dei trojan horses o captatori informatici, ammettendone comunque l’impiego quando si procede per mafia, terrorismo o criminalità organizzata.
Molto contestato, soprattutto dagli avvocati, che vi vedono lo stigma dell’impronta autoritaria che caratterizza, a loro giudizio, l’intero provvedimento, anche il pacchetto di norme che allarga in maniera significativa la possibilità di partecipazione a distanza al procedimento, anche al di fuori dei casi in cui questa è obbligatoria (mafia, terrorismo). Il giudice potrà così disporre la partecipazione a distanza per ragioni di sicurezza, per la complessità del dibattimento o per la testimonianza di un detenuto.
Tra le norme subito in vigore, c’è poi l’aumento delle pene minima per furto in abitazione (da 1-6 anni si passa a 3-6) e furto aggravato (da 1-6 a 2-6), per rapina semplice (da 3-10 a 4-10) e aggravata (da 4 anni e 6 mesi-20 a 5-20 se monoaggravata e a 6-20 se pluriaggravata) e per estorsione aggravata (da 6-20 a 7-20). Inasprito anche il trattamento per il voto di scambio che dagli attuali 4-10 anni passerà a 6-12 anni di reclusione.
Introdotta poi una nuova causa di estinzione del reato per effetto di condotte riparatorie (restituzione, risarcimento). Potrà incidere però sul solo perimetro dei reati procedibili a querela (oggetto di remissione). Di norma la nuova causa dovrà essere applicata prima dell’apertura del dibattimento.
il manifesto 15.6.17
Riforma penale con la fiducia senza i voti di alfaniani e bersaniani
Ap giura di votare a favore ma sparisce al momento decisivo (e un ministro vota anche contro). Mdp denuncia il tentativo di fare scherzi al governo, ma nel passaggio decisivo lo sostiene con solo la metà del gruppo
di Andrea Fabozzi
Una maggioranza scarsa e una fiducia piccola piccola, la più stretta per il governo Gentiloni alla camera (escludendo quella sulla manovrina, alla quale erano dichiaratamente mancati tutti i voti di Mdp). È passata così, e sarà legge dello stato dopo la firma di Mattarella, la riforma del processo penale. Contiene anche le deleghe al governo per intervenire sulle intercettazioni (entro tre mesi, e il ministro Orlando intende farlo anche prima) e sull’ordinamento penitenziario (entro un anno, le intenzioni del ministro sono le stesse ma non potrà essere altrettanto rapido).
La legge è un contenitore (un solo articolo con 95 commi) che mette assieme diverse proposte dall’iter tormentato nella legislatura. Si va da alcune misure deflattive del carico di processi (come l’estinzione mediante riparazione dei reati procedibili a querela, nuove regole per le impugnazioni, una stretta sui ricorsi in Cassazione) alla facilitazione del ricorso alle misure alternative al carcere, al (contraddittorio) aumento delle pene per i reati di furto e rapina, alla riforma della prescrizione che sostanzialmente sarà sospesa (ma per i reati commessi da dopo l’entrata in vigore della legge) per un anno e mezzo dopo il primo grado e un altro anno e mezzo dopo l’appello – solo però in caso di condanna. Un’altra novità è il potere del procuratore generale di avocare al suo ufficio, quindi presso le corti d’appello, i fascicoli per i quali il pm non ha chiesto il rinvio a giudizio o l’archiviazione in tre mesi dalla chiusura delle indagini. Novità contro la quale è tornata a protestare l’Associazione magistrati, prevedendo «gravi disservizi negli uffici»: quelli dei pg sono assai meno dotati di quelli dei pm. L’Anm critica anche la delega sulle intercettazioni, non tanto per le norme che cercheranno di limitare la diffusione dei colloqui non rilevanti, quanto per i nuovi limiti all’uso dei software spia (da adesso riservati alle indagini per mafia e terrorismo).
«Dopo un lungo percorso parlamentare è una giornata importante per la giustizia italiana», festeggia finalmente Orlando, che non sempre ha avvertito il sostegno di Renzi e del Pd durante tre anni di trattative sulla legge. Eppure questa, come tante in questa legislatura alla camera dove pesa l’incostituzionale premio di maggioranza, è una legge votata essenzialmente dal Pd. Le trattative il ministro ha dovuto farle con Alfano e il suo gruppo, i quali alla fine non hanno sabotato ma neppure aderito.
Su 267 voti favorevoli al provvedimento, 239 sono del Pd (e mancano all’appello una quarantina di voti renziani). Nel gruppo di Alfano, dopo una sofferta dichiarazione di voto a favore («c’è un po’ di dolce e un po’ di aspro», ha spiegato Adornato, indicando tra le cose aspre la prescrizione troppo lunga e la videoconferenza per gli imputati), hanno votato a favore solo in 7 su 26. Quasi tutti in missione o assenti al momento del voto (anche lo stesso Adornato è risultato assente) e un contrario di peso, il ministro agli affari regionali Costa (ex vice alla giustizia): «La riforma spinge verso un illiberale processo perpetuo», ha detto.
Più o meno la stessa linea aveva seguito Ap in occasione del precedente voto di fiducia, che è servito al governo per mettere al riparo la legge dai voti segreti: un terzo del gruppo centrista non ha votato la fiducia al suo governo, come pure aveva garantito. Ma il gruppo dei bersaniani ha fatto anche di più. Anche i deputati Mdp (ma con motivazioni opposte rispetto agli alfaniani) non hanno troppo apprezzato la legge, dichiarando alla fine un voto di astensione. Sulla fiducia invece nessun dubbio: «La si voterà perché non ci prestiamo a giochi che possano mettere in difficoltà il governo», ha detto il deputato Zoggia. Poi però metà gruppo, 20 deputati su 40, la fiducia non l’ha votata, risultando assente nel momento della chiama dei parlamentari. Consapevoli loro come tutti che la sovrabbondanza della delegazione Pd tiene al riparo il governo da qualsiasi incidente alla camera.
Almeno nel voto palese. Quello segreto, come ha dimostrato la legge elettorale, è tutta un’altra storia.
Corriere 15.6.17
Uno scambio elettorale tra le destre e il movimento
di Massimo Franco
Per il momento, a beneficiare della virata anti-immigrati non sarà il Movimento 5 Stelle che l’ha compiuta, ma probabilmente il centrodestra. La controprova si avrà ai ballottaggi del 25 giugno per le elezioni comunali. Il M5S sarà assente quasi del tutto. Dietro la mancanza di indicazioni per i candidati del centrosinistra o del centrodestra, si indovina la preferenza per i secondi. L’ostilità contro il Pd è più forte di ogni preclusione ideologica. E dopo l’irritazione iniziale, Lega e FdI sembrano gradire l’offensiva «d’ordine» della sindaca di Roma, Virginia Raggi.
La componente più radicale del centrodestra sente di poter sfruttare la deriva «leghista» dei Cinque Stelle per ereditare una parte dei loro voti: un serbatoio forse decisivo contro la sinistra. La possibilità che alle Politiche, a donare sangue e elettori non saranno più i seguaci di Beppe Grillo a Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, ma il contrario, passa in secondo piano. L’imperativo è battere un Pd che il centrodestra vede come avversario immediato, il M5S come concorrente in prospettiva sul piano nazionale. Se poi da queste affinità venate di xenofobia nasceranno anche alleanze, si vedrà.
Grillo si muove come se ritenesse davvero di poter avere la maggioranza relativa dei voti e dei seggi in Parlamento; dunque, di ricevere per uno dei suoi l’incarico di formare un governo dal capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il tema dell’immigrazione candida i Cinque Stelle all’alleanza con il Carroccio di Salvini: ma dettando loro le condizioni. E su altri temi potrebbe emergere una convergenza con frammenti di una sinistra in embrione, alternativa al Pd. Quello che si indovina è la scommessa di Grillo sulla propria centralità dopo il voto politico: con tutte le incognite che implica.
L’incontro di ieri del vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, con gli ambasciatori dei ventisette Paesi dell’Ue non ha diradato le perplessità sull’antieuropeismo. Il Movimento cerca di essere rassicurante. Ma su moneta unica, Nato, adesione alle politiche della Commissione Ue rimane sul vago: un’ambiguità che nasce dalla sua storia e dall’esigenza di non disorientare un elettorato abituato al terzomondismo, a toni anti-occidentali e filo-russi.
C’è da scommettere che, se la marcia di avvicinamento al potere diventasse concreta, si assisterebbe a nuove svolte, lo strappo sull’immigrazione è rivelatore, come lo sono il «no» alla riforma del codice penale e l’astensione in Senato, che equivale al voto contrario, sulla legge sullo «jus soli», il diritto di cittadinanza per gli stranieri nati in Italia: un «no» condiviso con il centrodestra. Il M5S è accusato dalla sinistra di inseguire i peggiori istinti di un’Italia spaventata. Ma la corsa a destra non si fermerà per questo.
Repubblica
Il medioevo di Grillo
di Ezio Mauro
NON è automaticamente di destra il tema dell’immigrazione, perché qualunque democrazia deve rispondere alle inquietudini dei suoi cittadini, soprattutto i più fragili e impauriti. È sicuramente di destra il modo, il tono, la postura politica con cui il tema è stato estratto da qualche alambicco della Casaleggio e associati, collegato automaticamente alla sicurezza e trasformato da Grillo nel nuovo manifesto identitario dei Cinquestelle, con la firma gregaria della sindaca di Roma Virginia Raggi.
