lunedì 12 giugno 2017

ANCORA OGGI UN QUALCHE NOSTRO INCONSAPEVOLE COLLABORATORE
STA IMPEDENDOCI L’ACCESSO ALLE PAGINE ON LINE DEL CORRIERE DELLA SERA, CIÒ OSTACOLA PESANTEMENTE IL NOSTRO LAVORO QUOTIDIANO!
LO PREGHIAMO ANCORA INSISTENTEMENTE DI FARSI IMMEDIATAMENTE DA PARTE CHIUDENDO SUBITO LA CONNESSIONE CHE HA LASCIATO ACCESA ED EVITANDO  LA COSA PER IL FUTURO



DALLA STAMPA DI OGGI
nella miscellanea qui
http://spogli.blogspot.com/2017/06/ancora-oggi-un-qualche-nstro.html

La Stampa 12.6.17
La nostalgia di una natura perduta e ora ridotta in catene
di Luca D’Andrea

Fare lo scrittore significa origliare discussioni altrui, ruminarle e trasformarle in storie. La discussione in questione era una di quelle che conosciamo tutti: è estate, fa caldo, l’effetto serra, Trump, il condizionatore troppo alto o troppo basso o inesistente. Insomma il regno del «tutto già visto, tutto già sentito». Eppure è proprio nel già sentito che si annidano tragedia e farsa, ingredienti fondamentali per una di quelle storie che partono con un «c’era una volta» e, passando attraverso effetti speciali via via più stupefacenti, arrivano a un finale che mescola dubbi a possibilità di redenzione.
C’è stato un tempo in cui agli uomini veniva insegnato a procurarsi il cibo con la violenza. La caccia non è mai stata un affare pulito. Nemmeno l’agricoltura sfugge alla regola. Fare il contadino significava strappare sostentamento dalla nuda terra usando sudore e letame. Non lo dico io. Lo dice la Genesi.
Quando da bambino ho ascoltato per la prima volta il racconto della Cacciata non ho potuto fare a meno di immaginare Adamo ed Eva chini su un terreno brullo, incapaci di tracciare solchi per le sementi, troppo deboli e schizzinosi per torcere il collo a una gallina. Angosciati dalla vastità della loro ignoranza e della debolezza dei loro corpi. In altre parole, mi immedesimai nel ruolo di chi non ha idea di cosa significhi sopravvivere grazie alle proprie forze.
I miei (i nostri) nonni erano di un’altra pasta. Nati in un’Italia che da agricola procedeva verso un’economia industriale già in procinto di sbocciare nel mondo della finanza e del terziario, sapevano trasformare i maiali in salsicce, il grano in pane, e di certo non si sarebbero spaventati all’idea di passare una nottata sotto le stelle, al contrario di Adamo ed Eva, che immaginavo stretti l’uno all’altro, tremanti nelle tenebre della prima notte fuori dal Giardino.
Quella fu la notte in cui l’uomo divenne consapevole della tragedia che lo separava dal mondo circostante e iniziò la sua battaglia contro la natura. Una lotta che aveva un’unica regola: sappi che stai giocando una partita truccata.
Alla fine, perderai comunque.
Così, ad un certo punto, l’uomo iniziò a barare. Imparò a selezionare il bestiame per renderlo docile, a rendere la terra arrendevole e sempre più fertile. E fu così che dopo una lunga serie di sconfitte, l’uomo trionfò. Il trionfo, però, portò con sé la cecità. Per circa un secolo e mezzo, dagli albori della Rivoluzione industriale agli anni Ottanta, Adamo e Eva hanno coltivato l’idea che la fase successiva alla vittoria dovesse per forza essere quella dell’umiliazione.
Riempire gli oceani di scarti industriali, scaricare nei cieli tonnellate di anidride carbonica significava prendersi una rivincita. Non più l’uomo schiavo della natura, ma la natura, in catene ai piedi dei dominatori. L’uomo era tornato all’Eden, ma questa volta da conquistatore.
Se proviamo a immaginare che la Bibbia sia il resoconto di una discussione fra sconosciuti in viaggio (cosa che, in effetti, potrebbe anche essere) che dura ancora oggi attraverso la narrativa popolare, i film e (appunto) le chiacchiere da bar, allora queste ultime si trasformano nei più aggiornati versetti di una strana Genesi ellittica in cui la parola dominio è ormai di uso comune. È facile capirlo. Se fa caldo e il primo pensiero è quello della questione ecologica significa che il caldo è dovuto ad un colpevole e cioè noi, l’uomo. E se l’uomo è colpevole del disastro ecologico, allora l’uomo ha soggiogato la Natura. Un pensiero talmente tragico che la risposta non può che essere una farsa: tornare indietro. Illuderci di poter sopportare le grandinate che distruggono il raccolto, il suono della lama nella carne strillante, l’ecatombe di figli e amici dovuta al morbillo o all’influenza. Ed ecco, quindi, che la banale conversazione si trasformano in una storia. Anzi, in una favola.
La favola di uno schiavo che divenne re ma che poi, anziché comprendere che dominio non significava necessariamente umiliazione, anziché felicitarsi con sé stesso per la strada fatta e assumersi le responsabilità che la corona comportava, dopo aver buttato lì un «tutto già visto, tutto già detto», rincuorato dal suo desiderio di tornare a vivere nello strazio (che lo faceva sentire una persona migliore di quanto non fosse), andò a dormire sul suo bel letto di piume e sognò di un autobus privo di conducente, col motore acceso, fermo sul ciglio della strada. Un sogno così strano che al risveglio, per tutta la giornata, non fece che chiedersi il motivo per cui i passeggeri, anziché mettersi alla guida del veicolo e proseguire nel viaggio, non avessero fatto altro che chiacchierare del caldo. Alle volte persino annoiandosi.
Luca D’Andrea è nato a Bolzano nel 1979
Il suo primo thriller, «La sostanza del male» (Einaudi), è diventato un caso letterario

La Stampa 12.6.17
Corbyn: “Faremo cadere il governo della May
Presto nuove elezioni”

Jeremy Corbyn rilancia la sfida a Theresa May: «Posso ancora diventare primo ministro, è una questione di giorni». L’idea del segretario laburista è di modificare il programma che la premier presenterà a Westminster, e così farla cadere. «Voteremo contro insieme agli altri partiti», ha detto Corbyn dicendo che la situazione scaturita dal voto di giovedì scorso potrebbe portare già a fine anno o nel 2018 a nuove elezioni. Intanto un sondaggio rivela che la maggioranza dei britannici vuole le dimissioni della May. Il preferito per la successione è Boris Johnson. Intanto Downing Street ha smentito le indiscrezioni che davano come annullata la visita di Trump nel Regno Unito. [A.S.]

La Stampa 12.6.17
Il territorio che frena il movimento
di Federico Geremicca

Un po’ era nell’aria e i primi exit poll, a sera ormai tarda, ieri hanno confermato una tendenza alla quale molti facevano fatica a credere: il Movimento Cinque Stelle frena o addirittura arretra, restituendo il centro della scena politica - almeno in questo primo turno amministrativo - a centrosinistra e centrodestra, gli storici duellanti degli ultimi vent’anni.
Il Movimento di Beppe Grillo, infatti, sarebbe escluso dai ballottaggi in tutte le maggiori città andate al voto per la scelta dei nuovi sindaci. Da Palermo a L’Aquila, da Catanzaro a Verona, i candidati «grillini» - stando ai primi dati - subiscono una sconfitta che appare generalizzata e omogenea. Una brutta battuta d’arresto: che in un paio di casi almeno assume il profilo della beffa sanguinosissima.
I casi sono quelli di Parma e di Genova, la città di Grillo. Nel capoluogo ligure, dopo le polemiche e la contestata sostituzione della vincitrice delle primarie on line (Marika Cassimatis), il candidato pentastellato non arriva nemmeno al ballottaggio; e a Parma va ancora peggio, se possibile, visto che Federico Pizzarotti - primo importante sindaco pentastellato, poi espulso dal Movimento - sfiora il 40 per centro e si prepara a sfidare al ballottaggio il candidato del centrosinistra: mentre la lista ufficiale messa in campo da Grillo si fermerebbe a poco più del 2 per cento.
A trarre vantaggio dalla débâcle grillina sono centrodestra e centrosinistra, trainati da Pd e Forza Italia, partiti che apparivano fino a ieri in evidente difficoltà. È certo presto per ipotizzare il tramonto dell’anomalo tripolarismo italiano, ma il voto di ieri - se i dati saranno confermati - dimostra che centrodestra e centrosinistra, se uniti attorno a programmi e candidati credibili, hanno la possibilità di tornare competitivi. Non era scontato. E non è una novità da poco. Tanto che non è da escludere che una simile constatazione non abbia riflessi anche sulla discussione in corso intorno al modello di legge elettorale da adottare.
In primo piano resta, comunque, la battuta d’arresto subita dal M5S. Ci sarà tempo e modo - a spoglio concluso - per riflettere sulle ragioni di questa sconfitta, che arriva ad appena un anno dalla clamorosa conquista di Roma e di Torino. Hanno certo pesato (si pensi appunto a Genova e a Parma) le divisioni e gli scontri interni al Movimento; così come possono aver avuto un’influenza sia le non brillantissime esperienze amministrative in corso (un caso per tutti: Roma) quanto il passar del tempo che, lentamente, priva i pentastellati di quel «fattore novità» che - a volte - tanto pesa in politica.
Non è la prima delusione elettorale per i Cinque Stelle. Alle elezioni europee del 2014, infatti, calarono al 21% per cento, dopo il 25,5 ottenuto alle politiche dell’anno prima (mentre il Pd di Renzi cresceva addirittura di 15 punti percentuali). In quell’occasione Beppe Grillo ricorse al Maalox per alleviare il dolore della sconfitta. Non sarebbe male se stavolta, invece, riflettesse sugli errori fatti, soprattutto tra Parma e Genova. Prevenire, si sa, è meglio che curare: e qualunque medico, del resto, sconsiglierebbe di eccedere con l’uso del Maalox...

