La Stampa 12.6.17
La nostalgia di una natura perduta e ora ridotta in catene
di Luca D’Andrea
Fare
 lo scrittore significa origliare discussioni altrui, ruminarle e 
trasformarle in storie. La discussione in questione era una di quelle 
che conosciamo tutti: è estate, fa caldo, l’effetto serra, Trump, il 
condizionatore troppo alto o troppo basso o inesistente. Insomma il 
regno del «tutto già visto, tutto già sentito». Eppure è proprio nel già
 sentito che si annidano tragedia e farsa, ingredienti fondamentali per 
una di quelle storie che partono con un «c’era una volta» e, passando 
attraverso effetti speciali via via più stupefacenti, arrivano a un 
finale che mescola dubbi a possibilità di redenzione.
C’è stato un
 tempo in cui agli uomini veniva insegnato a procurarsi il cibo con la 
violenza. La caccia non è mai stata un affare pulito. Nemmeno 
l’agricoltura sfugge alla regola. Fare il contadino significava 
strappare sostentamento dalla nuda terra usando sudore e letame. Non lo 
dico io. Lo dice la Genesi.
Quando da bambino ho ascoltato per la 
prima volta il racconto della Cacciata non ho potuto fare a meno di 
immaginare Adamo ed Eva chini su un terreno brullo, incapaci di 
tracciare solchi per le sementi, troppo deboli e schizzinosi per torcere
 il collo a una gallina. Angosciati dalla vastità della loro ignoranza e
 della debolezza dei loro corpi. In altre parole, mi immedesimai nel 
ruolo di chi non ha idea di cosa significhi sopravvivere grazie alle 
proprie forze.
I miei (i nostri) nonni erano di un’altra pasta. 
Nati in un’Italia che da agricola procedeva verso un’economia 
industriale già in procinto di sbocciare nel mondo della finanza e del 
terziario, sapevano trasformare i maiali in salsicce, il grano in pane, e
 di certo non si sarebbero spaventati all’idea di passare una nottata 
sotto le stelle, al contrario di Adamo ed Eva, che immaginavo stretti 
l’uno all’altro, tremanti nelle tenebre della prima notte fuori dal 
Giardino.
Quella fu la notte in cui l’uomo divenne consapevole 
della tragedia che lo separava dal mondo circostante e iniziò la sua 
battaglia contro la natura. Una lotta che aveva un’unica regola: sappi 
che stai giocando una partita truccata.
Alla fine, perderai comunque.
Così,
 ad un certo punto, l’uomo iniziò a barare. Imparò a selezionare il 
bestiame per renderlo docile, a rendere la terra arrendevole e sempre 
più fertile. E fu così che dopo una lunga serie di sconfitte, l’uomo 
trionfò. Il trionfo, però, portò con sé la cecità. Per circa un secolo e
 mezzo, dagli albori della Rivoluzione industriale agli anni Ottanta, 
Adamo e Eva hanno coltivato l’idea che la fase successiva alla vittoria 
dovesse per forza essere quella dell’umiliazione.
Riempire gli 
oceani di scarti industriali, scaricare nei cieli tonnellate di anidride
 carbonica significava prendersi una rivincita. Non più l’uomo schiavo 
della natura, ma la natura, in catene ai piedi dei dominatori. L’uomo 
era tornato all’Eden, ma questa volta da conquistatore.
Se 
proviamo a immaginare che la Bibbia sia il resoconto di una discussione 
fra sconosciuti in viaggio (cosa che, in effetti, potrebbe anche essere)
 che dura ancora oggi attraverso la narrativa popolare, i film e 
(appunto) le chiacchiere da bar, allora queste ultime si trasformano nei
 più aggiornati versetti di una strana Genesi ellittica in cui la parola
 dominio è ormai di uso comune. È facile capirlo. Se fa caldo e il primo
 pensiero è quello della questione ecologica significa che il caldo è 
dovuto ad un colpevole e cioè noi, l’uomo. E se l’uomo è colpevole del 
disastro ecologico, allora l’uomo ha soggiogato la Natura. Un pensiero 
talmente tragico che la risposta non può che essere una farsa: tornare 
indietro. Illuderci di poter sopportare le grandinate che distruggono il
 raccolto, il suono della lama nella carne strillante, l’ecatombe di 
figli e amici dovuta al morbillo o all’influenza. Ed ecco, quindi, che 
la banale conversazione si trasformano in una storia. Anzi, in una 
favola.
La favola di uno schiavo che divenne re ma che poi, 
anziché comprendere che dominio non significava necessariamente 
umiliazione, anziché felicitarsi con sé stesso per la strada fatta e 
assumersi le responsabilità che la corona comportava, dopo aver buttato 
lì un «tutto già visto, tutto già detto», rincuorato dal suo desiderio 
di tornare a vivere nello strazio (che lo faceva sentire una persona 
migliore di quanto non fosse), andò a dormire sul suo bel letto di piume
 e sognò di un autobus privo di conducente, col motore acceso, fermo sul
 ciglio della strada. Un sogno così strano che al risveglio, per tutta 
la giornata, non fece che chiedersi il motivo per cui i passeggeri, 
anziché mettersi alla guida del veicolo e proseguire nel viaggio, non 
avessero fatto altro che chiacchierare del caldo. Alle volte persino 
annoiandosi.
Luca D’Andrea è nato a Bolzano nel 1979
Il suo primo thriller, «La sostanza del male» (Einaudi), è diventato un caso letterario