Quando chiede al prefetto, nell’intervallo tra i due turni elettorali, di bloccare l’arrivo dei migranti nella capitale denunciando un’«evidente pressione » con «devastanti conseguenze », Raggi ingigantisce un fantasma sociale che non trova corpo né nei numeri (8600 richiedenti asilo tra Roma e provincia, contro gli 11mila programmati) né nella coscienza della comunità cittadina, né nella vita concreta e reale della capitale.
SI TRATTA dunque del calcolo preciso di un investimento politico sulla paura, evocata strumentalmente per poterla combattere, regalando al movimento un profilo artificiale di governo che compensi il vuoto amministrativo di questi mesi.
Quando Grillo rilancia nel vangelo del blog la svolta romana, e la arricchisce aggiungendo agli immigrati i rom, le tendopoli, i mendicanti, disegna un paesaggio spaventato che evoca una politica d’ordine, allineando — forse inconsapevolmente — tutte le figure simboliche della devianza sociale che una politica autoritaria ha sempre e dovunque scelto come bersagli, trasformandoli in colpevoli, e additandoli come avversari ai ceti sociali garantiti, scelti come base di riferimento, e dunque rassicurati. Gruppi sociali marginali, scarti umani, soggetti esclusi, corpi che chiedono di sopravvivere: ridotti tutti insieme a pura quantità da respingere — i moderni “banditi” — , annullando storie, biografie, geografie, come se il valore di una civiltà contasse esclusivamente per gli inclusi, e soltanto a danno degli altri.
Di più: come se si fosse spezzato il concetto di società, lasciando precipitare nella deriva finale la parte sconfitta, i perdenti della globalizzazione, per i quali si sancisce l’impossibilità di salvezza e di emancipazione, tanto da decretare il loro bando definitivo, che li escluda dalla comunità, comunque dalla vista, certamente dalla tutela politica, persino dallo spazio marginale che oggi pretendono di occupare. Liberando così simmetricamente la parte vincente del mondo in cui viviamo da ogni vincolo con la parte sommersa, sgravandola di qualsiasi legame, e soprattutto sciogliendola da ogni responsabilità politica nei confronti di quella comunità di destino che fino a ieri avevamo chiamato società: ma a cui dovremo inventare un nuovo nome, visto che vale soltanto per noi e si configura per esclusione, credendo di trovare nella differenza l’unica garanzia di sopravvivenza.
Verrebbe da chiedere a Grillo e alla sua sindaca se davvero il paesaggio sociale che hanno in mente nell’Italia 2017 è fatto di città assediate da migranti, popolate da mendicanti con minorenni al seguito o da falsi nullatenenti con auto di lusso, una specie di gigantesca tendopoli che confina con un campo rom. È la costruzione meccanica di un presepio politico, che trasfigura la realtà in un iper-realismo grottesco, evocando tutti i personaggi di comodo del grande disordine fantasmatico che visita le fragilità del nostro Paese e abita le solitudini sociali esposte dalla crisi. Una proiezione di comodo, a fini politici, come la geografia immaginaria di Di Maio, la fantascienza delle scie chimiche, la medicina prêt-à-porter del no ai vaccini.
È ben chiaro che l’Italia minuta, dei piccoli Paesi e delle lunghe periferie, sotto i colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento di comunità, su una scala europea, nella fiducia in una tradizione occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale.
Tutto questo si chiama politica, senso dello Stato e del Paese. Mentre invece è una ben scarsa rivoluzione, quella che rinuncia a cambiare il mondo per rinchiuderlo su se stesso come un pacchetto fragile, cercando così di comprare governo al mercato della paura, a un prezzo stracciato. Vien fuori un’idea balorda dell’Italia, amputata in alto delle competenze delle élite, colpevoli di tutto: e liberata in basso dalla scomoda presenza dei disperati. Un Paese di singoli, arrabbiati con chi ha vinto e con chi ha perso, per l’invidia del successo, la noncuranza del sapere, il fastidio della responsabilità generale.
L’immagine non è nemmeno quella del muro di Trump. In quel muro Grillo infatti si limita ad alzare il ponte levatoio, come in un medioevo impaurito. Fuori, c’è il mondo.
Il Fatto 15.6.17
No ius soli, sì all’Europa: destra moderata a 5 Stelle
Grillo contro il ddl sulla cittadinanza, Di Maio dagli ambasciatori
di Luca De Carolis
Il candidato incontra gli ambasciatori per il test di governo e risponde, precisa, tranquillizza. Mentre il blog ripete: mai con la Lega. Però il M5S i voti del Carroccio li vuole. E allora si asterrà sullo ius soli in Senato, come fece alla Camera due anni fa. Il Movimento che un po’ cambia e molto no vive un’altra giornata su più fronti, con Luigi Di Maio che incontra i 27 ambasciatori dei Paesi dell’Unione europea (più la rappresentante britannica), e Beppe Grillo che rilancia. Nel segno di un Movimento che non svolta a destra, come pure molti hanno sostenuto, leggendo così i post di martedì sulla gestione di rom e immigrati a Roma. Ma che più semplicemente “tiene” la destra: insistendo sui temi tipici della Lega, ossia immigrazione e sicurezza. Come fa da mesi. Basta citare il post sul blog del 23 dicembre scorso: “È il momento di proteggerci, rimpatriare subito tutti gli immigrati irregolari”. O ricordare il Di Maio che per settimane ha chiesto lumi sulle imbarcazioni delle Ong che soccorrono i migranti, bollandoli come “taxi del Mediterraneo”.
Così, ecco i post sulla Raggi e i migranti. E i soliti (legittimi) sospetti su un accordo possibile con il Carroccio dopo le Politiche. Rilanciati da un’intervista di Carlo Sibilia a La Stampa, in cui il deputato irpino parla di “convergenza possibile” con la Lega. Ma non è quella la rotta, almeno per ora. Così Beppe Grillo monita dal blog: “Il Movimento non fa alleanze”. E visto che c’è, ribadisce anche che il vincolo del doppio mandato per gli eletti, discusso dopo la disfatta nelle Comunali per gli eletti, “è inderogabile”. Mentre dentro il M5S c’è chi sussurra che Sibilia volesse solo “disturbare” Di Maio. Già, perché proprio ieri mattina in un albergo a due passi dal Circo Massimo il candidato premier in pectore incontra gli ambasciatori della Ue per un’ora di domande, in buona parte proprio sull’immigrazione. E Di Maio ribadisce la linea: il Regolamento di Dublino sul diritto d’asilo va cambiato, e “tutti i Paesi devono fare la loro parte”. Nessuno cita la Lega. Però gli pongono una domanda tecnica: “Cosa pensa della libera circolazione tra i Paesi?”. E lui risponde che ci sono “troppe barriere in tante nazioni, anche per gli immigrati italiani: serve reciprocità”. Ovviamente si parla di euro. E Di Maio assicura: “Il referendum sulla moneta non è certo una priorità, prima apriremo una trattativa con l’Europa. Basta con il fiscal compact e l’austerità, vogliamo essere liberi di fare investimenti produttivi”. Insomma, “ci ha detto che il referendum sull’euro sarà l’extrema ratio” chiarisce l’ambasciatrice maltese, l’organizzatrice, all’uscita. Arrivano domande sulla legge elettorale. Soprattutto, due ambasciatori gli chiedono come sarebbero i rapporti con il fondatore se venisse eletto premier.
E Di Maio va dritto: “Beppe resterà il garante, ma io sarò un presidente autonomo, con un governo autonomo”. Strette di mano, e l’ambasciatrice di Malta non resiste: “Speriamo di riaverla qui come premier”. Il deputato sorride, e appena fuori scandisce: “Se il ministro dell’Interno Minniti dice che non c’è un’emergenza allora èfuori dal mondo”. Perché la consegna è picchiare sul tema. E infatti il blog dirama la nuova direttiva: il M5S in Senato si asterrà sulla legge sullo ius soli. “Quello che ci propinano – scrive – è un pastrocchio, concedere la cittadinanza italiana significa concedere la cittadinanza europea, quindi un tema così delicato va preceduto da una concertazione con gli stati della Ue per avere regole uniformi”. I senatori, pare, concordano. E proprio un senatore, Vito Petrocelli, chiosa: “Il Pd ha rispolverato questa legge per ricucire con la sinistra, ma è un testo inutile, la cittadinanza per i figli di genitori immigrati è già regolamentata da altre norme”.
Sullo sfondo però c’è sempre quell’obiettivo, succhiare consensi alla Lega. Così Grillo persevera. Per il disappunto di tanti parlamentari. E con Roberto Fico che al fattoquotidiano.it lo (ri)dice chiaro: “Alleanze con la Lega Nord? Fantascienza, e non è vero che abbiamo convergenze con il loro programma”.
il manifesto 15.6.17
Ius soli, Grillo sempre più a destra: «Sulla legge il Movimento si asterrà»
M5S. Oggi la riforma della cittadinanza in aula al Senato Scontato il ricorso al voto di fiducia per approvarla
di Carlo Lania
Schierato ormai sempre più sulle posizioni della Lega e del centrodestra almeno per quanto riguarda l’immigrazione, Beppe Grillo decide di rendere più difficile la vita anche al circa un milione di ragazzi figli di immigrati che vivono in Italia. Dal blog, ieri il leader pentastellato ha infatti annunciato la decisione del M5S di astenersi sulla riforma della cittadinanza, scelta che al Senato equivale a un voto contrario. Una mossa che rende più complicata la possibilità di poter approvare la riforma senza ricorrere al voto di fiducia, che a questo punto appare inevitabile.