Il Fatto 12.6.17

Perdono solo i 5Stelle: fuori nelle grandi città
Nei centri principali resistono le antiche coalizioni (che a livello nazionale non ci sono più). Pesante crollo dell’affluenzaMatteo Renzi, sulle Amministrative aveva detto: “Sono soltanto un voto locale”
di Tommaso Rodano


Non sarà facile stabilire chi ha vinto, è molto più semplice invece indicare chi non l’ha fatto: secondo i dati che cominciano a prendere forma nel momento in cui il giornale va in stampa, il Movimento 5 Stelle dovrebbe essere escluso dai ballottaggi nei principali capoluoghi di provincia. Potrebbe arrivare al secondo turno solo a Taranto, dove il risultato è in bilico e i grillini conservano una flebile speranza. Una conferma delle croniche difficoltà dei grillini nel radicamento e nella selezione di una classe dirigente locale.
Nell’ultimo test prima delle Politiche, sono i risultati in cui sperava Matteo Renzi: centrosinistra e centrodestra dovrebbero andare al ballottaggio praticamente ovunque. Anche in questo caso, le conseguenze non sono cristalline. Difficile trarre indicazioni valide a livello nazionale: nei Comuni i partiti ricorrono a una formula – quella delle coalizioni – che a livello nazionale pareva seppellita per sempre, almeno fino al naufragio del “tedeschellum”. Uno schema irripetibile alle politiche (Mdp per esempio ha corso senza presentare il suo simbolo, in liste civiche spesso collegate al Pd). I primi ad esultare nelle maratone televisive non a caso sono i tifosi del ritorno alle coalizioni (come il leghista Matteo Salvini).
Il secondo dato è la flessione dell’affluenza. I numeri raccolti dal Viminale riguardano 849 città su 1.004: sono esclusi i Comuni siciliani, friulani e del Trentino. Il calo però è netto: si passa dal 66,8 per cento dell’ ultima tornata (quando però si votava su due giorni) al 60 per cento di ieri. In termini assoluti, ha votato oltre mezzo milione di persone in meno.
Ha pesato soprattutto il silenzio dei partiti in campagna elettorale. Erano coinvolte oltre 9 milioni di persone, quasi un quinto del corpo elettorale italiano. Le urne erano aperte in 25 capoluoghi di provincia, di cui quattro capoluoghi di Regione, e otto città sopra i centomila abitanti (Genova, Monza, Padova, Palermo, Parma, Piacenza, Taranto e Verona). Eppure queste Amministrative sono passate sotto traccia.
Renzi, per esempio, aveva speso appena una battuta: “Sono solo un voto locale”. Con la debacle grillina che sta prendendo forma, i commenti nelle prossime ore potrebbero essere decisamente meno disinteressati.
In giornata ai seggi non sono mancati i tentativi di frode. A Sant’Antimo, in provincia di Napoli, sono state arrestate tre persone: l’ipotesi è che avessero messo in piedi un sofisticato sistema per la compravendità di voti. Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, i tre promettevano dai 30 ai 50 euro in cambio della preferenza al candidato di una lista civica, Antimo Alfè. Con un metodo originale: si facevano consegnare la tessera elettorale, poi al momento della riconsegna l’elettore trovava all’interno un facsimile con il nome da indicare nell’urna.
Il deputato di Sinistra italiana Erasmo Palazzotto ha denunciato irregolarità a Palermo (nei quartieri Borgo Nuovo, Zen, Arenella, Cep e Sperone): “Seggi presidiati militarmente da galoppini con elenchi alla mano e fac-simile per orientare il voto. Tutti episodi riferibili a candidati che sostengono Ferrandelli”.
Infine, qualche nota di colore. Al suo seggio di Genova Beppe Grillo è stato fermato da un sondaggista dell’istituto Piepoli, ma si è rifiutato di partecipare all’exit poll. A Rignano sull’Arno, città della famiglia Renzi, papà Tiziano ha eluso cronisti e fotografi andando a votare all’apertura del seggio, alle 7 in punto. L’ultimo incontro con un cronista (di Repubblica.it) si era chiuso con le parolacce del babbo. Stavolta è stato più rapido.
di Tommaso Rodano

La Stampa 12.6.17
Il flop dei grillini nei territori
“Non si può fare finta di nulla”
Da Parma a Genova, i Cinque Stelle mancano il secondo turno Delusione tra i parlamentari: “È l’effetto-Raggi”. Di Maio nel mirino
Ilario Lombardo


È il paradosso del partito che vola nei sondaggi nazionali e crolla a livello locale. La sintesi sul M5S è tutta qui. E in fondo, come sarebbe andata a finire, l’aveva messa in musica lo stesso Beppe Grillo: «Tanto non andiamo nemmeno ai ballottaggi…» cantava ironico e profetico il comico, venerdì, al comizio conclusivo di queste amministrative a bassa intensità. L’ultimo giro di blues è stato in piazza Matteotti, nella sua Genova. Poca gente ad applaudirlo, ma in verità poca gente si è vista in generale ai comizi di tutti in candidati. 

Genova è uno dei due simboli del flop del M5S, la città di Grillo, che agli amici in questi mesi ha sempre confidato, un po’ scherzando un po’ no, di sperare di perdere per non ritrovarsi le proteste sotto la villa di Sant’Ilario. L’altro simbolo è Parma, dove il diseredato Federico Pizzarotti si è preso la sua vendetta: il sindaco uscente, l’ex dissidente numero 1 guarda dalla vetta in giù disgregarsi quello che resta del M5S. Poi c’è Palermo, il capoluogo perduto di una regione che resta ancora il sogno segreto di questo 2017 per i 5 Stelle, il trampolino da cui lanciarsi alla conquista del governo del Paese. La meta che sembrava così vicina però è ancora lontana. Prima bisognerà raccogliere i cocci dei territori. 
Il quadro è limpido. Nelle grandi città il M5S non agguanta il ballottaggio da nessuna parte. In alcuni casi non è nemmeno terzo o quarto, inchiodato sotto il 10%. Neanche a Taranto, la città dell’Ilva, dell’ambiente ammalato, i grillini hanno convinto i cittadini. A Genova e a Palermo si è compiuto il suicidio perfetto: prologhi che erano già epiloghi e che raccontavano il fallimento di un Movimento con pulsioni autodistruttive, incapace di radicarsi con una classe dirigente locale, preda di lotte tribali interne, tra candidati e capicorrente che si combattono a colpi di veleni e dossier. Genova, dove la diaspora ha prodotto tre candidati di matrice grillina, è stata la città del golpe online, contro cui si sono infranti i sogni dei molti che credevano nella democrazia diretta sul web: spazzata via dalla decisione di Grillo di sostituire Marika Cassimatis, legittima vincitrice delle primarie online, con Luca Pirondini, capace di raccogliere, secondo le prime proiezioni, solo il 20% di consensi. A Palermo il calvario dello scandalo firme false, di tre deputati di primo piano indagati e le faide tra bande opposte, è culminato nel gioco autolesionistico degli audio rubati per indebolire il candidato Ugo Forello, fermo al 16,8%. Lo schiaffo più forte però arriva da Parma dove Pizzarotti, lasciando Grillo e Casaleggio al loro destino, con un partito cucito sulla sua amministrazione ha ridotto il M5S a numeri da cespuglio, tra il 3 e il 4%%.
Ai vertici, però, i 5 Stelle ostentano una certa tranquillità che stona con la débâcle fotografata a urne chiuse. «Ce lo aspettavamo» si ripetono al telefono Grillo e lo staff della Casaleggio. Già alle nove di sera ai parlamentari arriva l’ordine di tacere e di evitare commenti. Qualcuno però ha voglia di parlare e sotto anonimato dice «non si può fare finta di nulla», che dopo «la figuraccia di Virginia Raggi, cosa potevamo aspettarci?». Già: Roma è lì a ricordare impietosamente un anno di caos amministrativo. E il dramma dei feriti di piazza San Carlo a Torino, avvenuto pochi giorni fa, potrebbe non aver aiutato. Ma al di là di un possibile effetto-Raggi, nella caccia al colpevole il deputato dice di essere in buona compagnia quando afferma che «c’è qualcuno tra noi che si atteggia a statista e aveva la responsabilità degli enti locali». A Luigi Di Maio si riferiscono gli scontenti di oggi, a lui e ai suoi fedelissimi Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, titolari di un ruolo sui territori dove la ricetta pentastellata non ha attecchito. «I comuni sono stati abbandonati dai 5 Stelle - commenta i dati Pizzarotti - Per loro sono sempre meno importanti, perché hanno perso la filosofia originaria dei meet-up e guardano solo alle percentuali nazionali». 
In questa distanza si misura il fallimento del M5S, si coglie la sua forza di partito di opinione nazionale e si comprendono i motivi di tanta insistenza sulla necessità di inserire il voto disgiunto nella legge elettorale. È una questione di sopravvivenza per un movimento che era stato creato attorno ai meet-up, motori di passionali campagne politiche spesso nate su problemi locali, ma adesso ragiona solo pensando a Palazzo Chigi. 
ìÈ il paradosso del partito che vola nei sondaggi nazionali e crolla a livello locale. La sintesi sul M5S è tutta qui. E in fondo, come sarebbe andata a finire, l’aveva messa in musica lo stesso Beppe Grillo: «Tanto non andiamo nemmeno ai ballottaggi…» cantava ironico e profetico il comico, venerdì, al comizio conclusivo di queste amministrative a bassa intensità. L’ultimo giro di blues è stato in piazza Matteotti, nella sua Genova. Poca gente ad applaudirlo, ma in verità poca gente si è vista in generale ai comizi di tutti in candidati. 
Genova è uno dei due simboli del flop del M5S, la città di Grillo, che agli amici in questi mesi ha sempre confidato, un po’ scherzando un po’ no, di sperare di perdere per non ritrovarsi le proteste sotto la villa di Sant’Ilario. L’altro simbolo è Parma, dove il diseredato Federico Pizzarotti si è preso la sua vendetta: il sindaco uscente, l’ex dissidente numero 1 guarda dalla vetta in giù disgregarsi quello che resta del M5S. Poi c’è Palermo, il capoluogo perduto di una regione che resta ancora il sogno segreto di questo 2017 per i 5 Stelle, il trampolino da cui lanciarsi alla conquista del governo del Paese. La meta che sembrava così vicina però è ancora lontana. Prima bisognerà raccogliere i cocci dei territori. 
Il quadro è limpido. Nelle grandi città il M5S non agguanta il ballottaggio da nessuna parte. In alcuni casi non è nemmeno terzo o quarto, inchiodato sotto il 10%. Neanche a Taranto, la città dell’Ilva, dell’ambiente ammalato, i grillini hanno convinto i cittadini. A Genova e a Palermo si è compiuto il suicidio perfetto: prologhi che erano già epiloghi e che raccontavano il fallimento di un Movimento con pulsioni autodistruttive, incapace di radicarsi con una classe dirigente locale, preda di lotte tribali interne, tra candidati e capicorrente che si combattono a colpi di veleni e dossier. Genova, dove la diaspora ha prodotto tre candidati di matrice grillina, è stata la città del golpe online, contro cui si sono infranti i sogni dei molti che credevano nella democrazia diretta sul web: spazzata via dalla decisione di Grillo di sostituire Marika Cassimatis, legittima vincitrice delle primarie online, con Luca Pirondini, capace di raccogliere, secondo le prime proiezioni, solo il 20% di consensi. A Palermo il calvario dello scandalo firme false, di tre deputati di primo piano indagati e le faide tra bande opposte, è culminato nel gioco autolesionistico degli audio rubati per indebolire il candidato Ugo Forello, fermo al 16,8%. Lo schiaffo più forte però arriva da Parma dove Pizzarotti, lasciando Grillo e Casaleggio al loro destino, con un partito cucito sulla sua amministrazione ha ridotto il M5S a numeri da cespuglio, tra il 3 e il 4%%.
Ai vertici, però, i 5 Stelle ostentano una certa tranquillità che stona con la débâcle fotografata a urne chiuse. «Ce lo aspettavamo» si ripetono al telefono Grillo e lo staff della Casaleggio. Già alle nove di sera ai parlamentari arriva l’ordine di tacere e di evitare commenti. Qualcuno però ha voglia di parlare e sotto anonimato dice «non si può fare finta di nulla», che dopo «la figuraccia di Virginia Raggi, cosa potevamo aspettarci?». Già: Roma è lì a ricordare impietosamente un anno di caos amministrativo. E il dramma dei feriti di piazza San Carlo a Torino, avvenuto pochi giorni fa, potrebbe non aver aiutato. Ma al di là di un possibile effetto-Raggi, nella caccia al colpevole il deputato dice di essere in buona compagnia quando afferma che «c’è qualcuno tra noi che si atteggia a statista e aveva la responsabilità degli enti locali». A Luigi Di Maio si riferiscono gli scontenti di oggi, a lui e ai suoi fedelissimi Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, titolari di un ruolo sui territori dove la ricetta pentastellata non ha attecchito. «I comuni sono stati abbandonati dai 5 Stelle - commenta i dati Pizzarotti - Per loro sono sempre meno importanti, perché hanno perso la filosofia originaria dei meet-up e guardano solo alle percentuali nazionali». 
In questa distanza si misura il fallimento del M5S, si coglie la sua forza di partito di opinione nazionale e si comprendono i motivi di tanta insistenza sulla necessità di inserire il voto disgiunto nella legge elettorale. È una questione di sopravvivenza per un movimento che era stato creato attorno ai meet-up, motori di passionali campagne politiche spesso nate su problemi locali, ma adesso ragiona solo pensando a Palazzo Chigi.

