Il Fatto 11.6.17
“Le passeggiate con Fellini, le cene insieme a Volonté e le ‘fughe’ dal ristorante”
Elvira Carteny. La vedova di Nanni Loy e i 15 anni vissuti con “un uomo straordinario”
di Alessandro Ferrucci
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Nanni
Loy per molti è il cornetto dolce infilato nel cappuccino del vicino,
la sacralità della colazione al bar violata da un bell’uomo, alto,
serio, sigaretta in bocca e cappotto, stile british e provocazioni
nostrane. Eppure “Nanni era una persona molto più complicata della sua
apparenza; molto più complessa e intellettualmente preparata rispetto a
quanto si possa credere. Quando parlo di lui ancora oggi piango. Ed è
morto nel 1995”. Lei è Elvira Carteny, per quindici e più anni compagna
di vita del regista, candidato per due volte all’Oscar, padre nostrano
delle candid camera, presunta derisione italica, in realtà racconto
oltre la patina di come eravamo e in parte siamo (“Sono passati
cinquant’anni dalla loro messa in onda e ancora sono cliccatissime sul
sito della Rai e Youtube”). Con lui, Elvira Carteny, ha visto e
condiviso: giornate sui set, i copioni sul divano, le vacanze, le
infinite discussioni politiche (“in-fi-ni-te”), i sogni di coppia e le
speranze per il famoso mondo migliore.
Come vi siete conosciuti?
Lavoravo
a Botteghe Oscure (storica sede del Pci) e Nanni frequentava quelle
stanze. Però il nostro intrecciarsi non è stato né semplice né
immediato: eravamo dei single convinti; la prima volta che ci hanno
invitato a cena come coppia, ci è preso un colpo e ci siamo allontanati
per poi ritrovarci.
Terrorizzati…
Avevamo deciso di tenere
un doppio diario sul quale scrivere tutto quello che non sarebbe mai
dovuto accadere, fissare le regole per la convivenza, quando bastava
mantenere la libertà reciproca.
Cosa aveva sottolineato?
Detestava
la mondanità. Era schivo. Sceglieva con chi stare, selezionava, le
persone dovevano rispecchiare canoni morali ben precisi; ogni volta che
uscivamo, l’imprevisto poteva mutare drasticamente la serata.
Di che genere?
Amava
Capri, lì ritrovava alcuni dei suoi amici più cari e a quel tempo
l’isola non era il vippume di oggi, però capitava di incappare in certi
incontri, ed era un problema…
Cosa accadeva?
Andavamo a cena
presto per evitare i politici come Pomicino o De Lorenzo, ma non sempre
ci riuscivamo; quando questi soggetti entravano nel ristorante lui
immediatamente si alzava da tavola: ‘Se c’è lui, non posso esserci io’. E
se ne andava! Un inferno, restavo con il piatto a metà.
Lei avrebbe continuato…
Quando stai con uno così, devi accettare il pacchetto.
Le piacevano i suoi film?
Mi
sono innamorata del Padre di famiglia (1967), ancor prima di
conoscerlo, parlava di un uomo che aveva il bisogno di donna libera.
È chiaro il concetto di libertà…
Però nella sua vita arrivo nel 1981. Comunque lui amava e molto le donne, ne ha frequentate tante.
Anche quando stava con lei?
Forse
sì, non lo so, non mi interessa. L’importante era il nostro rapporto,
la nostra intesa, la qualità del tempo in comune, se poi mi ha tradita
sono affari suoi.
“La qualità del tempo in comune”.
Alta,
anzi altissima. Con aspetti paradossali: amavo stirare, mi piaceva
proprio tanto, una forma di gesto fattivo lontano dalla vaghezza della
politica, insomma dove puoi apprezzare immediatamente il risultato del
tuo impegno. Lui non voleva: ‘Una donna che perde tempo a stirare,
invece di uscire o leggere un libro, mi dà fastidio’.
E quindi?
Lo facevo di nascosto.
Le proibiva altro?
Lui non proibiva, predicava.
Va bene, allora predicava sull’abbigliamento?
No,
però in quindici anni il complimento più audace è stato: ‘Oggi sei
affascinante’. Comunque era sempre dalla mia parte, puntava sulla
sostanza del rapporto.
Sempre…
Una volta ha rincorso a piedi
un signore perché con la macchina mi aveva sfiorata. Se qualcuno mi
insultava era morto. Se stavo male, impazziva.
Lei andava sul set?
Sì, specialmente nell’ultima parte della sua vita, quando non stava più tanto bene e preferivo stargli vicina.
Era un uomo intransigente anche quando girava?
No,
totalmente democratico: prima di dare il via alle riprese, domandava a
tutti i componenti della troupe se andava bene l’inquadratura. A tutti.
Per lui il cinema era il prodotto di un lavoro collettivo.
Lei leggeva i copioni?
Certo.
E quando ritrovavo i nostri siparietti, iniziava la trattativa, alcune
situazioni dovevano restare nostre, non tutto poteva finire nella sua
opera.
Nanni Loy cosa temeva?