L’affondo di Grillo fa il paio con le dichiarazioni rese due giorni fa dalla sindaca di Roma Virginia Raggi sui migranti e con le sue stesse parole a proposito dei campi rom. «Quello che ci propinano è un pastrocchio all’italiana che vuol dare un contentino a chi ancora si nutre di ideologie» ha scritto ieri Grillo, per il quale «concedere la cittadinanza italiana significa concedere la cittadinanza europea, quindi un tema così delicato deve essere preceduto da una concertazione con gli Stati dell’Ue per avere regole uniformi».
Qualche giorno fa sempre Grillo aveva ripubblicato un testo del 2013 nel quale proponeva di indire un referendum per decidere se cambiare o meno le attuali norme sulla cittadinanza. «Tenuta nel cassetto per due anni da una maggioranza contro natura che temeva scossoni al suo interno – ha invece spiegato ieri – oggi viene tirata fuor per dare un minimo contentino alla sinistra che Renzi torna a blandire, mentre coltiva l’eterno inciucio con il Pdl».
Ieri come previsto la commissione Affari costituzionali del Senato – dove la riforma è rimasta impantanata per quasi due anni – ha dato il via libera alla legge senza mandato alla relatrice, la senatrice Mdp Doris Lo Moro. Un modo per aggirare l’ostruzionismo della Lega con più di settemila emendamenti, consentendo così al testo di arrivare in aula. Alle 13 di oggi scadono i termini per la presentazione degli emendamenti e c’è da scommettere che quelli preparati dalla Lega saranno una valanga. Che però non potranno più bloccare la riforma. Al contrario di quanto accade nelle commissioni, il regolamento del Senato offre infatti la possibilità di arginare l’ostruzionismo delle opposizioni sia contingentando i tempi della discussine che facendo ricorso al cosiddetto canguro per bocciare in massa gli emendamenti uguali tra di loro. In ogni caso è escluso che lo ius soli possa essere votato prima dei ballottaggi del 25 giugno. Nessuna sorpresa dovrebbe esserci per quanto riguarda la fiducia, visto che nonostante alcune perplessità espresse in passato da Alternativa popolare, la maggioranza al momento appare solida.
Come era facile prevedere, l’annuncio di Grillo ha scatenato le reazioni del centrosinistra. Tra i primi ad attaccare i c’è Anna Finocchiaro: «Per chiarire – dice il ministro per i rapporti con il parlamento – astensione al Senato è voto contrario. Quindi Grillo e M5S votano come la Lega contro lo ius soli, una legge di civiltà». Un parallelo, quello tra il M5S e le destre, fatto anche dal presidente del Pd Matteo Orfini che dopo aver chiesto al governo di porre se necessario la fiducia, ha sottolineato come «la posizione dei grillini è identica a quella della Lega nord e di Casapound». Per il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, invece, quella di Grillo «non è solo una scelta di destra, ma un comportamento tipico della peggiore politica italiana, abituata a fare tutto e il suo contrario sulla base del sondaggio del momento. Inseguendo i peggiori istinti della pancia del Paese».
Sul fronte opposto mentre Giorgia Meloni annuncia una manifestazione di Fratelli d’Italia sotto il Senato alla quale invita anche Lega e Forza Italia, il governatore della Lombardia Roberto Maroni prepara un ricorso alla Consulta da presentare una volta che la legge sarà stata approvata.
il manifesto 15.6.17
Di Maio a destra di Minniti, Viminale: Roma rispetti i patti
Lega romana. La linea Raggi-Grillo ribadita dal vice presidente della Camera, tra i critici Taverna e Lombardi
di Giuliano Santoro
Prima la prefettura: «A Roma non esiste nessuna emergenza immigrazione, i numeri sono sotto controllo». E poi il ministero dell’Interno: «Molte città sono in difficoltà, ma anche la capitale deve fare la sua parte. L’ondata di sbarchi non si ferma: quest’anno ci dobbiamo preparare ad accogliere 200 mila migranti». L’appello con il quale la sindaca di Roma Virginia Raggi chiedeva una moratoria all’accoglienza di richiedenti asilo produce due repliche secche, due smentite che si direbbero piccate se non fossero state espresse nel freddo linguaggio delle istituzioni.
RAGGI REPLICA, abbozzando in un primo passaggio ma nei fatti tenendo fermo il punto: «Roma fa la sua parte e continuerà a farla come anche tutte le altre città grandi e piccole – scrive in una nota la sindaca – L’accoglienza dei più fragili è prima di tutto un dovere morale che deve tuttavia essere attuato con regole precise e in maniera controllata per evitare sacche di illegalità e fenomeni opachi come quelli visti in passato proprio qui a Roma. Solo in questo modo sarà possibile tutelare seriamente chi ne ha diritto senza creare scontri sociali». Si esprimono pubblicamente solo grillini a suo favore. Anche a leggere forum e commenti sul blog di Grillo si tasta il polso dell’elettorato diffuso, non composto da attivisti o simpatizzanti della prima ora. Sono a favore della linea dura.
LA SINTONIA con le posizioni sovraniste è diffusa al punto di indurre davvero in tentazione i vertici grillini, sulla possibilità di praticare un (difficile) accordo con la Lega. Alessandro Di Battista è un caso paradigmatico: si è sempre presentato come terzomondista ma al tempo stesso ha invocato l’espulsione di tutti i migranti cui non venga riconosciuto lo status di profugo.
Ieri, però, ha dovuto smentire ogni ipotesi di intesa con Salvini: «Se vogliamo controllare i flussi migratori e combattere l’oscena mangiatoia che hanno creato sull’immigrazione clandestina dicono che apriamo alla Lega». Le voci che vengono fuori dal M5S sono tutte di sostegno al pugno di ferro su migranti e rom. Il capogruppo in consiglio comunale a Roma, Paolo Ferrara, ad esempio dice: «Al di là dei numeri, abbiamo detto quello che vedono i cittadini romani tutti i giorni. Noi romani stiamo già facendo la nostra parte, ma non è possibile immaginare nuovi arrivi o addirittura la realizzazione di nuove strutture».
Persino il presidente del Consiglio comunale Marcello De Vito, considerato avversario di Raggi, si produce in un’apologia del piano di chiusura dei campi rom annunciata da Raggi e ribadita ieri dal blog di Grillo. Eppure, si parla di moti di dissenso da parte di alcuni esponenti storici del grillismo romano.
TRA I CRITICI più attivi nelle chat si fanno i nomi di Paola Taverna, Roberta Lombardi, Massimo Baroni. La linea Raggi-Grillo viene puntellata per il secondo giorno di seguito da Luigi Di Maio, secondo il quale l’Italia «è una pentola a pressione e se non le togliamo il coperchio finirà per saltare». Per evitarlo, secondo l’M5S occorre invece superare gli accordi di Dublino, che vincolano le richieste d’asilo al paese nel quale si è sbarcati. Il vicepresidente della Camera torna anche con un suo pezzo forte, e invita ad «accendere un faro su quello che sta avvenendo nel Mediterraneo con le ong». Quando gli si fa notare che Roma non sta mantenendo gli impegni presi, visto che è sotto la quota delle assegnazioni, Di Maio replica: «Il tema non sono gli impegni: l’Italia ha fatto gli hot spot e il sistema di accoglienza e in cambio l’Unione europa doveva ridistribuire per quote» ma queste operazioni, sostiene Di Maio, «non si stanno avviando seriamente».
IN SERATA DAL VIMINALE si apprende che Marco Minniti riceverà presto Virginia Raggi. Il modello su cui punta il ministro è quello dell’accoglienza diffusa, promosso un mese fa a Milano da sindaci e prefetti. Dal ministero di Minniti, che pure nelle settimane scorse aveva teorizzato che sui temi della sicurezza e dei migranti contassero più le percezioni dei cittadini che le situazioni concrete, ribadiscono freddamente: «I numeri dei migranti a Roma sono in linea con gli accordi sottoscritti con l’Anci».
il manifesto 15.6.17
Stadio della Roma, il cedimento 5stelle alla speculazione
di Paolo Berdini
Ci sono eventi che si caricano di date simboliche.
Il voto che conferma il pubblico interesse alla vergognosa speculazione fondiaria camuffata da stadio della Roma calcio è arrivato ieri, ad un anno esatto dalla elezione a sindaco di Virginia Raggi.Nel breve volgere di 365 giorni, dunque, la giunta pentastellata che aveva acceso tante speranze di discontinuità nella conduzione della mala urbanistica romana ha sconfessato tutto il programma elettorale.
La conferma del pubblico interesse consente la realizzazione di 600 mila metri cubi di cemento (6 alberghi Hilton avrebbe affermato Antonio Cederna): un inaudito caso di speculazione edilizia.
Dobbiamo interrogarci sui motivi reali del voltafaccia. E dobbiamo chiedercelo a maggior ragione dopo la incredibile lettera che il sindaco Raggi ha inviato al Prefetto di Roma per ottenere una «moratoria» sull’arrivo degli immigrati. Ma se nel caso degli immigrati e dei rom la lettera non è giunta inaspettata poichè il centro Baobab è stato in questi mesi già sgombrato 3 volte, nel caso dello stadio della Roma la capriola è invece sconcertante.