Repubblica 12.6.17
Stefano Folli
Il populismo paga i suoi tanti errori


NEL vuoto di quel che resta dei partiti, mai come questa volta svogliati e distratti, la tornata delle elezioni comunali era l’inevitabile specchio di una politica sfilacciata, senza idee. Eppure dal voto negletto sono emerse rilevanti indicazioni. Non tanto il ritorno del bipolarismo centrodestra/centrosinistra, perché servono ben altre conferme prima di poterlo affermare. Quanto la grave sconfitta del Movimento Cinque Stelle, la prima seria battuta d’arresto registrata da un Grillo che forse presagiva la disfatta per come nelle ultime ore appariva scontroso e infastidito nelle strade della sua Genova. Essere esclusi da tutti i ballottaggi che contano è un pessimo presagio, tanto più che le percentuali raccolte da nord a sud sono scarse per una forza che si è proposta in questi anni come alternativa al sistema.
È del tutto prematuro dedurre da questi dati che è cominciato il declino del M5S. Del resto, non c’è quasi mai omogeneità fra voto amministrativo e voto politico. I Cinque Stelle, nella loro storia breve e turbolenta, hanno dimostrato di essere a loro agio sul terreno delle elezioni legislative, mentre le vittorie nei comuni maggiori (Parma, Livorno, Roma e ora persino Torino) non hanno portato loro granché fortuna.
QUEL che è certo, un movimento radicale e populista ha bisogno di continui rilanci nel favore popolare. Un partito tradizionale, che vive di gestione del potere, può anche permettersi delle pause e dei passaggi a vuoto. Viceversa, per un movimento carismatico come quello che Grillo ha avuto l’ambizione di costruire, la crescita non può essere che continua. Quasi sempre la prima sconfitta segnala, se non altro, la fine della fase ascendente e la difficoltà di ripartire come se nulla fosse. Accadde così per l’Uomo Qualunque nell’immediato dopoguerra e per Poujade nella Francia degli anni Cinquanta.
Grillo paga per la prima volta i suoi errori. L’ultimo è recentissimo: aver dato la sua copertura al patto Renzi-Berlusconi sul falso modello tedesco. Un piccolo pasticcio parlamentare all’italiana da cui i Cinque Stelle sono usciti frastornati. E si capisce. Se si pretende la purezza, non si entra in certe combinazioni che hanno il sapore della “casta”, secondo l’ambigua terminologia grillina. Ma ci sono stati molti altri sbagli. La gestione Raggi a Roma prima o poi avrebbe presentato il conto. E l’infortunio di Chiara Appennino a Torino, con il disastro di piazza San Carlo, è accaduto troppo a ridosso del voto per non avere conseguenze.
Si potrebbe continuare. I litigi continui sul piano locale hanno lasciato il segno. A Parma Pizzarotti, personaggio emblematico, va al ballottaggio dopo essere stato espulso a suo tempo dal movimento e nessuno ha capito ancora bene perché. A Genova, come è noto, è stata cacciata da Grillo la candidata prescelta dai cittadini con il metodo delle primarie “via web”. Lo spettacolo di un partito che non rispetta le sue stesse regole, enunciate con tutta l’enfasi possibile, non è il miglior viatico per conquistare nuovi consensi. Quel tanto di campagna che il leader si è caricato sulle spalle non ha prodotto grandi risultati, come si è visto ad esempio a Taranto. O a Palermo.
Sul piano nazionale, il tentativo del movimento di trasformarsi in forza affidabile, persino moderata, sembra un po’ goffo. Si veda Di Maio che cerca di costruirsi un profilo europeista ed elogia francesi e tedeschi. Un’evoluzione è sempre possibile, non c’è dubbio, ma ha bisogno di tempo per essere credibile. Altrimenti ha il sapore di un espediente. E le operazioni fatte a metà, con eccesso di astuzia, finiscono per scontentare tutti. In questo caso, gli elettori.
Sta di fatto che la sconfitta grillina arriva nello stesso giorno in cui la Francia offre al presidente Macron la più squillante delle vittorie, in virtù di un sistema maggioritario fondato sui collegi che non ha niente, ma proprio niente in comune con l’Italicum, come pretenderebbero i nostalgici del sistema bocciato dalla Corte Costituzionale. In Francia sono sconfitti i nazional-populisti di Marine Le Pen. Ed è curioso come anche la leader del Fronte Nazionale avesse tentato nelle ultime settimane una cauta conversione, abbandonando i temi più aspramente anti-europei e ostili alla moneta unica. Chissà se anche gli elettori francesi sono rimasti sconcertati da questo zig-zagare, al pari degli elettori italiani dei Cinque Stelle.
In ogni caso, è evidente che il populismo ha conosciuto una serie di brucianti sconfitte in giro per l’Europa. Pochi mesi fa, dopo la Brexit e la vittoria di Trump, sembrava in procinto di conquistare l’Occidente. Oggi è del tutto ridimensionato. Vedremo quel che accadrà nel prossimo futuro, in Italia e altrove in Europa.

La Stampa 12.6.17
Ora a Renzi torna la tentazione del voto anticipato: a novembre
Si potrebbe puntare all’abbinamento con le Regionali siciliane per provare a evitare una possibile ripresa dei Cinque Stelle
di Fabio Martini


Ora la tentazione del «contropiede», di chiudere il prima possibile la legislatura è destinata a tornare. In cuor suo Matteo Renzi non l’ha mai archiviata.
E nelle ultime ore la scomparsa dei Cinque Stelle dai ballottaggi in tutte le principali città fa tornare l’appetito al leader del Pd in vista di una accelerazione verso le elezioni anticipate. Ieri sera Matteo Renzi è rimasto silenzioso: è arrivato in tarda serata al Nazereno e, pur non escludendo esternazioni in Rete durante la notte, il primo commento ufficiale arriverà oggi.
Certo, nelle prossime ore il leader del Pd potrà cantar vittoria perché quasi ovunque i candidati di centrosinistra vanno al ballottaggio, anche se sarà complicato legare la buona performance delle coalizioni e dei candidati ad un effetto-Renzi per la semplice ragione che l’ex presidente del Consiglio non soltanto non si è fatto vedere nelle principali città chiamate al voto, ma non ha mai evocato un valore politico per queste amministrative. E quanto al risultato delle liste del Pd, i primissimi dati (da verificare al termine dello spoglio) indicano risultati inferiori a quelli sin qui raggiunti dai Democratici nelle precedenti amministrative.
Dopo la trasmissione degli exit poll alle 23, Renzi ha preferito non commentare a caldo le prime proiezioni, ma chi ha parlato con lui in queste ore consiglia di non sottovalutare la sincerità delle sue assicurazioni sulla durata della legislatura - e dunque del governo Gentiloni - ma al tempo stesso suggerisce di considerare ancora attivo il «piano B», a parole archiviato.
Con un’idea in più rispetto a quella circolata nelle settimane scorse: se non si farà a tempo a votare il 24 settembre, la subordinata può diventare il 5 novembre, data nella quale sono state già fissate le elezioni regionali siciliane. Un abbinamento, Politiche-Regionali, che consentirebbe al Pd di assorbire ed evitare un passaggio ritenuto altamente probabile: la vittoria dei Cinque Stelle in Sicilia. Un risultato temuto da Renzi ogni ragionevole misura, perché una vittoria dei «grillini» nell’ultimo test elettorale importante prima delle Politiche potrebbe determinare un effetto-trascinamento sulle elezioni nazionali, a quel punto imminenti.
Certo, l’analisi sia pure sommaria dei primi risultati elettorali non è molto gratificante per il Pd. Nella città più importante nella quale si è votato, Genova, al ballottaggio va Gianni Crivello un personaggio più vicino alla ditta» (gli ex Pci-Ds) piuttosto che a Renzi e oltretutto dai primissimi risultati delle liste, quella del Pd sembra destinata ad attestarsi su percentuali che potrebbero relegare il partito al peggior risultato della sua storia. A Parma, in quella che un tempo era l’Emilia «rossa», il candidato del Pd è al secondo posto, con un distacco che pare incolmabile dal sindaco Pizzarotti. A Palermo il sindaco uscente, Leoluca Orlando risulta eletto al primo turno ma il Pd è entrato nella coalizione vincente soltanto a condizione di rinunciare al proprio simbolo. Più promettenti le situazioni a Verona e Catanzaro dove il centrosinistra dovrebbe andare al ballottaggio ma in entrambi i casi il risultato delle liste del Pd (per quel che valgono in elezioni comunali) risulta su percentuali non rilevanti. E comunque tra i candidati sindaco che accarezzano speranze di vittoria al secondo turno nessuno può essere definito un renziano “doc”. Ieri sera il primo commento a caldo da parte del Pd è venuto da Matteo Ricci, responsabile Enti locali: «Il M5S, se i dati sono confermati, non arriva al ballottaggio in molte città ed è questo il dato politico».
Test difficilmente decrittabile per le formazioni alla sinistra del Pd, La formazione nata dalla scissione del Pd, l’Mdp, nel 64% dei capoluoghi di provincia era alleato col Pd, in alcune città (Lodi. Cuneo, Asti, La Spezia) non era presente e non aveva candidati sindaci in realtà importanti, mentre a Genova e l’Aquila Articolo Uno aveva appoggiato liste civiche. Per il neo-partito di Bersani il test dunque sarà soltanto sul voto di lista, disponibile solo a partire da oggi.