La noia. Ma con lui era
impossibile, un uomo imprevedibile, con il quale era necessario vivere
con le giuste antenne per le sue improvvisate.
Tipo?
Spesso
andavamo al ristorante e spesso le discussioni cadevano sul dibattito
politico, poi a un certo punto, d’emblée, iniziava ad alzare al voce e a
dirmi ‘Tu mi tradisci!’. Capivo, rilanciavo: ‘Per forza, non ci sei
mai’. E da lì simulavamo una lite furiosa, mi tirava il tovagliolo, io
l’acqua, gli altri avventori girati e a darsi di gomito: ‘Guarda Nanni
Loy…’.
Tutto questo come finiva?
Con l’arrivo del cameriere e i piatti caldi. Mangiavamo, fine dello spettacolo.
Liti serie?
Mai. Solo dopo la sua morte l’ho mandato più volte a quel paese: un dolore così forte da provocarmi rabbia.
Uno dei film più celebri di Nanni Loy è “Amici miei parte III”…
Da
Tognazzi a Cervi fino a Moschin: un gruppo di professionisti rari,
persone deliziose, quando giravano era la parte seria della giornata, il
resto del tempo era puro cazzeggio, battute, complicità. Ricordo la
scena del ranocchio nel piatto, poco prima di girare qualcuno ha aperto
il sacco con dentro tutti gli animaletti. Duecento ranocchi a saltellare
e ovunque. Nanni dà lo stop. Tutti a cercare di recuperarli, il caos.
Ed era tardi: dovevamo andare a giocare ai cavalli.
Scommettitori?
Amavamo
frequentare l’ippodromo, quello di Roma era quasi una seconda casa,
puntavamo poco, una cifra fissata prima e rispettata. Era una liturgia.
Diceva sempre: ‘Ho conosciuto Elvira quando girava con Rinascita o
Critica marxista, ora cammina con sotto braccio Il cavallo’.
Era vero?
Un
po’. Ma allora era normale frequentare l’ippodromo, andavano tutti, da
De Laurentiis ad Andrea Barbato fino a Giulio Andreotti. La carriera di
Max Tortora inizia lì, stava sempre insieme a Nanni per parlargli di
cinema.
Amava scoprire i talenti?
Adorava i caratteristi. Spesso giravamo per Napoli, magari nei teatrini più piccoli, in cerca di nuove maschere.
Cosa raccontava dei suoi esordi?
Su
come veniva pagato: all’inizio del lavoro il compenso era evaso con il
cibo, soprattutto la carne: ‘Tu sei il regista? Allora hai il filetto’.
Agli ultimi operai toccavano le frattaglie.
Pagamenti pratici…
Se
parla di praticità, allora penso alla sua totale assenza di attitudini
manuali: Nanni non utilizzava i polpastrelli, lui si definiva
‘solidale’, se dovevo montare una mensola a casa, si sedeva in poltrona e
guardava l’opera.
Non era in grado?
Per niente, poi era
distratto. All’inizio della nostra storia aveva una Panda, un giorno ci
salgo, lui sudava, quanto sudava! Dopo un po’ gli dico: ‘Perché hai il
riscaldamento acceso?’. E lui stupito: ‘La Panda ha il riscaldamento?
Non lo sapevo…’.
Cosa leggeva?
Tutti i giorni, e sottolineo
tutti, studiava filosofia, aveva un libro sul comodino o sulla
scrivania. Rivedeva. Ripassava. Ne parlavamo. Oppure riprendeva in mano
il Don Chisciotte. Era un uomo con una cultura sterminata, mai esibita.
È ricordato poco, perché?
Come
le dicevo, non era mondano, non doveva sedurre per forza il prossimo,
si concedeva il lusso di dire quello che pensava, schifava gli
opportunisti, anche dentro al Partito comunista. Era ruvido. Le risate
servivano solo a far aprire il cervello alle persone e comprendere la
realtà. E poi all’inizio della carriera aveva scritto un libro contro i
critici, e nessun critico ha mai dimenticato quelle parole.
Lo ha letto?
No. Però ho visto come lo hanno trattato. Aveva ragione.
Le candid camera sono tra le sue opere più celebri.
La
vicenda è partita grazie a un giovane funzionario della Rai, Angelo
Guglielmi, spedito da Viale Mazzini negli Stati Uniti per studiare
alcuni format. Prese i diritti sulle candid camera. Al suo ritorno
Guglielmi chiamò gli intellettuali del momento per mostrare il prodotto,
e ottenere valutazioni. Tra questi Nanni. Finita la discussione propose
il programma a Gregoretti, niente da fare, poi a Nanni: ‘Sono
interessato solo se può diventare una ricerca sociologica sulla società
di oggi’.
Nasce “Specchio segreto”.
Mi raccontava la fatica
per nascondere l’attrezzatura, le microcamere di oggi erano lontane;
nonostante questo, girarono per un anno e mezzo. Dei gioielli. Una volta
lo hanno arrestato.
Per cosa?