Un privato (la Roma calcio) sceglie l’area di Tor di Valle che è completamente priva di infrastrutture. Dunque, per poter raggiungere lo stadio dovevano essere costruite una serie imponente di infrastrutture che realizzerà la stessa società in cambio di maggiori cubature rispetto a quelle previste dal piano urbanistico.
Le amministrazioni intelligenti scelgono i luoghi per costruire gli stadi in modo che le nuove infrastrutture (metropolitane o strade) siano utili anche ai quartieri limitrofi. Si poteva pensare ad un luogo più interno alla città; più vicino alle periferie devastate che nella capitale sono ampiamente diffuse e che stanno andando verso un degrado senza fine.
È utile ricordare ancora che i quattro consiglieri comunali 5stelle all’opposizione di Marino – tra cui Virginia Raggi – avevano condotto contro quella scelta una limpida opposizione. Ora hanno mutato giudizio. Uno dei motivi principali della scelta possiamo trovarlo nei rapporti economici tra proprietà dei terreni (gruppo Parnasi) e tra il conglomerato societario della Roma di James Pallotta e la banca che vanta nei loro confronti crediti per oltre 100 milioni di euro, e cioè Unicredit. Scegliendo un’altra area per costruire lo stadio i terreni non sarebbero stati dei debitori dell’istituto bancario che non avrebbe potuto così rientrare dalle esposizioni.
È noto che nelle vicende urbansitiche di Roma e di ogni altra città, le banche sono sempre state fondamentali attori per indirizzare finanziamenti verso i settori urbani da sviluppare. Con gli enormi debiti che le banche italiane hanno a causa dei disinvolti finanziamenti che hanno elargito con troppa disinvoltura prima dello spartiacque della crisi del 2008, le operazioni di trasformazione urbana più certe saranno quelle che permetteranno alle banche di rientrare -almeno parzialmente- delle esposizioni debitorie. Con la vicenda stadio si è dunque aperta una fase nuova del ruolo della finanza e un cinico gioco sulla pelle dei cittadini che chiedono da tempo di fermare ogni espansione urbana.
Con il voto di ieri la giunta Raggi si è assunta un’enorme responsabilità e a nulla vale affermare che Marino aveva consentito una volumetria ancora maggiore (circa 1 mlione di metri cubi): il problema infatti non è di merito ma soprattutto di metodo.
Alla prima occasione di decisione urbanistica, la giunta Raggi si adegua al dominio incontrastato della rendita, altro che la tanto evocata discontinuità. Il Pd, regista dell’urbanistica romana ha ripreso i suoi disegni con gli stessi uomini (e donne) che siedono nell’assessorato all’urbanistica.
Gli effetti in termini di consenso non tarderanno a venire. Ferdinando Imposimato, candidato alla carica di Presidente della Repubblica dai 5stelle è tra gli uomini maggiormente critici ed ha anche contribuito all’elaborazione di un atto di significazione da tempo sul tavolo del sindaco Raggi.
Insomma, passa (forse) lo stadio ma volano via consensi in una città delusa.
il manifesto 15.6.17
Altri 10 miliardi per le armi. La chiamano crescita
Finanziaria. Il 22% del fondo da 46 miliardi per «assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del paese» andrà al ministero della Difesa per fare carri armati, elicotteri di combattimento e centri comandi. Una scorrettezza normativa e formale enorme contro il parlamento
di Giulio Marcon
Ieri, la Commissione Bilancio della Camera dei Deputati ha iniziato a occuparsi del decreto della presidenza del consiglio che deve decidere come ripartire i 46 miliardi di un fondo di investimenti (previsti fino al 2032) che la scorsa legge di bilancio aveva stanziato per sostenere interventi in tanti ambiti: dai trasporti alla ricerca scientifica; dalla riqualificazione delle periferie alla difesa del suolo e alla lotta al dissesto idrogeologico; dall’edilizia scolastica alle bonifiche, dall’informatizzazione dell’amministrazione giudiziaria alla rimozione delle barriere architettoniche. E tanto altro ancora.
Il decreto della presidenza del consiglio riporta una tabella sulla ripartizione dei fondi tra i ministeri e dalla tabella dove scopriamo che ben 9.988.550.001 di euro (in pratica 10 miliardi, il 22% del totale) saranno destinati al Ministero della difesa. Per fare cosa? Oltre 5,3 miliardi di euro finanziaranno i programmi di costruzione e di ammodernamento dei sistemi d’arma. Per fare qualche esempio (come ha ricordato Milex, l’osservatorio italiano sulle spese militari), si va dai carri da combattimento Freccia e Centauro 2 alle famigerate fregate Fremm; dagli gli elicotteri da attacco Mangusta ai sistemi di contraerea e tanto altro ancora. Poi, tra gli altri consistenti importi destinati al Ministero della difesa, ci sono 2,6 miliardi per fare a Centocelle (un quartiere periferico di Roma) un mega centro servizi e comandi: una sorta di «Pentagono italiano» dove centralizzare funzioni e servizi di coordinamento dell’intero sistema delle Forze Armate. Singolare è che questo stanziamento viene collocato nel paragrafo dal titolo : «edilizia pubblica, compresa quella scolastica». Di «scolastico» il centro militare ha ben poco.
Ora, il fatto che come spendere un fondo di 46 miliardi per «assicurare il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del paese» (così dice la legge di bilancio) venga deciso dal governo (concedendo al parlamento di dare un misero «parere») è un’abnormità istituzionale. Che poi venga destinato ben il 22% di questo fondo al Ministero della Difesa per fare carri armati ed elicotteri di combattimento e centri comandi è una scorrettezza normativa e formale enorme contro il parlamento. Poi va ricordato che il governo Gentiloni, in questo modo, sacrifica gli investimenti civili a quelli militari. Si fanno passare per interventi a favore di «attività industriali ad alta tecnologia e sostegno alle esportazioni», prebende all’industria militare – che andrebbe riconvertita, salvando l’occupazione, a scopi civili – per fare affari in Italia e in giro per il mondo.
Sul «sostegno alle esportazioni» sicuramente l’industria militare fa la sua «bella» parte, visto che vendiamo armi all’Arabia Saudita e anche al Qatar (340 milioni di euro di vendite), che è stato accusato di recente di sostenere il terrorismo islamico.
Nonostante le lamentele della ministra Pinotti e delle gerarchie militari, al ministero della Difesa arrivano sempre tanti, troppi soldi.
Ci stiamo avvicinando così ad esaudire la richiesta di Trump, che vuole portarci a spendere il 2% per il bilancio della difesa. Tra l’altro, a tutti questi soldi andrebbero aggiunti anche i 12 miliardi che ci rimane da spendere per il programma dei cacciabombardieri F35, su cui è caduto un silenzio assordante, nonostante il Pd si fosse impegnato a dimezzare la spesa.
Anche con questo decreto, arriva un altro aumento delle spese militari. Ma il paese ha bisogno di lavoro, non di carri armati.
il manifesto 15.6.17
Striscia il movimento
Dieci anni di controllo di Hamas su Gaza, dopo lo scontro del 2007 tra islamisti e Fatah. Oggi i palestinesi si sentono «prigionieri, senza lavoro e senza alcuna prospettiva».
di Michele Giorgio
«La sicurezza delle frontiere meridionali con l’Egitto è una priorità e il nostro governo farà la sua parte per garantirla», ripeteva due giorni fa ai giornalisti il vice ministro dell’interno di Hamas, Tawfiq Abu Naim, durante un sopralluogo al terminal di Rafah, sul confine tra la Striscia di Gaza e il Sinai.
Reparti speciali di Hamas saranno dispiegati al più presto lungo i 12 km tra Gaza e l’Egitto con il compito di impedire ai miliziani dell’Isis nel Sinai possano trovare rifugio nella Striscia.
HAMAS È PRONTO a «fare la sua parte» ha spiegato Abu Naim, «con il massimo dell’impegno». Non è la solita dichiarazione di buona volontà rivolta dal movimento islamico palestinese al regime di Abdel Fattah al Sisi con il quale dal luglio 2013 – dal golpe al Cairo che ha rimosso dal potere i Fratelli musulmani – tenta invano di migliorare le relazioni.
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In attesa al confine Gaza-Egitto (LaPresse)
Ora è diverso. Hamas ha bisogno dell’Egitto che pure contribuisce al blocco di Gaza, attuato da Israele da più di dieci anni, tenendo chiuso il terminal di Rafah. Al Sisi, riferiva due giorni fa al Sharq al Awsat, ha dato un aut-aut ad Hamas: Gaza riceverà la quota egiziana di elettricità, anzi il Cairo è pronto ad aumentarla, solo se il governo islamista consegnerà 17 uomini dell’Isis ricercati che si nasconderebbero nella Striscia.
IL CAIRO ASSICURA A GAZA appena 25 megawatt, il 6,25% del fabbisogno, e le linee elettriche egiziane nel Sinai sono spesso fuori uso a causa di guasti. Hamas tuttavia non è nelle condizioni di dire no al «nemico» di cui non può fare a meno se vuole sopperire almeno in parte al buco energetico che si è creato a Gaza con l’inizio della politica del pugno di ferro attuata negli ultimi mesi da Abu Mazen.