Repubblica 12,6.17
L’intervista.
Matteo Salvini: “Le elezioni comunali sono molto diverse dalle politiche”
“Coalizione possibile ma solo se si riconosce che guida il Carroccio”
di Carmelo Lopapa


ROMA. «Se centrodestra unito deve essere, che sia pure, ma a traino Lega. È evidente: è quel che è venuto fuori dalle urne. Ovunque ci affermiamo, lo facciamo grazie al nostro ruolo determinante. Chi vuole se ne può anche fare una ragione». Matteo Salvini risponde al telefonno all’1.00 da un supermercato Carrefour di Milano, alle prese con una «spesa notturna, perché non ho avuto tempo prima». Il tono sprizza entusiasmo per i risultati che i collaboratori di minuto in minuto gli girano.
È tornato il bipolarismo centrosinistra- centrodestra, segretario Salvini?
«Grande soddisfazione, intanto, dopo i 150 incontri pubblici e i comizi. Conferma che stare in mezzo alla gente serve ancora. Non è vero che la gente se ne freghi, che non sia interessata, se uno fa la fatica di girare paese per paese i frutti si raccolgono. Sono stato in centri in cui Renzi va al massimo col navigatore e lì ho vinto. A Morciano di Romagna, a Borgosesia. A Genova, storicamente di sinistra, sono stato cinque volte. Ma siamo al ballottagio in Lombardia anche a Monza, Como e in diversi altri centri ».
Merito anche del tracollo Cinque stelle?
«I grillini col poco e niente raccolto a Roma e Torino hanno
chiarito agli elettori di cosa sono capaci».
Il risultato di questo voto, assieme al fallimento del sistema elettorale “tedesco”, spingerà il centrodestra all’unità?
«Un conto sono le elezioni comunali, cioè in realtà in cui hai un’idea comune della sicurezza o delle case popolari, altro il livello nazionale, dove devi aver la voglia di metterti attorno a un tavolo e ragionare di idee e programmi comuni».
Intende dire che con Berlusconi non ragionate insieme?
«Intendo dire che non si possono più sentire quei discorsi sulla Lega eccessiva, che urla troppo su immigrazione, sicurezza, Europa. Senza di noi non si va da nessuna parte. È questa la realtà ».
Con Berlusconi farete ora comizi insieme da Genova a Verona?
«Io lo avevo già detto al primo turno, venga, facciamoli questi comizi insieme».
E invece?
«Io li ho fatti, ma lui non c’era. Ognuno la campagna la fa a suo modo. Chi coi videomesaggi, chi macinando migliaia di km. Io da domani torno a correre dall’Aquila a Como. Non sarebbe male se tutti si spendessero come noi».
Ma da quanto non vi vedete o sentite col leader di Fi?
«Vedere da tanto, dall’anno scorso. Sentire, ci siamo sentiti, per Pasqua, poi quando si è fatto male, poi per parlare di amministrative. Ma sì, non c’è bisogno di cenare insieme tutti i lunedì per dirsi qualcosa».
Lavorerete a una federazione con Fi?
«Ce la metteremo tutta, però bisogna essere chiari. Io escludo, se il sistema sarà proporzionale, che la Lega andrà mai a sostenere un governo a guida Pd. Mi piacerebbe altrettanta chiarezza dagli alleati. Se manca quella...».
Legge elettorale, discorso chiuso?
«Noi siamo con 30 deputati, non possiamo condizionare e non poniamo ostacoli: insomma, facciano quel che vogliono, la priorità per noi è che gli italiani votino prima possibile. Preferiamo il maggioritario. Renzi e Berlusconi fanno un’altra scelta, ora non so se si rimetteranno al tavolo. Io di certo non siedo più ad alcun tavolo con loro».
Crollano tutti gli antieuropeisti in Europa. Correggerete la vostra linea?
«Non ci penso proprio. Non moriremo di trattati Ue. Siamo nel giusto e continuiamo».

Il Fatto 12.6.17
La legge elettorale è una barzelletta del IV secolo d.C.
di Orazio Licandro


Un intellettuale (scholastikos), un pelato e un barbiere erano in viaggio e si erano accampati in un luogo solitario. Decisero che sarebbero stati svegli a turni di 4 ore per fare la guardia ai bagagli. Quando fu il turno del barbiere, volendo passare il tempo, questi rase la testa dello scholastikos e quando finì il turno, lo svegliò. Non appena sveglio, lo scholastikos si sfregò la testa e scoprì di non avere più capelli. “Il barbiere – disse – è un vero idiota. Ha sbagliato tutto e al posto mio ha svegliato il pelato”.
Si tratta di una barzelletta appartenente a un’antica e varia raccolta di storielle in lingua greca del IV o V secolo d.C.
I lettori mi perdoneranno, ma non ho resistito allo sfizio di proporla dopo averla letta nel corso di una felice coincidenza. Non era ancora nemmeno cessata l’eco dei roboanti titoli dei quotidiani nazionali che annunciavano agli italiani e al mondo intero la grande intesa sul Merdinellum, cioè la nuova legge elettorale, tra Pd, Forza Italia e M5S, che un fatto increscioso sbriciolava quel fatto epocale, quella convergenza imprevedibile (perché impossibile) tra partiti e i loro implacabili nemici. Al primo voto parlamentare, 100 franchi tiratori e ampi settori del M5S hanno demolito il granitico patto politico su una riforma elettorale che farebbe passare alla storia come un luminoso statista il padre del Porcellum, ovvero il senatore Roberto Calderoli. Insomma, un brusco risveglio per quei grandi leader. Ora, scegliete pure voi chi tra Renzi, Berlusconi e Grillo sia lo scholastikos, chi il barbiere e chi il pelato. E consoliamoci almeno con il gusto di ridere insieme con gli antichi.

La Stampa 12.6.17
“Adesso le traduzioni automatiche sfidano quelle degli specialisti”
I sistemi impareranno sempre più da soli
di B. Ruf.


«Siamo di fronte a un nuovo cambiamento in campo informatico: il passaggio dal mobile all’intelligenza artificiale», ha scritto di recente il ceo di Google Sundar Pichai. «Per questo ci troviamo a reinventare i nostri prodotti, adattandoli a un mondo che consente di interagire con la tecnologia in maniera più naturale». «Vuol dire che il prossimo motore di ricerca non sarà programmato, ma avrà imparato da solo come trovare le risposte migliori per ciascuno», commenta Emmanuel Mogenet, responsabile del Centro di Ricerca Google sull’intelligenza artificiale di Zurigo.
È il concetto di «unsupervised machine learning», l’apprendimento senza tutore)?
«Esattamente. Oggi la macchina ha un insegnante umano: mostriamo al computer una quantità enorme di gatti, ad esempio, e ogni volta che la macchina sbaglia viene corretta, finché non impara a riconoscere il gatto. È il machine learning nella sua forma più comune, in cui abbiamo le domande e le risposte, servono solo tanti dati. Con l’apprendimento senza tutore, invece, la macchina ha le domande ma non le risposte, deve trovare le regole per arrivarci. È molto complicato e non funziona ancora bene, ma è un campo promettente».
E segretissimo…
«Pubblichiamo tutte le nostre ricerche su una piattaforma aperta: possono utilizzarle le Università, ma pure Apple o Facebook».
Fino a che punto ha senso l’analogia tra intelligenza umana e artificiale?
«Non sappiamo quasi niente di come funziona il cervello umano, la parte più studiata è la corteccia visiva, che sovrintende al meccanismo della visione, e a quella sono ispirate le reti neurali. Ma i sistemi artificiali sono semplicissimi e stupidissimi».
Quindi non c’è da aver paura?
«In ambiti molti ristretti, i computer sono già più avanti rispetto all’uomo. Si parla molto di intelligenza artificiale perché comincia ad avere applicazioni interessanti, ma al momento è troppo limitata per competere con quella umana, ci vorrà almeno un secolo perché accada».
Come viene applicata concretamente da Google?
«Da anni utilizziamo l’intelligenza artificiale per filtrare lo spam in Gmail: blocca le mail indesiderate, che così non finiscono nella posta in arrivo. Ma oggi questa tecnologia è praticamente ovunque in Google. In Foto è possibile cercare tutte le nostre foto con il sole, una sedia, o il mare: la macchina capisce da sola se quell’elemento è contenuto nell’immagine. Usiamo poi il machine learning per avere traduzioni equiparabili o migliori di quelle fatte dagli esperti. E nelle ricerche, dove ci consente di eliminare la pornografia dai risultati».
L’intelligenza artificiale riconosce anche bufale e fake news?
«Non possiamo farlo ancora, perché è difficile capire cosa sia una fake news: il machine learning è tanto efficace quanto chi lo programma, e se gli esseri umani sono in disaccordo sulla definizione di fake news non ci si può aspettare che la soluzione arrivi da un computer». [b. ruf.]

Repubblica 12.6.17
Uno studio dell’Università di Siena su 13 città. Gli incassi vanno soprattutto alle grosse agenzie di intermediazione
Case in centro ma ricavi per pochi così Airbnb ha invaso l’Italia
Ernesto Ferrara


