giovedì 18 maggio 2017

SULLA STAMPA DI GIOVEDI 18  MAGGIO



Repubblica 18.5.17
Il Salone di Torino parte ed è già boom con 56 mila biglietti
di Sara Strippoli

TORINO La grande piazza dei lettori, librerie e biblioteche alleate. Una fiera europea della musica e la sala della poesia. Reading come rave. I settanta grandi festival italiani in vetrina. Il balcone di palazzo Madama cornice suggestiva dell’anteprima di ieri sera con Eugenio Allegri che leggeva Il nome della rosa di Umberto Eco. Letteratura, riflessioni alte su cibo, arte, cinema, fumetti, e pure serie tv. Sotto ottimi auspici, con oltre 56 mila biglietti già staccati con la vendita online, 20mila studenti in arrivo da tutta Italia, 1060 editori, 1200 eventi cui si aggiungono i 500 del Salone Off, questa mattina il bulimico Salone internazionale del libro di Torino taglia il nastro con un titolo, “Oltre il confine”, che ambisce a scavalcare i muri, geografici e degli stereotipi. Dopo la querelle, la diaspora dei grandi gruppi e dell’Associazione italiana editori che ha organizzato il suo Salone a Rho ad aprile, la bookfair torinese compie trent’anni, si presenta con una metamorfosi generazionale e di formule e inaugura con l’intenzione di vincere la sfida. Come per il taglio del nastro di Tempo di Libri a Milano, arriva il ministro Dario Franceschini. Ci sono il presidente del Senato Pietro Grasso e la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli.
La star è lo scrittore statunitense Richard Ford. Arriva all’ora di pranzo nel sabato che strabocca di appuntamenti e al pubblico del Lingotto racconta la storia dei suoi genitori nell’America della depressione narrata nel libro Tra noi edito da Feltrinelli. Another side of America è la sezione voluta dal direttore Nicola Lagioia che alla vigilia scalpita, ricorda di aver firmato un contratto di tre anni e si diverte nel ruolo di frizzante testimonial della tradizione sabauda: «Il Salone internazionale del libro può essere solo qui. Dov’è nato ». Per rappresentare l’altra faccia dell’America si prendono a simbolo le avventure del giocatore di backgammon che vive nelle pagine dell’ultimo romanzo di Jonathan Lethem, le angosce della guerra in Iraq del soldato- scrittore Brian Turner, le riflessioni della poetessa Claudia Rankine che dialoga con i ragazzi del Bookstock, gli intrecci interiori nella città immaginaria di Holt lette da Licia Miglietta da Le nostre anime di notte di Kent Haruf. A vent’anni di distanza da La passione secondo Thérèse, Daniel Pennac torna al Salone di Torino e stasera sale sul grattacielo di Intesa Sanpaolo. Benjamin resta capro espiatorio, ma la famiglia Malaussène è cresciuta e Parigi reagisce alle sue ferite. I titoli delle sezioni curate dai quattordici consulenti che compongono la squadra di Lagioia sono evocativi: “l’età ibrida” per parlare di scienza in un mondo di trasformazioni, , le donne che raccontano le donne in “Solo noi stesse”, le storie sul terremoto nel “il futuro non crolla”. Amitav Ghosh questo pomeriggio incontra gli studenti al campus dell’università, Carlo Petrini domani dialoga con Luis Sepúlveda. Arrivano voci femminili fra le più interessanti: Alice Giménez Bartlett, Annie Ernaux e Yasmina Reza. Lo straordinario successo di Elena Ferrante è analizzato in due appuntamenti con critici, autori ed editori: l’italiana e/o e gli stranieri. Si aspetta il sold out per Roberto Saviano che domenica torna nella Sala Gialla del Lingotto. Per gli incontri organizzati con
Repubblica, sabato Ezio Mauro racconta la Russia a cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre. Domenica, la Francia di Macron con lo sguardo sul futuro dell’Europa è tema del dialogo fra il direttore di Repubblica Mario Calabresi e Bernard Guetta.
Le trattative per il futuro dei due Saloni, troppo vicini nel tempo e nello spazio, si riaprono quando sul salone sabaudo calerà il sipario. Nei giorni scorsi i 200 editori degli Amici del Salone del Libro di Torino hanno scritto una lettera al presidente Chiamparino e alla sindaca Appendino per chiedere che le date della prossima edizione siano indicate nei prossimi giorni. La firma Sandro Ferri di e/o. Torino comunicherà le sue date alla chiusura, promettono Regione e Comune. Alla vigilia Appendino ringrazia tutti: «Pareva un patrimonio perso per sempre. Sembra un problema, ma sarà invece il risultato della collaborazione di tutta la città». E Chiamparino avverte: «Impossibile spostare il Salone di Torino. Sarebbe altrettanto inverosimile eliminare la Mole dallo skyline cittadino».