Il presidente palestinese, nel tentativo di costringere Hamas a rinunciare al controllo di Gaza, ha prima ridotto del 30% gli stipendi di 70mila impiegati dell’Anp, poi ha tagliato il finanziamento per il gasolio della centrale elettrica, quindi ha comunicato che pagherà soltanto il 60% della quota di elettricità che Israele fornisce a Gaza dove la corrente è disponibile appena 3-4 ore al giorno e, di conseguenza, ha chiesto a Tel Aviv di tagliare il 40% dell’elettricità per Gaza.
Misure che hanno aggravato la già difficile condizione di 2 milioni di civili palestinesi che vivono nella Striscia. Ma è proprio su questo che punta, secondo alcuni, Abu Mazen, convinto che la popolazione non sopporterà questo ulteriore peggioramento della situazione e si ribellerà contro Hamas.
A GAZA NESSUNO CREDE che questo piano, vero o presunto, abbia possibilità di successo. La pressione esercitata da Abu Mazen rende dura la vita ai civili e sfiora soltanto Hamas, organizzato per resistere a lunghi periodi di austerità.
Allo stesso tempo non ci sono dubbi che questo sia il momento più difficile che gli islamisti affrontano da quando hanno preso il controllo di Gaza. Proprio in questi giorni di giugno del 2007, lo scontro tra il movimento islamico e Fatah, il partito guidato da Abu Mazen, raggiungeva il punto di rottura, con scontri armati ovunque nelle strade Gaza che fecero centinaia di morti e feriti e si conclusero con la fuga (o la cacciata) dalla Striscia delle forze di sicurezza legate dell’Anp.
PER GLI ISLAMISTI QUELL’ATTO di forza nel 2007 fu necessario per prevenire progetti occidentali, israeliani, e anche dell’Anp, volti a ribaltare il risultato delle elezioni palestinesi dell’anno prima vinte da Hamas con largo margine. Secondo Abu Mazen invece fu un «colpo di stato» al quale non è stato possibile rimediare in dieci anni di riconciliazioni tra Fatah e Hamas annunciate e mai realizzate. Fino al braccio di ferro di questi mesi che si inserisce in un clima regionale pessimo per gli islamisti palestinesi.
IL RICCO QATAR, generoso sponsor assieme alla Turchia di Hamas e del movimento dei Fratelli musulmani, fa i conti con l’offensiva diplomatica che gli ha lanciato contro la rivale Arabia saudita, con la benedizione di Donald Trump, in nome di una presunta «lotta al terrorismo». Doha tiene botta, non si fa intimidire e ribadisce la sua posizione: Hamas non è un’organizzazione terroristica come affermano Riyadh, Israele, gli Usa e il resto dei Paesi occidentali.
Tuttavia Yahya Sinwar, leader da qualche mese del movimento islamico palestinese, sa che il sostegno del Qatar ad Hamas rischia di essere sacrificato sull’altare della riconciliazione tra i petromonarchi del Golfo.
«È un quadro difficile nel quale occorre agire con saggezza, evitando passi falsi», esorta Ahmed Yusef uno degli ideologi della svolta “moderata” che qualche settimana fa ha visto l’ex capo di Hamas, Khaled Mashaal, annunciare proprio a Doha il nuovo Statuto dell’organizzazione che, senza prevedere il riconoscimento ufficiale di Israele, accetta la soluzione dei Due Stati. «Hamas deve fare i conti con una realtà regionale complessa e molto mutata negli ultimi anni» aggiunge Yousef «il nostro nuovo Statuto ora offre gli strumenti per poter avviare il lavoro diplomatico e politico necessario per raggiungere i risultati che vogliamo ottenere».
LA LINEA DELLA MODERAZIONE sulla quale spinge Yousef però non ha ancora raccolto alcun frutto e la scelta di Hamas di proclamarsi un movimento islamico «indipendente» dai Fratelli musulmani lascia freddi i suoi avversari. Allo stesso tempo Hamas fa i conti anche con il fallimento della linea più radicale. Gli ultimi dieci anni sono stati segnati da tre devastanti offensive militari israeliane contro Gaza – che hanno provocato molti morti, in buona parte civili – e hanno visto Hamas dotarsi di armi sofisticate e di razzi in grado di raggiungere ogni punto di Israele e mettere in piedi unità combattenti ben addestrate.
Ma le prove di forza che nella testa dei leader politici e militari di Hamas dovevano cambiare il «quadro strategico» di Gaza e «liberarla una volta e per tutte dall’assedio» israeliano, non hanno modificato in alcun modo la condizione della Striscia che era e resta la prigione più grande del mondo.
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Controllo documenti al valico di Rafah (LaPresse)
Una constatazione che fanno prima di tutto gli abitanti di Gaza. Tra di essi cresce il malcontento verso Hamas che però non si traduce in un aumento del sostegno all’Anp di Abu Mazen vista come un altro grande «disastro» e non come la soluzione dei problemi. Per Sami A.O., che ci ha chiesto di non rivelare la sua piena identità, «la presa del potere a Gaza da parte di Hamas aveva alimentato speranze di cambiamento, (Hamas) prometteva sviluppo e l’appoggio del mondo arabo a Gaza. Invece dieci anni dopo siamo sempre più prigionieri, senza lavoro, senza elettricità, senza acqua potabile sufficiente e senza alcuna prospettiva. E non possiamo più parlare liberamente perché una frase contro il governo ti può costare l’arresto».
PER SAMI E MOLTI PALESTINESI la condizione attuale di Gaza è il risultato anche delle politiche attuate da Hamas in questo decennio e non solo del blocco israeliano. Gli islamisti smentiscono di avere una linea autoritaria e di negare la libertà di espressione. Sostengono che i provvedimenti restrittivi servono a garantire la sicurezza di Gaza. Ma quando nei mesi scorsi dal campo profughi di Jabaliya sono partite manifestazioni con migliaia di persone contro la mancanza dell’elettricità, Hamas ha reagito schierando centinaia di poliziotti e arrestando e pestando decine di dimostranti.
Il movimento islamico afferma di aver fatto il possibile per difendere Gaza e di aver governato al meglio delle possibilità tra attacchi israeliani, pressioni dell’Anp e l’isolamento al quale ora partecipano anche i Paesi arabi.
Al contrario per il giornalista Aziz Kahlout «Hamas ha messo la testa sotto la sabbia. Ha creduto che la sua determinazione avrebbe respinto ogni avversità. Non ha capito che dopo dieci anni in queste condizioni la gente di Gaza non può più andare avanti. E questo lo paga in termini di consenso popolare». Hamas, aggiunge Kahlout, «crede ancora nel miracolo, nell’avvento in Egitto di un nuovo presidente (dei Fratelli musulmani) come Mohammed Morsi che lo salvi dall’oblio. Forse solo ora comincia a capire la realtà del Medio oriente». Realtà che lo spingerà a cercare un compromesso al ribasso, alle condizioni di Abu Mazen? Ahmed Yousef sembra escluderlo. «La responsabilità di ciò che è avvenuto nel 2007 è di entrambe le parti, 50% e 50%», ci dice, «Fatah e Hamas devono mettere fine allo scambio di accuse e lavorare nell’interesse esclusivo del nostro popolo». Ma islamisti e Anp cercano solo di eliminarsi a vicenda.
Repubblica 15.6.17
Fan di Sanders spara sui repubblicani ferito un deputato In difficoltà per il Russiagate, il presidente e i suoi puntano a risalire nei consensi giocando sulle simpatie politiche dell’uomo che ha colpito ieri
“Ci detestano e questo è il risultato” Così la destra sfrutta l’aggressione
Federico Rampini
Può un attentato cambiare la storia di una presidenza? E’ successo in passato, quando però il bersaglio fu il presidente stesso: dall’assassinio di John Kennedy fino a Ronald Reagan che sopravvivendo al tiro di un cecchino ebbe un boom di popolarità. Ieri non c’era Donald Trump nel mirino, ma la destra spera che questa sparatoria “politica” metta in difficoltà l’opposizione democratica, e aiuti il presidente a uscire dalle sue gravi difficoltà.
Stavolta la violenza viene da un folle militante anti-Trump, un attivista che partecipò alla campagna elettorale di Bernie Sanders. Scatta subito il tentativo di ricavarne un vantaggio politico. Secondo un gioco prevedibile quanto cinico. Gioco nel quale nessuno è innocente: da anni ormai i morti o i feriti vengono usati senza pietà, da destra quando il terrorista è islamico, da sinistra quando è un suprematista bianco o un poliziotto razzista.
La commentatrice di destra Ann Coulter è la prima a sguainare su Twitter: «Ecco i fatti sullo sparatore. Bianco. Maschio. Armato. Di sinistra. Indovinate su cosa titoleranno i media progressisti, e quale dettaglio lasceranno ai margini?». Segue uno dei leader repubblicani più vicini a Trump, Newt Gingrich: «C’è un’escalation di ostilità a sinistra». Il tentativo è quello di mettere nello stesso mucchio l’attentato al deputato repubblicano Steve Scalise con le indagini sul Russia-gate o gli appelli all’impeachment: descrivendo tutti questi eventi come manifestazioni di una stessa ostilità preconcetta e radicale. La narrazione che si vorrebbe imporre è questa: la sinistra non indietreggia di fronte a nulla; mossa da un’avversione implacabile spinge a oltranza la delegittimazione politico-giudiziaria dell’avversario politico, fino a che qualche testa calda nei suoi ranghi cerca di passare alle vie di fatto.