CONDIVISIONE SÌ, ma non dei guadagni. I centri storici delle principali città italiane sono ormai diventati un gigantesco Airbnb: a Firenze quasi il 20% delle case dentro le mura medievali è in affitto sulla piattaforma turistica, a Matera addirittura il 25%, a Roma l’8%, a Venezia il 9 e le percentuali sono in crescita dappertutto, da Catania a Milano. A dispetto del concetto di “sharing economy” però su Airbnb i grossi guadagni sono ben poco “shared”, condivisi. Anzi si concentrano sempre più nelle mani di pochi. A Milano ad esempio un unico soggetto ha accumulato più di 520 mila euro solo nel 2016 mentre il 75% degli host ha guadagnato meno di 5.000 euro in un anno. A Roma il 48% dei proprietari è sotto 5.000 euro e un fortunato 0,6% sta sopra 100 mila euro mentre a Firenze, dove l’incasso medio per gli oltre 8 mila host di Airbnb l’anno scorso è stato di 5.300 euro, uno solo è arrivato a incassare la bellezza di 700 mila euro.
È una ricerca del laboratorio Ladest della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena a fare luce, forse per la prima volta in maniera analitica, sull’altra faccia di Airbnb. Uno studio durato due anni su 13 città italiane — sarà presentato a Lisbona a fine mese — esplora le dinamiche spaziali ed economiche del fenomeno delle locazioni turistiche. Il boom delle offerte, la crescita degli host che sono ormai 121 mila in Italia e tutto quello che c’è dietro un mercato dal valore enorme: da una parte quella che i ricercatori Antonello Romano e Stefano Picascia chiamano “airification” delle città, la progressiva “hotelizzazione” degli immobili dei centri storici, dove la residenza è in calo; dall’altra la disuguaglianza crescente tra chi guadagna moltissimo e chi quasi nulla sulla piattaforma.
Grosse agenzie di intermediazione, “super host” che gestiscono per conto terzi decine se non centinaia di appartamenti a scopo turistico, specialmente nei centri storici, da Firenze a Catania, finiscono per accaparrarsi la fetta più grossa di una torta milionaria, lasciando le briciole a una massa di proprietari sedotti e abbandonati dal mito della sharing economy. Per la prima volta lo studio di Siena ha calcolato gli squilibri dei ricavi da Airbnb nelle città, arrivando a stabilire che le distanze tra i top host e la massa sono in crescita: l’indice “Gini”, quello che gli economisti usano per calcolare le disuguaglianze e che nella popolazione italiana è poco sopra lo 0,3, su Airbnb è al doppio: 0,7 a Milano, 0,67 a Catania, 0,66 a Firenze. Su una scala da 0 a 1 sono dati elevatissimi. E in crescita quasi ovunque. Secondo Romano e Picascia anche l’idea di una tassazione non progressiva — la cedolare secca al 21% decisa dal governo — applicata ad un sistema con molte disuguaglianze, finirebbe per produrre effetti distorsivi.
Ormai decine di migliaia le case disponibili: nel 2016, 13.159 a Milano, 21.687 a Roma, 8.193 a Firenze, 5.637 a Venezia, 4.058 a Napoli, 2.577 a Bologna. Dappertutto le case in offerta sono in grande aumento tra 2015 e 2016, addirittura +135% a Bologna in un anno, +219% a Napoli. Crescono soprattutto le case “intere”, gli appartamenti piuttosto che le stanze: a Firenze oltre 18% dell’intero patrimonio immobiliare del centro storico è un Airbnb, come dire una casa su 5, il 25% a Matera, un appartamento su 4 tra i sassi è in affitto on line. A Matera l’80% delle offerte totali sono case intere, il 72% a Firenze, il 74 a Venezia, il 69 a Milano. A Firenze la stragrande maggioranza dell’offerta è concentrata sul centro storico, circa l’80%, ma ci sono città come Roma, Bologna e Siena dove le case intere in affitto su Airbnb aumentano anche fuori dal centro.

Repubblica 12,6.17
La campagna elettorale della camorra: 30 euro a voto
di Ottavio Lucarelli


TRE ARRESTI A SANT’ANTIMO, NEL NAPOLETANO. SEQUESTRATE 321 TESSERE ELETTORALI A SOSTEGNO DI UN CANDIDATO DEL CENTRODESTRA

NAPOLI.
Centinaia di tessere “sequestrate” agli elettori e confezionate nella notte tra sabato e domenica per essere restituite agli elettori con il facsimile del candidato al consiglio comunale Antimo Alfè, esponente di una civica di centrodestra a sostegno dell’attuale vicesindaco di Forza Italia Corrado Chiariello. Operazione accompagnata dalla promessa di pagare ogni voto da 30 a 50 euro. Accade a Sant’Antimo, città di 34 mila abitanti a Nord di Napoli.
La mano della camorra sulle elezioni comunali. I tre, finiti a Poggioreale, sono stati scoperti dai carabinieri in possesso di 321 tessere elettorali. Due incensurati di 54 e 24 anni e un pluripregiudicato di 41 anni. Le tessere, su disposizione della Procura, sono state restituite agli elettori, interrogati dai carabinieri, per garantire comunque il diritto di voto.
Accade nella roccaforte del deputato di Forza Italia Luigi Cesaro, indagato la scorsa settimana dalla Dda di Napoli in un’inchiesta sulla gestione degli appalti proprio nel comune di Sant’Antimo per minacce a pubblico ufficiale, reato aggravato per le “modalità mafiose”, in relazione a pressioni che Cesaro avrebbe esercitato nei confronti di una funzionaria per la realizzazione di opere da parte di imprese di cui sono titolari i fratelli, precedentemente già arrestati.
L’aspirante sindaco Corrado Chiariello ha preso le distanze: «Gli arresti denotano un modo delinquenziale, lontanissimo dalla mia idea di amministrazione della cosa pubblica. Il beneficiario della compravendita sarebbe il candidato di una lista civica a mio sostegno. Qualora i suoi voti dovessero risultare fondamentali per la mia elezione, sono pronto a rinunciare agli stessi». Pronta la reazione del candidato sindaco del Pd Aurelio Russo: «Questa è solo l’ultima vergogna. Nel comizio di chiusura avevo detto che qui le schede si compravano e vendevano, un sistema collaudato che questa volta è scoppiato loro tra le mani. Stendo un velo sulle dichiarazioni del candidato sindaco del centrodestra».
Alcuni dei titolari delle tessere elettorali, interrogati dai carabinieri, hanno ammesso di aver consegnato il documento con l’impegno di passare a riprenderlo per votare il candidato indicato nel fac simile in cambio di somme di denaro da 30 ai 50 euro. Gli stessi carabinieri nella serata di sabato erano stati insospettiti da un insolito viavai e hanno fatto irruzione nella casa del 54enne scoprendo i tre alle prese con tessere e facsimile. Tutti portati a Poggioreale con l’accusa di associazione per delinquere.

L’episodio si è verificato nella roccaforte del deputato di Forza Italia Luigi Cesaro La denuncia del candidato del Pd “Noi l’avevamo detto che compravano il consenso”

Repubblica 12.6.17
Daniel Cohn-Bendit. La Voce storica dei Verdi
“La sinistra storica perde perché è pessimista”
Andrea Tarquini


«IL messaggio dei partiti di sinistra storici europei è diventato illeggibile. Macron invece è moderno, pragmatico, a suo modo di sinistra con l’idea di flessibilità sociale-solidale, così si risponde». Daniel Cohn-Bendit, voce storica dei Verdi e dell’intelligentsija di sinistra europea, la vede così.
In Francia Ps all’9%, in Germania Spd arranca dietro Merkel, nel Regno Unito la sinistra avanza ma con programmi radicali.
Che succede nella sinistra europea?
«Due fenomeni. Primo, il progetto socialdemocratico è divenuto illeggibile. Credono a torto che basti promettere più eguaglianza, invece non è così: progetto inascoltabile. È un problema analogo per gli ecologisti, che non rinnovano i loro progetti. L’eccezione britannica è dovuta ben più al cumulo di errori di Theresa May, senza cui il Labour non avrebbe avuto rimonta. May è il contrario di Merkel, eppure il Labour non ha saputo cogliere appieno questa occasione».
I partiti di sinistra di governo possono ancora vincere le elezioni, o devono essere più oppositori critici?
«Credo che per vincere elezioni occorra essere più innovatori, non più oppositori o critici bensì saper rispondere alle sfide del mondo d’oggi. Lo vediamo bene in Francia: il liberalismo sociale di Macron conduce e conquista il centro della società. Non si vince più a sinistra, più a destra o più centristi, ma con idee per il mondo di domani, con idee di riforme sociali, liberali ed ecologiste, che prepareranno le nostre società al futuro».
Si può considerare di sinistra Macron?
«Macron è una risposta. Il suo liberalismo sociale lo giudico anche in parte di sinistra. Con idee come la flexi- sécurité, con nuove idee sull’energia, lui è una risposta a interrogativi e problemi delle nostre società e del sistema economico. Macron ha dato un segnale ottimista a livello europeo, mentre la sinistra è ferma al suo pessimismo, al “tutto va male”. Il malessere non mobilita più, la gente vuole liberarsi da visioni pessimiste».
E il pericolo populista, vedi anche alla voce Trump e Putin?
«Dipende. Macron è una chance incredibile per l’Europa perché con il suo volontarismo spingerà la Ue a ridarsi capacità d’investimento e crescita. Trump e Putin sono forti solo se noi europei siamo deboli».

Repubblica 12.6.17
L’intervista.
L’autore di Trainspotting riflette sul Paese uscito dalle urne: “Ora la Brexit dura è un’ipotesi impossibile”
La rabbia di Irvine Welsh “Ci ha portato al caos Theresa ha i giorni contati”
Antonello Guerrera


Oramai il Regno Unito è «a total mess», «un casino totale». Irvine Welsh ripete più volte queste parole, mentre mastica la pancetta della colazione e fa gracchiare la cannuccia del frullato. Per il celebre scrittore scozzese, 58 anni, quello che sta accadendo in Gran Bretagna è un caos folle, come nel suo romanzo più famoso, “Trainspotting”. Non a caso, Welsh vive da un po’ a Chicago, negli Stati Uniti. Ma resta uno scozzese fiero, anche se non è riuscito a votare.
Chi avrebbe scelto, Welsh?
«I laburisti di Corbyn in Inghilterra. In Scozia lo Scottish National Party (Snp). Perché è grazie ai laburisti scozzesi che una premier incompetente come May è ancora in sella».
Cosa intende dire?
«Corbyn sarebbe potuto diventare premier se i laburisti scozzesi, di nuovo in ascesa, non avessero rubato voti allo Snp, permettendo così ai conservatori di strappare molti seggi».
È la legge del sistema elettorale britannico.
«Già. Ma fosse solo questo il problema. La politica mi piace sempre meno. Anche i voti, oramai sono così volatili, fluidi. È un casino totale. Tra qualche anno potrebbe succedere davvero di tutto».
Che futuro ha il Regno Unito?
«Non mi stupirebbe un secondo referendum per l’indipendenza della Scozia, che sostengo da sempre, nell’arco di cinque anni. Ma al momento mi pare inopportuno, perché noto solo una gran confusione, come nelle trattative per la Brexit, che mi sembrano lunari e confusionarie».
Lei, fermo europeista, è favorevole a un secondo referendum anche sulla Brexit?
«No, almeno per ora. Provocherebbe ulteriore instabilità. Ma certo, col passare dei mesi e dei negoziati, la pressione dell’opinione pubblica per una nuova consultazione crescerà sempre di più. È il primo stupido referendum che non avrebbe mai dovuto tenersi».
E ora cosa succederà?
«I negoziati saranno difficilissimi, non solo a Bruxelles ma anche nello stesso Regno Unito: l’Unione Europea fa comodo a molti britannici, dalla City agli agricoltori nordirlandesi che prendono molti soldi dall’Ue. Come farà May, dopo questa batosta, a insistere su una ‘Brexit dura’? Avrà tutti contro. Vedremo cosa ne uscirà fuori. Solo in quel momento potrebbe essere sensato votare per la seconda volta».
Come giudica il lavoro di May?
«Un disastro, totalmente inadeguata, ridicola sulla sicurezza. La sua credibilità è distrutta, ma chi le crede più? Ha i giorni contati. Come abbiamo visto nel centro e nel sud dell’Inghilterra, non solo la classe operaia del Nord, ma anche quella medio e medio-alta hanno capito che non possono fidarsi dei conservatori, perché insieme alle banche finiranno per rubare tutto anche a loro. Non a caso, Corbyn ha vinto persino a Kensington, il quartiere dei ricchi di Londra ».
Corbyn potrà mai diventare premier?
«Lui è un anti-establishment e ha attirato voti ovunque: ex laburisti che erano passati all’estrema destra Ukip, giovani, gli europeisti scottati da Brexit e ora anche la classe media. Deve sfruttare la fiducia del momento: molti britannici pensano che Corbyn possa offrire loro una vita molto più decente di quella di May. Se si gioca bene la credibilità che ha acquisito, diventare premier non sarà poi così difficile».

