Corriere 1.6.17
La maggioranza perde pezzi e i cinque stelle fanno proseliti
di Massimo Franco
Più
l’asse tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi si consolida, più diventa
friabile la maggioranza di governo. Viene travolta qualunque resistenza
presente in Parlamento sia sulla riforma del sistema elettorale, sia
sulla prospettiva del voto anticipato. Ma gli scissionisti del Mdp
annunciano che non voteranno la fiducia sulla manovra economica. E il
ministro degli Esteri, Angelino Alfano, reagisce agli attacchi di Renzi
contro i «veti dei piccoli partiti», rinfacciandogli di aver fatto
cadere lui due governi; e di sabotare quello di Paolo Gentiloni.
Insomma, incombe il rischio di rotolare verso una crisi. Ma senza il
Movimento 5 stelle, Pd e Forza Italia non potrebbero avanzare come rulli
compressori.
Il fantasma del «nuovo patto del Nazareno» tra
leader dem e Berlusconi mette in ombra tutto il resto. C’è un imbarazzo
palpabile all’idea di un governo post-elettorale tra i due partiti: il
leader di FI è costretto a precisare che l’accordo è «sulle regole, non
politico», con un occhio al proprio elettorato. È anche grazie a questo
imbarazzo che i seguaci di Beppe Grillo possono appoggiare
l’accelerazione verso le urne, senza essere additati come responsabili
quanto le altre due forze. Il fatto di ribadire che non si alleeranno
con nessuno, nemmeno con la Lega, sembra metterli al riparo dal fuoco
incrociato. In questa fase, i veleni scorrono all’interno della
sinistra.
Debordano da un Pd dove la minoranza è in tensione. Ma
anche da quei settori che vorrebbero presentarsi come alternativa eppure
già litigano col gruppo dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia,
potenziale federatore dell’«altra sinistra». L’autoisolamento del M5S lo
protegge da questi conflitti; e anche dalle polemiche su una
compressione del dibattito alle Camere, che ricorda le forzature sull’
Italicum e sulle riforme costituzionali sottoposte al referendum del 4
dicembre. Allora, i Cinque Stelle tuonavano contro il governo. Ora,
invece, sono parte del terzetto dei partiti che marciano verso le urne.
I
parlamentari di Grillo fanno sapere che vigileranno sulla commissione
di indagine sul sistema bancario annunciata dal Pd entro metà giugno.
Luigi Di Maio accusa Renzi di anticipare il voto per prevenire una
sconfitta alle elezioni di novembre in Sicilia. E intanto cerca di
costruire alleanze all’esterno del Parlamento, in Vaticano, nella
magistratura. In un convegno del M5S, ieri, l’ex presidente dell’Anm,
Pier Camillo Davigo, ha ricevuto un’ovazione dopo avere attaccato il
centrosinistra sulla giustizia: nonostante il suo rifiuto di essere
candidato a Guardasigilli.
Di Maio, candidato premier in pectore,
accarezza sempre più l’idea che il M5S diventi il primo partito. Confida
nella fretta renziana, col segretario del Pd convinto che «votare sei
mesi prima o dopo non fa differenza»: parole che trascurano la questione
dirimente della Legge di stabilità e dei conti pubblici. Se non accade
nulla, il 7 luglio si avrà un nuovo sistema elettorale. Sarebbe
un’ottima notizia, ma dopo cominceranno le vere incognite. Il Pd dovrà
trovare un modo per far dimettere Gentiloni: e d’intesa con un Quirinale
che finora è costretto a fare da spettatore, ma non vuole né può
permettere di essere visto come mero esecutore delle decisioni dei
partiti.