Non è detto che il gioco del vittimismo sia efficace. La differenza col caso Reagan (attentato del 30 marzo 1981) è che allora le pallottole colpirono il presidente mentre stavolta sono stati feriti dei parlamentari della maggioranza repubblicana. Però il profilo biografico dell’attentatore mette a disagio la sinistra. Il sito Breitbart (già diretto da Steve Bannon, consigliere di Trump) sbeffeggia la capogruppo democratica alla Camera, Nancy Pelosi, per la sua «conversione di 180 gradi compiuta alla velocità della luce ». Si riferisce ad una dichiarazione della Pelosi che estende la sua solidarietà non solo alle vittime ma allo stesso presidente, adottando improvvisamente un tono di unità nazionale perfino un po’ eccessivo: «Prego per Donald Trump che la sua presidenza abbia successo e la sua famiglia sia al sicuro». (Nulla nella dinamica della sparatoria di ieri implicava un pericolo per il presidente stesso). Più sobrio Bernie Sanders, ha condannato così il gesto del suo simpatizzante: «Il vero cambiamento può accadere solo attraverso l’azione non violenta».
L’unico effetto politico che si può escludere a priori dopo questa vicenda, è la riapertura di un dibattito serio sulle armi. Nella dichiarazione di Trump l’elogio alla pronta reazione delle forze dell’ordine è in linea con l’antico riflesso pavloviano della destra e della National Rifle Association (Nra, lobby delle armi): per essere sicuri bisogna essere più armati, l’importante è che i “buoni” siano in grado di difendersi, e veloci nel rispondere al fuoco. Peraltro le recenti stragi avvenute in Europa ad opera di terroristi islamici hanno già rilanciato la tesi della destra armaiola negli Stati Uniti: i Paesi del Vecchio continente non sono affatto sicuri, pur avendo leggi più restrittive sul possesso di armi da parte dei cittadini onesti. In questa stagione politica non ci sono spazi per riaprire il discorso sulle armi, con una maggioranza repubblicana al Congresso che considera sacro il Secondo Emendamento. Anzi ha fatto scalpore che una celebrity televisiva come l’anchorwoman Megin Kelly abbia dato spazio all’aberrante tesi negazionista di chi dipinge la strage di venti bambini (scuola Sandy Hook nel Connecticut, 14 dicembre 2012) come un’invenzione e una montatura dei media di sinistra per limitare le vendite di armi.
Esclusa ogni riflessione critica su un tema tabù, resta da vedere che uso vorrà fare lo stesso Trump di questa tentata strage. Ieri il presidente è stato insolitamente… presidenziale, con una dichiarazione moderata, un appello all’unità nazionale. Ma è nei tweet mattutini che di solito si lascia andare. Di certo lui avrebbe bisogno di aggrapparsi a qualche evento imprevisto, per uscire dalla sindrome dell’accerchiamento. Da settimane la Casa Bianca fa notizia quasi esclusivamente per scandali e inchieste, e il suo livello di dis-approvazione è salito fino al 60%, un record storico.
Repubblica 15.6.17
Il sondaggio
Più relazioni abbiamo, più cresce la fiducia nel futuro
È vero che il Paese invecchia e le ansie aumentano, ma alla domanda sei felice? rispondiamo di sì
L’ottimismo degli italiani
Terrorismo e crisi fanno paura ma crediamo ancora negli altri
Ilvo Diamanti
È davvero difficile “orientarsi nel disordine del mondo”, come recita il titolo della Repubblica delle Idee di quest’anno. Perché il disordine, agli occhi dei cittadini, regna sovrano. Complicato dall’incertezza che avvolge il futuro, ma anche il presente, delle persone. Non ci sarebbe bisogno di statistiche per dimostrarlo. Basterebbero gli indicatori del senso comune. Tracciati dalle nostre percezioni. Ricavati dai discorsi della gente. Tuttavia, in questo caso, le statistiche, per una volta, danno fondamento al senso comune. Per questo mi limito a riproporre dati e indici ricavati da sondaggi condotti da Demos (per Unipolis e per Repubblica) negli ultimi sei mesi. E dunque in tempi recenti. Il 76% degli italiani — dunque: oltre 3 persone su 4 — si sentono gravati da un senso di “insicurezza globale”. Temono, cioè, le minacce che vengono da lontano ma risuonano forte nella loro vita quotidiana, scandite e riprodotte dai media. In primo luogo, il terrorismo che compie i suoi massacri dovunque, in Europa, con attenzione e competenza mediatica. Ma poi, l’impatto della crisi economica, finanziaria, che si riflette sui nostri risparmi e sulla nostra condizione personale e familiare. Minacce lontane e dunque vicine. Che spaventano di più proprio perché non hanno volto e nome.
Ricordo mio padre, anni fa, quando, molto anziano e malato, mi chiedeva, angustiato, preoccupato per i propri risparmi, frutto del lavoro di una vita, e, quindi, della pensione: «Ilvo, ma chi è questo Spread? Che faccia ha? E dove abita? Perché ce l’ha con me? Con i miei risparmi?». Naturalmente non era facile rispondergli. E non lo è neppure oggi. Anzi, lo è sempre di meno. Perché le fonti dell’incertezza si sono moltiplicate. Perché non abbiamo più il privilegio dell’ignoranza. Il significato della globalizzazione è questo, ben evocato da Giddens. Tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, si ripercuote su di noi. In modo im-mediato. Perché lo vediamo e lo sappiamo subito. Perché i nuovi media, il digitale, ci permettono di re-agire in modo im-mediato. Subito. In modo “digitale”. Con il nostro smartphone. Protagonisti e al tempo stesso bersagli di ogni messaggio. Di ogni informazione, circa ogni evento che avviene ovunque. Tanto più e tanto meglio se ansiogeno. Così e per questo l’incertezza si riproduce. E il mondo ci sembra sempre più largo. Al tempo stesso, più im-mediato e più incontrollabile. Anche perché l’im-mediato ci priva del futuro. Perché, se il futuro è adesso, allora è già passato. Nel momento stesso in cui lo evochiamo e lo sperimentiamo. Il futuro. Immaginarlo, se non prevederlo, sarebbe necessario per ridurre il disordine del mondo. Perché se hai un progetto, allora è più facile saper cosa fare, dove — e verso dove — muoversi. Ma se il futuro si riduce, fino a venire riassorbito nel “quotidiano”, nell’immediato, allora il disordine prende il sopravvento. D’altra parte il nostro futuro è affidato ai giovani. Ai nostri figli. Ma noi siamo una società vecchia. Sempre più vecchia. Dove si fanno sempre meno figli. Le stesse famiglie di nuovi italiani, gli immigrati, quando si stabilizzano in Italia, assumono i nostri modelli e stili di vita. E fanno sempre meno figli. D’altronde, 3 italiani su 4 ritengono che i giovani nel nostro Paese avranno, nel prossimo futuro, una posizione sociale e professionale peggiore rispetto ai loro genitori. Per la stessa ragione, una percentuale simile di persone ritiene che i giovani, se ambiscono a fare carriera, debbano lasciare l’Italia. Ed è ciò che effettivamente avviene, visto che da tre anni siamo in declino demografico. Peraltro, i nostri “emigranti” sono, soprattutto, i giovani con maggiori competenze e livello di istruzione più elevato. Per questo rischiamo di divenire sempre più pessimisti. Per ragioni “realiste”. Infatti, se lasciamo partire i più giovani e i più preparati, compromettiamo il nostro futuro. E allora: perché dovremmo essere ottimisti? Peraltro, l’ottimismo declina con l’età. I (più) vecchi difficilmente sono più ottimisti dei (più) giovani. Eppure, quando chiediamo agli italiani se si sentano “felici”, circa 8 su 10 rispondono in modo affermativo (Demos). Sì: ci sentiamo “abbastanza” felici. E ciò potrebbe sorprendere. Apparire contraddittorio. Come fanno gli italiani ad essere pessimisti e insicuri, ma, al tempo stesso, abbastanza felici? Dipende dalle nostre risorse sociali. E di socialità. Perché l’incertezza si riduce in misura coerente con il nostro “capitale sociale”. Noi, cioè, resistiamo all’insicurezza ricorrendo alle relazioni sociali. E, in primo luogo, alla famiglia. L’incertezza e le preoccupazione verso il futuro, infatti, si riducono tanto più quanto maggiore è il livello di partecipazione sociale. Ma anche quanto più forti sono i nostri legami di vicinato. La nostra vita associativa. Allora la fiducia negli altri, che da anni tende a calare, riprende a crescere. E il futuro ritorna. Dopo essersi perduto nel passato. Così, per “orientarsi nel disordine del mondo”, occorre (in)seguire un percorso obbligato. Coltivare la fiducia negli altri. E, dunque, rafforzare i legami con gli altri. Partecipare. Perché “con gli altri” si sta meglio che “da soli”. E la partecipazione aiuta. A stare in mezzo agli altri. A camminare insieme. Verso una meta comune.