Non solo gli operai: anche la classe medio-alta ha capito che non può fidarsi di questo partito conservatore
Se gioca bene la credibilità acquisita, Corbyn potrà essere premier: tanti pensano che offrirà loro una vita migliore

Repubblica 12.6.17
Nell’anniversario della pubblicazione de “Il giocatore” una riflessione matematica sulla “ludopatia letteraria” del grande scrittore russo
Il romanzo d’azzardo e l’errore di Dostoevskij
Piergiorgio Odifreddi


Fëdor Dostoevskij soffriva di epilessia. Si racconta che abbia avuto il primo attacco l’8 giugno 1839, a diciott’anni, quando ricevette la notizia che il padre era stato ucciso dai propri contadini, esasperati dai suoi maltrattamenti. Non ci sono testimonianze serie al proposito, ma questo non impedì
a Sigmund Freud di ricamarci sopra comunque, alla sua solita maniera, nel saggio Dostoevskij e il parricidio (1927). Le prime crisi accertate di epilessia lo scrittore le ebbe in seguito al trauma di una finta fucilazione, alla quale fu sottoposto il 23 dicembre 1849. La pena capitale per sedizione era infatti stata commutata dallo Zar nei lavori forzati, poi descritti nelle Memorie dalla casa dei morti (1862), ma la notizia venne comunicata ai condannati solo dopo una macabra messinscena, che lasciò un segno indelebile su molti di loro.
Nonostante la rimozione di Freud, che declassava l’epilessia di Dostoevskij a un sintomo isterico, la malattia era non solo fisiologica, ma ereditaria: l’aveva anche il figlio Aleksej, che ne morì a soli tre anni. Ma lo scrittore non viveva le crisi in maniera puramente negativa: al contrario, le paragonava a esperienze mistiche, e dichiarò che non le avrebbe scambiate per nessun’altra gioia al mondo. Oltre che in questa prima malattia, fisiologica, Dostoevskij sperimentò il doppio vincolo dell’esaltazione mista al dolore anche in una seconda malattia, psicologica: il vizio del gioco, al quale egli dedicò il romanzo Il giocatore, e Freud la seconda parte del proprio saggio. In Dostoevskij mio marito (1916) la moglie Anna descrive con molta comprensione lo stress materiale che il gioco causava al marito e alla famiglia, ma anche lo stimolo intellettuale che egli sapeva trarre dall’indigenza e dalla sofferenza per scrivere le sue “opere malate”, come le definì Tolstoj.
D’altronde, la signora Dostoevskaja sapeva fin dagli inizi che razza di uomo il destino le aveva assegnato come compagno di vita. Era stata infatti assunta il 3 ottobre 1866 come stenografa per lo scrittore, che doveva immediatamente consegnare un nuovo romanzo a un editore che gli aveva anticipato dei soldi per pagare i debiti, ipotecando i diritti delle sue opere passate e future. Il 4 ottobre la ventenne ragazza entrò in servizio, alla fine del mese il libro era finito, nei primi giorni del 1867 era in libreria e il 15 febbraio i due erano già sposati.
Manco a dirlo, l’instant book era l’autobiografico Il giocatore. La storia si svolgeva in una fittizia Roulettenburg, ispirata alle reali Wiesbaden e Baden-Baden: due città di terme e casinò, per il risanamento del corpo e la perdizione dell’anima del jet-set ottocentesco. Il Dostoevskij scapolo c’era andato nell’autunno del 1863, dilapidando quasi tutto il suo patrimonio: ad accompagnarlo c’era allora la studentessa Apollinaria Suslova, che divenne la Polina del Giocatore (oltre che Katerina di Delitto e castigo, Nastasja dell’Idiota, Lizaveta dei Demoni e Grushenka dei Fratelli Karamazov). Il Dostoevskij sposato tornò a Wiesbaden e Baden-Baden con la moglie nell’estate del 1867, perdendo di nuovo alla grande, come racconta Leonid Cypkin in Estate a Baden- Baden (1982). Il viaggio di nozze dello scrittore e della stenografa durò quattro anni, durante i quali lui scrisse due libri, L’idiota (1869) e I demoni (1871), e lei partorì due figlie, la prima morta a soli tre mesi. Ma, almeno stando ai ricordi della moglie, dopo la folle estate del 1867 Dostoevskij giocò solo sporadicamente, e smise del tutto quando essi tornarono in Russia nel 1871. Certo era destinato a indebitarsi, giocando, visto che credeva in un metodo infallibile per vincere: lo scrive lui nel Giocatore, e lo conferma la moglie nei ricordi, precisando entrambi che il metodo richiedeva però il possesso di un grosso capitale. Ma un ingegnere come Dostoesvkij, laureato nel 1843 alla Scuola Militare del Genio di San Pietroburgo, avrebbe dovuto sapere che “grosso” significa in realtà “illimitato”, e che nemmeno l’uomo più ricco del mondo ha un tale capitale a disposizione.
Il metodo è semplicemente la cosiddetta martingala: un termine introdotto in Francia nel Settecento, per indicare il tentativo di battere la fortuna in un gioco d’azzardo sfruttando le regole a proprio vantaggio. Ad esempio, poiché giocando “rouge et noir” alla roulette si vince il doppio della posta quando esce ciò su cui si è puntato, e si perde la posta altrimenti, il trucco consiste nel raddoppiare a ogni tiro la posta fino a quando si vince. Lo stesso succede giocando “manque et passe”, cioè la prima o la seconda metà dei numeri da 1 a 36. Naturalmente, in entrambi i casi si può essere sicuri di vincere solo avendo a disposizione un capitale e un tempo infiniti. I giocatori del Giocatore puntano affannosamente in entrambe, ma non possono evitare di notare che a volte esce anche lo zero. Le regole del casinò sono dunque truccate a favore del banco, perché le probabilità nel “rouge et noir”, così come nel “manque et passe”, non sono 18/36 ma 18/37 (e 18/38 con il doppio zero). In un gioco onesto la vincita dovrebbe essere un po’ più del doppio, perché la probabilità di vincere è un po’ meno di metà, e una strategia ideale di vincita dovrebbe prevedere un po’ più del raddoppio della posta a ogni tiro.
In ogni caso Aleksej, l’autobiografico protagonista del romanzo, ammette apertamente di non calcolare quando gioca, ma spesso si abbandona alla tipica superstizione dei giocatori d’azzardo: di credere, cioè, che la storia delle puntate precedenti abbia un effetto sul seguito, come accade appunto nei romanzi o nelle telenovele. Nella realtà, invece, ogni puntata è una storia a sé stante, che segue le leggi della probabilità senza preoccuparsi di ciò che è già successo. Ad esempio, anche se uscisse il rosso cento volte di seguito, non per questo la probabilità che esca il nero la centounesima sarebbe maggiore di quanto è stata in ciascuna puntata precedente. Si sa comunque che i giochi d’azzardo costituiscono una tassazione sulla stupidità, e i protagonisti del Giocatore sono effettivamente uno più stupido dell’altro: primo fra tutti Aleksej, che sperpera la sua grossa vincita finale facendosi spennare a Parigi in poche settimane dalla escort Blanche. Ma almeno lui non ha rimorsi, a differenza dei protagonisti dei romanzi poliziesco-esistenzialisti di Dostoevskij, così poco considerati dai grandi scrittori russi, da Tolstoj a Bunin a Nabokov. Quest’ultimo, in particolare, insegnava a non prendere sul serio le opinioni espresse nei romanzi, meno che mai dai predicatori come Dostoevskij, e a concentrarsi sui fatti descritti. Avrebbe dunque apprezzato di sapere che vari indizi del Giocatore permettono di ricostruire i cambi delle varie monete europee citate nel romanzo. Il generale, la nonna e Aleksej cambiano infatti 120 rubli con 100 talleri, 4 federici e 3 fiorini, 13.000 fiorini con 8.000 rubli, 420 federici con 4.000 fiorini e 20 federici, e 25.000 fiorini con 50.000 franchi. Il sistema di quattro equazioni e cinque incognite permette di ricavare i cambi di quattro delle monete in funzione della quinta, scoprendo ad esempio che il fiorino valeva 2 franchi, il tallero 3,04 franchi, il rublo 3,25 franchi e il federico d’oro 20 franchi. Il che dimostra che persino in un romanzo di Dostoevskij a volte si può trovare almeno un fatto.

Un ingegnere come lui doveva sapere che il metodo della martingala presuppone capitali illimitati
Scrisse il libro in un mese poi andò in viaggio di nozze a Baden-Baden Una puntata non ha effetto sulle successive: sarebbe letteratura
Disegno di Tullio Pericoli

Repubblica 12.6.17
Così, mentre l’Occidente attendeva il suo Rinascimento, l’Asia Centrale visse secoli di arti, cultura e tolleranza tra Avicenna e Omar Khayyam
I primi illuministi parlavano arabo
Siegmund Ginzberg