Era andato davanti a una
fabbrica dell’Alfa Romeo e vestito da operaio con tanto di cartello di
protesta: denunciava la situazione di usura fisica rispetto a una
pensione lontana. Chiedeva la solidarietà degli altri lavoratori con un
piccolo contributo economico. Siccome il giorno prima c’erano stati
problemi con i fascisti, le forze dell’ordine lo scambiarono per un
fomentatore. Finì dentro.
Non l’avevano riconosciuto?
Lui gli disse: ‘Sono un regista della televisione!’, e il maresciallo: ‘E io Gina Lollobrigida, piacere’.
La sua candid più famosa è la zuppetta nel cappuccino.
Forse
la più banale, e gli è riuscita solo alla stazione di Bologna, nel
resto del Paese, Napoli e Roma in primis, lo hanno picchiato.
Un film che non amava?
Ha
girato alcune cose solo per incassare soldi da investire su pellicole
più difficili: Pacco, doppio pacco e contropaccotto è stato funzionale
per Scugnizzi. Il secondo infarto è arrivato proprio per questo film, ci
teneva tantissimo.
“Mi manda Picone”…
Allora, a Napoli, la
classe privilegiata era quella operaia, gli altri vivevano di
espedienti. La tuta blu era uno status symbol. Per quel film lui ha
girato realmente nelle fogne, noi restavamo fuori pronti con i bidoni di
alcol per disinfettarli: quando tornavamo all’hotel Vesuvio la puzza
distruggeva l’olfatto dei presenti.
Giancarlo Giannini era il protagonista.
Una
scommessa. In quel periodo era molto legato ai film con la Wertmüller,
era considerato una maschera, gli arrivavano meno proposte drammatiche,
mentre Nanni gli cambiò la carriera. Ma il vero cruccio fu Lina Sastri:
allora era sconosciuta, i produttori poco convinti, anche lei divenne
una sua impuntatura. Però quanto ci siamo divertiti a girare…
Nonostante le fogne…
La
città partecipava, Napoli tirò fuori la sua anima attoriale: durante le
riprese ogni tanto sentivamo ‘stooooop’, tutti si fermavano: qualcuno
del pubblico aveva bloccato la scena perché poco convinto. ‘Che
succede?’, domandava Nanni. ‘Ma non lo vedi, chillo sbaglia, la può fare
meglio!’.
Lui si scocciava?
No! Anzi, interagiva, era la sua città, non la imbavagliava, la conosceva nonostante fosse nato a Cagliari.
Era legato alla Sardegna?
Una
volta a Cagliari decide di mostrarmi dove era nato, ci andiamo, quindi
indica una casa: ‘Quella è di Amedeo Nazzari, di fronte c’era la mia’.
Si ferma, parte con uno dei suoi tipici silenzi, mi pongo degli
interrogativi, due passi indietro, gli lascio una presunta bolla di
ricordi, poco dopo poi si gira, mi raggiunge: ‘A Elvi’, che culo essere
andato via da qui’. Però nel fondo era sardo.
Non in maniera evidente…
Era talmente testone che il produttore Minervini lo chiamava ‘Nuraghe’.
Dalla Sardegna di quegli anni arrivava la politica ‘alta’.
Inizialmente
manteneva rapporti con Cossiga, su temi come la salvezza della lingua
italiana. Si sentivano. Solidarizzavano. Solo fino a quando Cossiga non
ha iniziato con le sue improbabili esternazioni, a quel punto Nanni è
stato il primo firmatario per una petizione contro di lui.
In direzione ostinata e contraria.
Adorava
essere minoranza, per questo era diventato laziale, mi diceva: ‘Di
comunisti biancocelesti ce ne sono pochissimi, quindi mi piace’.
Una sua regola aurea?
Spesso
sceglieva attori comici per ruoli drammatici, li considerava i più
bravi, e penso a Sordi, Manfredi o Villaggio: ‘Non ci vuole niente per
far piangere, il problema è far ridere’.
I suoi amici nel cinema?
Ricordo
le lunghe passeggiate con Fellini. Rincorrevano i sogni, i propri e
quelli degli altri. Poi amava Massimo Troisi, quando siamo usciti dal
Postino, singhiozzava.
Oltre a Fellini?
Volonté. Una sera lo
invitiamo a casa, nella cena era incluso Pino Caruso, persona
deliziosa, un socialista dell’area Nenni, molto lontano da Craxi e dal
craxismo. Beh, a metà cena Gian Maria scopre il suo ‘socialismo’, non lo
accetta, era intransigente, quindi se ne va da casa. Alle tre di notte
vibra il citofono, era sempre Volonté: ‘Non mi piacciono le discussioni
interrotte’. Sale. E sono ripartiti a parlare di politica.
Sempre politica…
Veramente
ho sentito anche una discussione articolata, con Fellini che rivelava a
Mastroianni: ‘Dopo trent’anni di rapporto con un’amante, la si può
lasciare per una vena varicosa?’. E Mastroianni: ‘Non la lasciare’. ‘Ma
ogni volta che vedo la vena, è un problema’. ‘Spegni la luce quando si
spoglia…’.
E purtroppo qualcuno ha spento la luce anche su Nanni Loy.