Repubblica 15.6.17
Indagine shock in Lunigiana Ventitré militari coinvolti: quattro arrestati, mentre per altri quattro scatta l’ordine di lasciare i paesi dove prestavano servizio
Botte e abusi, la caserma dei violenti I carabinieri: “Siamo come la mafia”
Massimo Mugnaini Franca Selvati
FIRENZE. «Quel che colpisce in questa storia non è solo la gravità dei fatti ma anche e soprattutto la loro quasi normalità». Il procuratore di Massa Aldo Giubilaro è turbato e sinceramente dispiaciuto nel comunicare la “decimazione” della stazione dei carabinieri di Aulla, in Lunigiana, con l’arresto di quattro militari e il divieto di dimora in provincia di Massa Carrara per altri quattro. Una decisione che arriva al termine di un’inchiesta, partita un anno fa dalla denuncia di un cittadino italiano, che ha finito per investire le 27 persone indagate, 23 militari e quattro civili. I capi di imputazione contenuti nelle 208 pagine della misura cautelare disposta dal gip Ermanno De Mattia su richiesta del procuratore Giubilaro e della pm Alessia Iacopini sono 136 e riguardano 109 episodi di abusi e irregolarità commessi in poco più di un anno.
Abusi documentati anche da intercettazioni telefoniche e ambientali. Violenze «sistematiche e metodiche», talvolta con l’uso di una mazza telescopica di acciaio, uno strumento che può anche uccidere. Verbali falsificati. Droga sequestrata che scompare. Stranieri che si presentavano alla stazione anche solo per fare un documento e venivano malmenati. Umiliazioni. In caserma sono stati sequestrati anche dei manici di scopa. Un giovane cittadino marocchino, fermato per spaccio, non sarebbe stato soltanto malmenato, tanto da finire poi in ospedale, ma anche umiliato con una ispezione corporale per la quale è stata contestata agli indagati una violenza sessuale.
«Era un mondo a parte», sospira un collega degli arrestati. «Sicuramente è mancato il controllo », commenta sconsolato.
In carcere è finito un brigadiere della stazione di Aulla. Altri tre sottufficiali sono ai domiciliari e quattro sono stati colpiti dal divieto di dimora in provincia di Massa. Fra questi ultimi il maresciallo comandante della stazione di Aulla, che è stato anche sospeso dai pubblici uffici. Gli altri carabinieri indagati prestano servizio, oltre che ad Aulla, nelle stazioni di Albiano Magra e Licciana Nardi e al Nucleo radiomobile di Pontremoli. I reati contestati, a vario titolo, sono lesioni, falso in atti pubblici (i verbali), abuso d’ufficio, rifiuto di denuncia, sequestro di persona (una persona trattenuta in camera di sicurezza), violenza sessuale, possesso ingiustificato di armi (i coltelli trovati in casa agli indagati, perquisiti lo scorso febbraio). «Dalle intercettazioni emergono prove evidenti dei reati» ha scritto il gip Ermanno De Mattia, che ha ravvisato i pericoli di reiterazione dei reati e di inquinamento delle prove. Una conversazione intercettata è apparsa particolarmente inquietante, perché si trattava di un patto del silenzio: «Da questa caserma non deve uscire niente, dobbiamo essere come la mafia».
«Illegalità e abusi erano quasi la normalità», ribadisce il procuratore Giubilaro, che ha annunciato «con sincero dispiacere » — avendo al suo fianco il comandante provinciale del’Arma dei carabinieri Valerio Liberatori — l’esecuzione delle misure cautelari. Il procuratore sottolinea che le misure hanno colpito «un numero ristretto di militari » e ha voluto esprimere «ancora una volta», insieme con la sostituta Iacopini, «il più incondizionato e alto apprezzamento » per l’Arma dei carabinieri. Ma ha aggiunto: «Le misure prese sono dolorose, ma nessuno deve considerarsi al di fuori e al di sopra delle leggi dello Stato».
Ad Aulla c’è shock per gli arresti. Lo scorso 11 marzo, alcuni giorni dopo le perquisizioni disposte dalla procura, qualche centinaio di persone partecipò a una manifestazione di solidarietà nei confronti dei carabinieri indagati. Erano presenti sindaci, amministratori e dirigenti di partito. Furono distribuiti volantini di vicinanza all’Arma, sui quali si leggeva: «La Procura sta mal interpretando la realtà della strada, penalizzando l’esecuzione della nostra sicurezza. Conosciamo bene quei ragazzi in divisa e conosciamo anche coloro che li hanno accusati: sono quelli da cui ci proteggevano». Un lungo applauso e il grido “Viva i nostri carabinieri” conclusero la manifestazione.
Molti dei militari indagati sono difesi dall’avvocato Roberto Vallettini e dal suo collaboratore, l’avvocato Gianpaolo Carabelli. Domenica scorsa Roberto Vallettini è stato eletto sindaco di Aulla, alla testa di una lista di centrosinistra: «Io — spiega — conosco i carabinieri sotto accusa e mi sento di escludere i pestaggi. E non credo che gli eventuali abusi fossero un sistema. Rispetto il lavoro della magistratura inquirente però io faccio il lavoro della difesa. E come cittadino rimango perplesso».
il manifesto 15.6.17
I fatti di Lunigiana e il Parlamento
Tortura e non solo. Agli otto i carabinieri indagati vengono imputate violenze - che l’attuale codice penale consente di qualificare solo come «lesioni» - la cui origine risiede proprio nell’esercizio illegale di un potere legale
di Luigi Manconi
Le misure cautelari adottate nei confronti di otto carabinieri, su circa una ventina di indagati di due caserme della bassa Lunigiana, costituiscono un utilissimo manuale per la più puntuale lettura e la più attendibile interpretazione della legge sulla tortura di prossima approvazione.
Quest’ultima è una cattiva legge, innanzitutto perché – diversamente da quanto previsto dalla convenzione delle Nazioni Unite in materia – non definisce la tortura come un reato «proprio»: un reato, cioè, formulato sull’imputazione di quella fattispecie penale ai pubblici ufficiali e a chi esercita pubblico servizio. Nel testo approvato al Senato, la tortura è, invece, un reato «comune», volto a punire qualunque violenza intercorsa tra individui. Mentre sarebbe dovuto essere un reato «proprio», in quanto derivante in forma diretta da un abuso di potere. La tortura è, insomma, la fattispecie penale in cui incorre chi, custodendo legalmente un cittadino, abusa del proprio potere per esercitare una violenza illegale. E lo si sarebbe dovuto trascrivere così nel nostro codice, quel reato, non certo per uno speciale accanimento contro i corpi di polizia, ma proprio per tutelare meglio questi stessi corpi. La loro autorevolezza e il loro prestigio, la loro forza e – se volete – il loro «onore» dipendono dalla capacità di individuare e sanzionare adeguatamente chi, tra gli uomini dello Stato, abusa del proprio potere e commette illegalità, separandoli da quanti (e sono la maggioranza) si comportano correttamente. La vicenda, venuta alla luce proprio in queste ore, a carico di numerosi carabinieri della provincia di Massa Carrara, dimostra in maniera inequivocabile quanto il testo della legge sulla tortura che il Parlamento prevedibilmente approverà nelle prossime settimane sia sbagliato.
I fatti parlano chiaro. Agli appartenenti all’arma dei Carabinieri indagati vengono imputate violenze – che l’attuale codice penale consente di qualificare solo come «lesioni» – la cui origine risiede proprio nell’esercizio illegale di un potere legale. Le vittime (spacciatori e prostitute) vengono condotte in caserma in base a una norma esistente (magari pretestuosamente interpretata, ma questo è un altro discorso) e qui subiscono trattamenti inumani o degradanti, se non addirittura torture.
Evidentemente tutto ciò va confermato da una sentenza passata in giudicato, ma il quadro che si delinea è estremamente significativo. La tortura nasce nel diritto internazionale come crimine delle autorità pubbliche e non di soggetti privati, per i quali vi sono altri strumenti di repressione penale. Ha bisogno di tempi lunghi di prescrizione perché l’accertamento dei fatti non è agevole. E la sua configurazione come delitto «proprio» sarebbe di ben più concreto aiuto per il lavoro dei giudici. In quest’ultima, come in molte vicende precedenti, non siamo di fronte a ordinarie violenze tra comuni cittadini né a esercizi di efferatezza da parte di criminali sadici. Piuttosto abbiamo a che fare, se quanto finora emerso risultasse vero, con un sistema di comportamenti che, a partire dall’uso legittimo di istituti come il fermo e l’arresto, tendono a trascendere in uso arbitrario della forza che si fa pratica crudele. È qui il fondamento stesso del concetto di tortura e la sua ignobile verità.
Corriere 15.6.17
Facebook
Giallo sui dati dei clienti
Così il social network ha ingannato l’Europa
di Federico Fubini
Quando nel febbraio 2014 Facebook annuncia l’acquisizione di WhatsApp, Mark Zuckerberg prende un impegno che avrebbe ripetuto fino all’autunno scorso: l’azienda comprata, dice il fondatore del più vasto social network al mondo, «continuerà ad operare con indipendenza» dentro il nuovo conglomerato.