Due giovani intrecciano una fitta corrispondenza a molte centinaia di chilometri di distanza. Si scambiano opinioni e scoperte scientifiche. Si pongono interrogativi profondi su come è fatto il mondo, su come tutto è incominciato e come andrà a finire. Lo fanno mille anni fa. E con una libertà che da noi non si sarebbe vista per molti secoli ancora. L’uno ha 28 anni. Sa già di tutto. È un geografo, un geologo, un fisico, un matematico, un astronomo, un filosofo. È studioso di religioni comparate, di psicologia, persino musicista. Si chiama Al-Biruni, vive e lavora in quel che oggi è il nord dall’Afghanistan. L’altro, poco più che ventenne, si chiama Ibn-Sina (conosciuto anche come Avicenna). Nato in Khorasan, che oggi sarebbe Iran, al confine con l’Afghanistan, studia a Bukhara, che oggi è in Uzbekistan, si sposta a Gurganj, e infine a Isfahan, in
Persia. La chiamavano “Terra delle Mille città”. Alcune erano allora più grandi e popolose di Parigi, Roma, Pechino o Delhi. Lui si trasferiva da una all’altra, offrendo le sue conoscenze e anche consigli politici (come capitò ad altri geni, ascoltati o inascoltati: da Confucio, a Dante, a Machiavelli). La sua opera più famosa è il ponderoso Canone di medicina, sulla cui traduzione latina è praticamente fondata tutta la nostra medicina. Nella corrispondenza col suo amico espone una teoria dell’evoluzione. Quasi dieci secoli prima di Darwin. I due avevano addirittura postulato l’esistenza in un punto imprecisato tra Atlantico e Pacifico di un continente ancora sconosciuto. Insomma erano arrivati in America 500 anni prima di Colombo, senza neanche mettersi in viaggio, in base a calcoli astronomici.
Fenomeni. Ma non isolati. Ci fu un momento in cui l’Asia Centrale profonda pullulava di menti geniali e poliedriche. Mezzo millennio prima del miracolo del Rinascimento, dei Leonardo, dei Michelangelo e dei Galileo. Una folla di geni: da al-Khwarizmi, che avrebbe dato il nome al termine “Algoritmo”, e che scoprì le orbite ellittiche dei pianeti attorno al Sole, secoli prima di Keplero, agli astronomi di Samarcanda che misurarono l’anno siderale con maggiore accuratezza di quanto poi fece Copernico, e l’inclinazione dell’asse della Terra con precisione pari a quella di oggi. Eccellevano nella scienze come in poesia. Di Omar Khayyam si conoscono le quartine in cui cantava la vita, l’amore, il vino, l’umanità. Meno si sa che era anche un grande matematico. Fu tra i primi ad accettare i numeri irrazionali e a classificare i 14 tipi di equazioni di terzo grado. Gli viene attribuita persino una teoria delle parallele che prefigura le geometrie non euclidee di Lobacevskij e Riemann, quelle che sarebbero servite ad Einstein per inquadrare le relatività e la “curvatura dell’Universo”. Passano per arabi. È vero, scrivevano in persiano e in arabo (che per un’epoca fu la lingua per eccellenza del pensiero e dei dotti). Ma non erano arabi. Sarebbe più esatto definirli cosmopoliti. Si professavano islamici come gli arabi. Ma in comune con gli arabi di El-Andalus avevano soprattutto tolleranza e rispetto per gli altri. I loro interlocutori erano ebrei, indù, buddisti e cristiani. Si trovavano più a loro agio a discutere con uomini di studio di una religione diversa, piuttosto che con i contrapposti fanatismi in seno alla propria. Erano a modo loro eretici. Anche se nessuno li mandò al rogo, come sarebbe successo invece secoli dopo ai loro colleghi europei. Le corti dei Califfi, gli Imperatori della Cina, e poi i Khan mongoli, si sarebbero contesi studiosi ed esperti appartenenti alle molte e diverse scuole dell’Asia centrale. Formavano una comunità, anzi una “rete liquida” che scambia informazioni e saperi, insomma anticipavano Internet.
Ibn Sina e Al Biruni sono solo i più famosi in mezzo ad una galleria sterminata di personaggi, scoperte, risultati scientifici, opere di ingegno, storie e aneddoti che affollano un bel libro di Frederick Starr, ora tradotto da Einaudi. Si intitola L’illuminismo perduto.
Sottotitolo: L’età d’oro dell’Asia Centrale dalla conquista araba a Tamerlano. È quasi un’enciclopedia: 700 pagine. L’autore è uno studioso serio e molto brillante, che aveva iniziato la sua carriera come archeologo in Turchia e in Persia. Insegna alla Johns Hopkins, ha presieduto l’Aspen Institute, è uno dei massimi esperti mondiali di Asia Centrale. Al pari dei suoi soggetti di studio, coltiva interessi poliedrici. È anche un musicista e ha scritto una strepitosa storia del jazz in Unione sovietica.
L’illuminismo nel titolo si riferisce a un’altra specialità in cui gli intellettuali dell’Asia Centrale eccellevano a cavallo tra il primo e il secondo millennio: la compilazione di grandi compendi dello scibile umano, anticipando Diderot e gli encyclopédistes nel secolo dei Lumi. La loro produzione rivaleggiava in quantità con i libri sacri dell’India e gli annali della Cina, superava l’analoga produzione europea nel Medioevo. Ma è andata in gran parte perduta. Delle 180 opere di Al Biruni ne restano 22, di cui gran parte ancora inedite, di Ibn Sina ne sopravvivono circa 200 su 400. Ibn Sina e Al Biruni li avevo incontrati, se così si può dire, per la prima volta in Iran, quarant’anni fa. Me ne parlava, nella lunghe serate di coprifuoco a Teheran, un estro- so collega giornalista, Pietro Buttitta, fratello del poeta, e in quanto siciliano passionalmente interessato all’eredità islamica. Nelle librerie di Teheran si potevano ancora reperire volumi di una serie di reprint anastatici di classici sull’Iran, sponsorizzati dalla sorella dello Scià. Unico difetto: erano deturpati da pacchiani ritratti di Reza Pahlavi. Qualche anno dopo avevo percorso in lungo e in largo l’Asia centrale cinese. Fu per me la scoperta di una terra magica, in cui il tempo pareva essersi fermato a molti secoli fa. Nel Xinjiang, il Turkestan cinese, avevo ritrovato le arguzie senza temo di Nasreddin Hodja, l’amore per la vita, la danza e il vino, i tappeti di Kashgar, i meloni, le angurie e altri sapori della mia infanzia, e anche qualcosa della ferocia della Turchia in cui sono nato. Nel frattempo gli “Stan” (il Turkestan cinese, gli ex sovietici Kazakhstan, Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, ma anche Afghanistan, Pakistan e Iran) nell’immaginario occidentale sono ridiventati il buco nero del mondo. Malgrado uno sviluppo talora impetuoso, le contrade dove una volta vivevano i grandi geni ora evocano, ben che vada, il kitsch dell’esilarante Borat di Sacha Baron Cohen. Se no, di peggio: oscurantismo, ignoranza, burqa, taliban, malavita, terrorismo. A Mosca gli immigrati dall’Asia centrale ex-sovietica sono i più malvisti. Così come sono disprezzati a Pechino, temuti come mafiosi o terroristi gli uighuri originari dal Xinjiang. Salvo poi corteggiare gli Stan (e i loro dittatori) per farci passare le future magnifiche autostrade delle Vie della Seta.
Sarebbe più esatto definirli cosmopoliti Avevano profondo rispetto per gli altri I loro interlocutori erano ebrei, buddisti e cristiani Erano eretici, ma nessuno li mandò al rogo
L’IMMAGINE
Il Maidan Shah o Piazza Reale di Isfahan in Iran, meglio nota come “ Piazza della Metà del mondo”
* IL LIBRO L’illuminismo perduto.
L’età d’oro dell’Asia centrale dalla conquista araba a Tamerlano di Frederick Starr ( tr. L. Giacone, Einaudi, pagg. 676, 36 euro)

Repubblica 12.6.17
Quelle terre di libertà colpite dalla maledizione della Torre di Babele
Lucio Villari


Lo “Spirito” della Pentecoste è lo stesso che unì i costruttori biblici Ma il potere, allora come oggi, non vuole che si parli un’unica lingua
È stato un colto medico siriano, l’evangelista Luca, a dare con i suoi Atti degli apostoli, circa trent’anni dopo la morte di Gesù, il sigillo a una sorta di plusvalore cristiano, lo Spirito. Il cui dono fu dato a Pietro e a un centinaio di persone — “Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo”(Atti,2) — riunite un giorno a Gerusalemme a incontrare Gesù risorto, ad assistere alla sua ascensione (“una nube lo sottrasse al loro sguardo”), a celebrare la Pentecoste. C’erano frigi, mesopotamici, cretesi, parti, medi, giudei, libici, egiziani, elamiti, ebrei, romani circoncisi e arabi. Non riuscivano però a capirsi. Improvvisamente furono lambiti da lingue di fuoco. Cominciarono allora, increduli e felici, a intendersi perfettamente, ma, ricorda Luca, «erano stupiti e perplessi, chiedendosi l’un l’altro: “Che significa questo?”» Era avvenuto il miracolo della lingua comune. Questo potere dello Spirito, tra gli altri suoi poteri, ha sempre affascinato, nell’antichità, i filosofi e i poeti. Appariva forse una estrema salvezza della ragione, dell’amore, del dialogo. Li affascinerà fino al nostro tempo perché lo Spirito pareva racchiudere anche particolari segni sociali e politici. Sfogliamo Cartesio, Lo spirito delle leggi di Montesquieu, i Sogni di un visionario di Kant: rileggiamo uno degli
Inni sacri di Manzoni, La Pentecoste. In quei versi invocano lo Spirito quanti sono «soli per selve inospiti; vaghi in deserti mari: dall’Ande algenti al Libano». Per Francesco De Sanctis, l’inno manzoniano contiene «la famosa triade libertà, uguaglianza, fraternità vangelizzata». Riascoltiamo anche l’appello di Benedetto Croce ai partiti politici, in un discorso alla Assemblea Costituente del 1947, a non inserire il Concordato clerico-fascista del 1929 nella nostra Costituzione. Chiuse con un invito: raccogliere «tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime: Veni creator Spiritus / Mentes tuorum visita/ Accende lumen sensibus/ Infunde amorem cordis. Soprattutto a questi: ai cuori».
Il medico Luca dunque esalta l’intervento dello Spirito — che poi è il senso più autentico della Pentecoste — perché risarcisce dall’errore di duemila anni prima raccontato nel libro della Genesi. Fu quando il Signore biblico dissipò con la forza, un bene che stava nascendo: l’amichevole unità di un popolo di migranti insediatosi nel deserto mediorientale, l’unificazione delle loro lingue, il loro impegno a fondare una città. Il Signore preferì sostituire i loro progetti razionali con un caotico agglomerato umano. Gli diede il nome Babele. Quel deserto non era una finzione teologica ma un preciso luogo geografico e storico. Era la pianura del Sennaar che coincide oggi con l’Iraq meridionale e con il Kuwait. Proviamo allora a leggere “storicamente”, come desiderano i teologi, le pagine della Bibbia. Quello che ci hanno sempre insegnato e che alcuni grandi pittori hanno dipinto è falso, e cioè che il Signore volesse punire l’arroganza, la vanità, le licenze degli abitanti di quel luogo. Volle invece punirne il sapere e il loro solidale “spirito” comunitario. La popolazione che aveva deciso di fermarsi in quel luogo della Mesopotamia, era formata e guidata da persone con un notevole livello di conoscenze. Infatti, si stabilirono in un territorio dove esistevano nuove materie prime e dove da certe pozze affiorava il bitume, cioè il petrolio. Parla la Genesi: «E dissero gli uni agli altri: “Fabbrichiamo dei mattoni e cuociamoli al fuoco”. E si servirono di mattoni invece che di pietre e di bitume in luogo di calce ». Dunque questo popolo voleva lì fondare una città “moderna”. Non solo, ma per dare un segno simbolico della loro concorde volontà avevano deciso di erigere un possente obelisco. «E dissero: “Edifichiamoci una città e una torre con la cima al cielo. Fabbrichiamoci così un segno di unione, altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra”». Era presuntuoso progettare e costruire così una città? È evidente che nel caso di Sennaar si trattava di una pacifica e creativa novità. Quei “cittadini” avevano poi un altro legame: il comune linguaggio. Anzi, era forse qui l’origine della loro eccentricità in quell’area abitata da popoli fino allora capaci soltanto di farsi la guerra, senza incontrarsi pacificamente mai. In quella parte del deserto, stava invece nascendo una civile comunicazione tra le genti, il dialogo, il capirsi senza fraintendersi, il capirsi per Capire. Lo Spirito, che sarà poi svelato da Luca, forse cominciava già a operare. Di qui l’esasperazione del Signore della Bibbia. «Ecco, essi sono un popolo solo e hanno tutti una lingua sola, questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». L’autore della Genesi conclude: «Il Signore li disperse su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città».
È su questa nuova, dilatata, ottusa Babele che ora volano i jet, è lì che si confezionano in nome di altri feroci Signori le bombe dei terroristi, che si manifestano la povertà e il non capirsi e comprendersi. Su essa giocano molti Stati, molte armi e molte violente diplomazie. È anche da queste sabbie che fuggono gli eredi di una speranza e di una città incompiuta duemila anni fa.