Tre anni dopo, la Commissione europea ha affibbiato a Facebook una multa da 110 milioni di euro per aver fatto esattamente l’opposto. Nel 2016, violando gli impegni presi e contraddicendo le spiegazioni tecniche offerte fin lì, Zuckerberg ha avviato un’inversione di rotta nella politica sulla privacy riguardo a WhatsApp. I dati personali degli utilizzatori della rete di messaggi da allora iniziano a essere condivisi con quelli di Facebook. È da agosto del 2016 che WhatsApp lancia aggiornamenti sui termini di servizio e le politiche di privacy che includono la possibilità di collegare i numeri di telefono dei clienti del servizio ai loro profili sul social network.
Può apparire un dettaglio insignificante, un «accetto» di più da cliccare sullo smartphone pur di liberarsi al più presto di una maschera dallo schermo e procedere con l’uso di un servizio. È invece una vicenda dai molti risvolti. Essa rivela come i dati di miliardi di persone comuni — decine di milioni di italiani — sono ormai così essenziali per il modello di business degli oligopolisti della rete che in loro nome accade l’imprevedibile. Solo fino a pochi anni fa, sembrava che Facebook o Google dessero valore a queste informazioni sugli utilizzatori solo per mirare meglio e rendere più efficaci le inserzioni pubblicitarie. Oggi il progresso nell’intelligenza artificiale permette anche altri usi in grado di generare nuove fonti di ricavo: fra questi, l’analisi dei testi dei messaggi attraverso algoritmi per valutare la personalità di un utilizzatore e fargli balenare servizi potenzialmente interessanti per lui.
Facebook ha scelto di fuorviare Bruxelles nell’affare WhatsApp, molto probabilmente, proprio perché i dati su numeri enormi di persone normali sono diventati tanto preziosi. Questa vicenda rivela così lo squilibrio di poteri fra i giganti digitali e gli uffici che (in teoria) dovrebbero vigilare sui loro eventuali abusi. Essa mette a nudo le asimmetrie nel controllo delle informazioni e nella comprensione dei risvolti tecnologici fra regolati e regolatori. Non è un caso se Facebook si è dimostrata disposta a mentire alla Commissione Ue in un modo che il governo italiano, presidente del Gruppo dei Sette, non potrebbe mai permettersi nei negoziati sulle crisi bancarie.
Nell’annunciare la multa, pochi giorni fa, Bruxelles ha sottolineato come i tecnici di Zuckerberg abbiano deliberatamente ingannato i controllori dell’Antitrust: «Facebook — notano gli uffici di Bruxelles — era consapevole della rilevanza della combinazione delle piattaforme sugli utilizzatori per la valutazione della Commissione», che doveva autorizzare o bloccare la fusione fra i due gruppi. Se dunque Facebook ha agito così con la più grande autorità di controllo Antitrust al mondo, è perché aveva correttamente calcolato che poteva permetterselo. La penalità sarebbe stata così insignificante che il gruppo di Zuckerberg ha rinunciato ai diritti di difesa — così guadagnando uno sconto sulla pena — non appena gli sono arrivate le contestazioni.
Risultato: i 110 milioni di euro che ora Facebook pagherà all’Unione Europea sono pari allo 0,56% del prezzo di acquisto di WhatsApp; per la precisione, sono uguali ai ricavi che Facebook registra in sette ore di normale attività di un giorno feriale. Per parte propria, la Commissione Ue avrebbe potuto portare la multa fino quasi al doppio di quella cifra, ma ha rinunciato. Non ha insistito perché avrebbe dato disco verde alla fusione fra i primi due protagonisti mondiali della messaggeria istantanea comunque, anche se Zuckerberg le avesse detto tutta la verità.
Dal resto, dalle stesse parole con cui Bruxelles autorizza l’operazione nel 2014, risulta chiaro i suoi tecnici come non avessero capito tutta la posta in gioco. «Facebook Messenger e WhatsApp non sono concorrenti stretti», si legge. Quanto ai dati sugli utilizzatori, la Commissione spiega che non è competente per la tutela della privacy e non sembrano esserci «questioni di concentrazione» industriale nel mercato pubblicitario. Zuckerberg naturalmente già allora era molto più avanti. Non può essere un caso se accetta di pagare per WhatsApp 22 miliardi di dollari, una cifra pari a 55 volte i ricavi di un’azienda i cui profitti netti nel 2014 erano ancora trascurabili. Così Facebook ha inglobato un potenziale concorrente prima che potesse diventare temibile e guadagna un nuovo punto d’osservazione e fruizione dei dati degli 1,2 miliardi di utilizzatori attuali del servizio.
Ora le autorità Antitrust dovranno ripensare ai loro strumenti di vigilanza del mercato e a come usarli. Nota Monique Goyens, direttore generale dell’Organizzazione dei consumatori europei: «È inaccettabile che le persone comuni siano esposte all’abuso dei loro dati da parte di Facebook. Le autorità Antitrust devono collaborare di più con quelle per la tutela della privacy».
Il Fatto 15.6.17
Anita Pallenberg, la donna che volle sedurre il diavolo
Morta a 73 l’anima femminile dei Rolling Stones: fu amante di Brian Jones dal 1965 al 1967 e compagna di Keith Richards, da cui ebbe tre figli, fino al 1980
di Federico Pontiggia
Se n’è andata senza mollare il colpo. E senza mandarle a dire: “Se perfino una giovane Posh Spice (l’ex Spice Girl Victoria Beckham, ndr) può scrivere la sua autobiografia, allora io non voglio scrivere la mia!”. Gliele avrebbero pagate a peso d’oro le memorie, eppure, lei si rifiutò a più riprese, subodorando come “volessero sapere solo degli Stones e di cose scabrose su Mick Jagger, e io no, non sono interessata”.
Brian Jones, Keith Richards e anche – senza esserci andata a letto, giurava – Jagger, Anita Pallenberg non li aveva semplicemente visti o conosciuti, ma vissuti: che altro aggiungere su carta? Con loro percorse l’intera filiera sesso droga rock n’ roll, innescata nel 1965 nel backstage degli Stones a Monaco dove la ventunenne Anita si presenta con un po’ di hashish e ne esce dalla camera d’hotel di Jones. Senza farsi illusioni: “È un’esistenza così solitaria, vivere con un rocker. Non importa quanto ti ami, amerà sempre di più la sua musica”. Poi, certo, si poteva discernere tra “il migliore di tutti, Keith Richards”, “un autentico blues man” quale Brian Jones e il deteriore Mick Jagger: “Ero troppo indipendente per lui. Non ero adatta. Lui è uno sciovinista”.
Si fa presto a dire groupie, Anita Pallenberg è stata molto di più, a un certo punto tra Sessanta e Settanta è stata perfino tutto: It Girl, musa, icona e “glamour negativo”, per dirla con la sua amica Marianne Faithfull. Bellissima e spregiudicata, irrefrenabile e irredimibile. Unica.
A darne l’annuncio su Instagram l’amica Stella Schnabel, è morta a settantatré anni laddove credeva non gliene spettassero più di quaranta. Va detto, ce l’ha messa tutta per disattendere il Robbie Williams di I hope I’m old before I die a favore di rock e dissoluzione: droghe leggere, lisergiche e pesanti, con una spiccata predilezione per l’eroina; alcoolismo a più riprese; acciacchi connessi e non, dalle anche ballerine all’epatite C. Nessun rimorso, nessun rimpianto e alcuna scorciatoia: “Quando vedo un Campari o una sambuca… mi piacciono le cose particolari, non solo vini o liquori. Ma non devo più bere”, confessava al Guardian quasi dieci anni fa, ripercorrendo una biografia Larger than life.
Non s’è fatta mancare nulla, i fidanzati illustri (il primo fu Mario Schifano) e i miliardari complici (John Paul Getty), l’avversione per la moda e gli studi intrapresi per diventare stilista, gli inizi da modella e gli ultimi anni a dipingere quadri botanici, passando per l’uno-due che ne cambia la strada: le botte di Brian Jones e il soccorso di Keith Richards, che nel ’67 la mette in macchina a Marrakech e ci fa tre figli, di cui due, Marlon e Angela, le sopravvivono.
Keith è stato il suo Rolling Stone, ma lei non è stata solo sua, e beninteso si parla di musica: il coro di Sympathy for the Devil è suo, Angie e You Got the Silver dicono di lei. Con il chitarrista è rimasta fino al 1980, passando per rehab e ricadute, finché un diciassettenne non si fa saltare le cervella nel suo letto a New York e segna il game over della relazione. Ma Anita quel tragico campanello d’allarme nemmeno lo sente, non può: “Non provai nulla. Questo è uno dei miracoli della droga e dell’alcool”.
Nata il 25 gennaio del 1944 a Roma, padre italiano agente di viaggi e madre tedesca segretaria, è passata dalla Dolce Vita alla Factory di Andy Warhol, dagli Stones al mito, senza mai farsi anteporre da una professione, una definizione, forse pure un destino.
Su tutti, provò a contenerla il cinema: Vivi ma non uccidere di Volker Schlondorff nel 1967 e la Regina Nera di Barbarella per Roger Vadim l’anno seguente; Dillinger è morto di Marco Ferreri (1969) e il fondamentale Sadismo (Performance) di Donald Cammell e Nicolas Roeg, al fianco di Mick Jagger. E, ancora, Philippe Garrel (Le berceau de cristal, 1976) e Harmony Korine (Mister Lonely, 2007) fino ad Abel Ferrara, che la dirige in Go Go Tales, Napoli, Napoli, Napoli e 4:44 L’ultimo giorno sulla Terra. L’ultima prova di Anita Pallenberg.