Repubblica 12.6.17
Caso Eliseo.
Lo Stabile di Roma scrive a Gentiloni, Boldrini e Grasso
“I nostri onorevoli finanziano un privato ma dimenticano i teatri pubblici”
Emanuele Bevilacqua Antonio Calbi


Ogni museo, auditorium, cinema, teatro, biblioteca che chiude è un colpo inferto alla nostra civiltà, che della cultura ha fatto un valore e un bene imprescindibile. Nell’aiuto di Stato a un singolo teatro, a vocazione privata, non c’è alcun eroismo perché con esso vengono lese equità, trasparenza, equilibri, dando un nuovo esempio di cattiva politica, di subalternità al richiedente di turno travestito da guascone. Non si creda, dunque, di aver onorato l’Articolo 9 della nostra Costituzione: al contrario, con lo strabico voto alla Camera esso è stato reso vacuo, perché, oggi, ognuno è legittimato a rivendicare qualsiasi cosa, ricorrendo a scorciatoie e stratagemmi, ad appoggi e conoscenze dirette. Quante altre imprese culturali private sono in difficoltà e non beneficiano di aiuti di Stato elargiti “fuori sacco”? In Europa si tratterebbe di concorrenza sleale, di posizione di vantaggio, mentre da noi è pratica spudoratamente resa lecita. A furia di procedere a colpi di emendamenti, di Milleproroghe (un nome, un programma!), di manovre correttive, si delegittima la linearità della politica: sono strumenti col tempo distorti e abusati al limite della costituzionalità e dove possono esservi nascosti, in modo opaco o occultati fra infiniti altri emendamenti, interventi che scompaginano un intero sistema, incentivano al non rispetto delle leggi, invitano a usare il ricatto e l’urlo. L’e-mendamento pro Eliseo ha tutta l’aura dell’abuso di potere, di ruolo, di spreco di danaro pubblico: chi garantisce che l’investimento vada a buon fine? E qual è il fine ultimo?
Con questo gesto iniquo si è inoltre svilito il ruolo e il lavoro delle associazioni di categoria, Agis, Federvivo, Platea. E non ci si risponda che ora, grazie a questo emendamento ad aziendam, tutte le imprese culturali e artistiche del Paese potranno ricorrere agli stessi aiuti straordinari perché sappiamo bene che questa via non è praticabile, sia sul piano economico sia sul piano giuridico. La regola civile insegna ad agire in lealtà e nel rispetto delle regole, sale primo di una società democratica. Noi, nonostante tutto, ci crediamo ancora e vogliamo continuare a onorare la nostra personale e comune etica. L’amarezza è tanta, ma anche la certezza che urge voltare pagina una volta per tutte, con una legge, in fase di elaborazione, che contempli e regoli anche il soccorso alle imprese in difficoltà. Vi chiediamo, dunque, alla luce di quanto accaduto, di vigilare ancora più serratamente sui meccanismi che regolano il lavoro del Parlamento, e di ricondurre a rigore, trasparenza, equità, legittimità le azioni degli onorevoli deputati e senatori, da tutti noi eletti nostri rappresentanti.
Gli autori sono rispettivamente presidente e direttore del Teatro di Roma Teatro Nazionale

Repubblica 12.6.17
“Disorienta che si siano lasciati irretire, con colpevole superficialità, da due loro colleghi, del Pd e di Forza Italia, firmatari di un provvedimento ad personam”
“In Europa si tratterebbe di concorrenza sleale, di posizione di vantaggio, mentre da noi è pratica spudoratamente resa lecita”
L’ingresso del Teatro Eliseo in via Nazionale a Roma


ROMA. Entro questa settimana il Senato approverà la manovrina con gli 8 milioni di euro pubblici al Teatro Eliseo di Roma. E le indignazioni non si placano. Il direttore e il presidente del Teatro di Roma hanno scritto al premier Paolo Gentiloni e ai presidenti delle due Camere, Pietro Grasso e Laura Boldrini la lettera che pubblichiamo. Mercoledì intanto l’Eliseo annuncerà la nuova stagione. Nel 2016, secondo i dati Siae, la sala romana di via Nazionale (750 posti) in media non ha registrato il tutto esaurito: una disfatta ad aprile con circa 125 spettatori paganti a sera.
IL 29 MAGGIO, alla Camera dei Deputati, è stato approvato un emendamento inserito nella “manovra correttiva” della Legge Finanziaria che regala ben 8 milioni di euro in 2 anni al Teatro Eliseo di Roma, un contributo pubblico concesso fuori da ogni regola e contro il parere del ministro del Bilancio Padoan e del ministro della Cultura Franceschini. Ciò che è accaduto è un vero e proprio atto di “sfascismo”, permetteteci il neologismo, uno sfregio nei confronti della nostra già fragile democrazia. Garantendo una cifra così cospicua di danaro pubblico, in modo del tutto discrezionale, a un teatro privato e che oggi, dopo un cruento cambio di gestione, continua nella sua forma giuridica a essere un’impresa privata (e che a sua volta gestisce un teatro di proprietà privata), gli onorevoli deputati hanno: 1. inferto un colpo ferale alla regola dell’equità di trattamento delle diverse istituzioni culturali del Paese; 2. messo in luce la mancanza di visione complessiva del sistema teatrale della Nazione; 3. vilipeso il Decreto Franceschini, che dal luglio 2014 regola il settore dello spettacolo dal vivo.
Disorienta il fatto che i deputati si siano lasciati irretire, con colpevole superficialità, da due loro colleghi, uno del Pd e uno di Forza Italia, firmatari di un provvedimento ad personam, destinato prima che a un’istituzione d’interesse culturale, a un impresario privato, che non deve rispondere se non a se stesso, a differenza delle istituzione culturali pubbliche.
Il sostegno e il soccorso alla cultura è doveroso e necessario ma deve rispettare leggi e regolamenti. Nel caso specifico l’iter adottato viola palesemente tutto questo e risulta del tutto forzato: inserirlo nella manovra correttiva, che in Senato sarà verosimilmente approvata con la fiducia, ne garantisce il buon esito. Il quantum, poi, è vergognosamente fuori scala per un teatro la cui nuova gestione è partita soltanto a fine 2015 ed è già in affanno. La tragica commedia che si è consumata alla Camera ha hypocrites di professione e comparse ingenue: la garanzia della copertura in bilancio assicurata dal viceministro all’Economia è verosimilmente stata interpretata dagli onorevoli come un via libera all’avallo del contributo straordinario rivendicato dal nuovo patron del Teatro Eliseo. Il risultato è un puro utilizzo privato del potere pubblico.
Domandiamo se gli onorevoli parlamentari abbiano contezza delle numerose istituzioni e imprese culturali in stato di sofferenza del Paese, chiuse o sull’orlo del fallimento. Sanno che un teatro pubblico come lo Stabile di Catania è praticamente fallito? Che il Teatro Valle, il più antico teatro della Capitale (1727), di proprietà pubblica, a oggi può contare su un quarto del fabbisogno economico necessario al suo restauro? Sanno che Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, non ha un teatro agibile e le altre infrastrutture necessarie a non sfigurare a livello internazionale, a un anno e mezzo dall’evento? Sanno che l’Eliseo rivendica un contributo pubblico annuo per la sua gestione, oltre agli 8 milioni straordinari per ripianare i debiti, assai superiore a quello che ricevono molti teatri pubblici, i quali continuano a perseguire le proprie missioni, rispettando, con ardito sforzo, i parametri fissati per loro dalla legge?

Il Fatto 12.6.17
Il vaccino è un presidio medico e la medicina non è un’opinione
La salute passa dalla conoscenza: ci si deve solo attenere alla pratica clinica sancita dalle ricerche scientifiche
di Leda Galiuto

Cara professoressa, faccio l’ingegnere per “pagare le bollette”, ma amo studiare i libri di medicina e documentarmi anche su riviste scientifiche. Visto che la sua rubrica ha un taglio molto “concreto”, le chiedo la sua opinione sull’utilizzo dei vaccini ai quali io personalmente non credo.
Il medico è un professionista della salute che ha studiato numerosi anni il corretto funzionamento del corpo umano, le malattie che possono comprometterlo, i farmaci che lo curano, le modalità per mantenerlo in salute. Un medico ha anche imparato il metodo scientifico di valutazione e applicazione della medicina. Ha sostenuto esami e valutazioni, ha spesso anche superato concorsi pubblici ed esercita la medicina quotidianamente confrontandosi con la salute e la malattia, con la vita e con la morte. È abituato ad assumersi delle responsabilità legate ai propri pensieri e alle proprie azioni con l’obiettivo unico di curare le persone. Certo la medicina non è una scienza esatta e nessun medico è infallibile, ma di certo un bravo professionista difronte a un quesito clinico esamina tutte le possibilità diagnostiche (le chiamiamo diagnosi differenziali) e le opzioni terapeutiche rispettando le linee guida internazionali frutto dell’esperienza clinica e scientifica di esperti mondiali. E quando ci si trova in “zone grigie” in cui la scelta terapeutica non è certa, si fa un attento bilancio tra rischi e benefici, optando – anche come valutazione di team – per l’approccio che dà massimi risultati con minimi rischi. Il caso specifico dei vaccini non fa eccezione: sottoposti a valutazione scientifica accurata che ha dimostrato la loro efficacia e la loro sicurezza, i vaccini trovano la loro applicazione nella prevenzione di alcune malattie secondo una precisa valutazione di rapporto rischio-beneficio. Lo sa, io mi spendo molto in termini di corretta informazione medica e divulgazione: la salute passa dalla conoscenza. Proprio per questo mi sento autorizzata a dirle che l’informazione va sempre filtrata dal buon senso e dall’esperienza affinché si ottenga il risultato sperato in termini di salute. Comprende bene che né io né nessuno dei miei colleghi possiamo avere una “opinione” sull’utilizzo dei vaccini, ma dobbiamo attenerci alla buona pratica clinica sancita da ricerche scientifiche, dati certi e linee guida internazionali. La sua “credenza”, per quanto forte della sua apprezzabile passione per la medicina e della sua cultura in materia, lascia il tempo che trova, visto che la medicina non è “credenza”, ma scienza. Immagini di progettare un palazzo e io le dica: “Sa, ingegnere, non credo che quel pilastro sia indispensabile per la stabilità della struttura, facciamone a meno”. Lei cosa mi risponderebbe?
di Leda Galiuto