Il Fatto 18.5.17
La Fiera ha già staccato quasi 60 mila biglietti, come il risultato finale di Milano
Derby del libro: primo round a Torino

Per sapere se davvero sarà stato un successo, è meglio aspettare il bilancio finale lunedì 22 maggio. Tuttavia il Salone Internazionale del Libro di Torino parte con lo stesso entusiasmo che c’è intorno a una tifoseria alla vigilia di un ritorno di coppa in cui si è vintala partita in trasferta con un buon risultato. E non è una partita qualunque, è il derby con Milano. Alla vigilia dell’apertura infatti (al Lingotto si entra a partire da oggi) sono già stati venduti oltre 56 mila biglietti, praticamente la stessa cifra totalizzata da “Tempo di Libri” al termine del Salone di Rho: 60.796 persone in termini di presenze (non di singoli tagliandi), criterio in base al quale Torino ha potuto dichiarare anche 300 mila e oltre ingressi in passato. Diciottomila tagliandi sono stati acquistati online (cifra già superiore a quelli venduti tramite lo stesso canale nel 2016) e 13 mila, a prezzo ridotto, nelle librerie cittadine nei mesi scorsi. A questi 31 mila vanno aggiunti i 10 mila biglietti acquistati dalla Compagnia di San Paolo (che ha il patrocinio su molti eventi per ragazzi organizzati nell’area del Bookstock Village) e i 15 mila ingressi omaggio previsti dalla Fondazione per il Libro e la Cultura che organizza il salone. INSOMMA, le premesse per un’edizione numero 30 da ricordare non mancano. E c’è da giurare che il tema “derby con Milano” sarà il tormentone della cinque giorni sotto la Mole. Ieri sera, intanto, la preview con il “via” ufficiale dato dal direttore Nicola Lagioia all’auditorium del Lingotto e con i primi appuntamenti del cartellone “Salone Mobile” curata da Giuseppe Culicchia: l’attore Eugenio Allegri ha intrattenuto la platea dal balcone di palazzo Madama in piazza Castello leggendo brani de Il nome della Rosa di Umberto Eco. Reading seguito da un dj-set di Gian Luigi Carlone, Giorgio Li Calzi e Johnson Righeira che hanno “minimalizzato” ed “elettronificato” buona parte del repertorio della miglior canzone italiana degli ultimi 40 anni, a conferma della vocazione multisciplinare del Salone 2017. Vocazione che includerà anche teatro e cinema: ancora ieri sera è andato in scena al Lingotto “Jass”, racconto di Daniele Maresco sulla decisiva influenza dei musicisti siculo-americani nella nascita del jazz a 100 anni dal primo 78 giri inciso da Nick La Rocca, mentre sabato, al cinema Massimo, anteprima italiana di Sicilian Ghost Story, il film di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, a poche ore dalla sua presentazione a Cannes dove rappresenta l’Italia alla Semaine de la critique. GONGOLA – e non poteva essere altrimenti – la sindaca Chiara Appendino, sul cui inizio di mandato lo “scippo” milanese era piombato come una tegola: “Di problemi a Torino – scrive la prima cittadina – ce ne sono tanti. Lo so bene, lo sappiamo tutti, e li stiamo affrontando uno per uno. Spesso anche un paio alla volta. Ma tra due giorni (oggi, ndr) partirà quello che il giorno dopo il nostro insediamento era IL problema. Quello che secondo molti non avrebbe dovuto esserci, quello che era ‘un patrimonio’ perso per sempre. Quello che invece ci sarà non sarà un problema, ma il grande risultato di un lavoro di squadra e di collaborazione tra enti, anche per il semplice fatto che lo possiamo annunciare. E per questo voglio ribadire il mio grazie a tutti quelli che lo hanno reso possibile”. Oggi il taglio del nastro al Lingotto Fiere, alla presenza dei ministri Dario Franceschini e Valeria Fedeli e del presidente del Senato Piero Grasso. Si chiude lunedì.

il manifesto 18.5.17
Tortura, «legge inapplicabile». La montagna partorisce il topolino
Senato. Con 195 voti a favore, 8 contrari e 34 astenuti, il Senato approva l’introduzione del reato richiesto dalle convenzioni internazionali
Limitata l’area di punibilità del reato Casson: «Sarà una corsa ad ostacoli, applicarla». Ddl «provocatorio e inaccettabile» secondo l’appello firmato anche dal pm Zucca, Cucchi e Guadagnucci
di Eleonora Martini

ROMA La montagna ha partorito il topolino. Dopo tanti rimpalli, veti incrociati, out out da parte di alcuni sindacati di polizia megafonati dalle destre estreme e di centro, il Senato ieri ha licenziato – con 195 sì, 8 voti contrari e 34 astensioni – un testo che molti di coloro che si battono da anni per introdurre il reato di tortura nell’ordinamento penale italiano non temono di definire «una legge truffa».
La definizione è dei sottoscrittori di un appello firmato tra gli altri dal pm che indagò sulle violenze nella scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001, Enrico Zucca, dal giornalista Lorenzo Guadagnucci che in quella scuola venne torturato insieme a tanti altri dalle forze di polizia, e da Ilaria Cucchi, sorella di Stefano che nel 2009 morì con atroci sofferenze mentre era sotto la custodia dello Stato. L’appello, che bolla il ddl come «provocatorio e inaccettabile», si rivolge «ad Antigone, ad Amnesty International, alle associazioni, a tutte le persone di buona volontà», chiedendo loro «di battersi con ritrovata fermezza affinché la Camera dei deputati cambi rotta e il Parlamento compia l’unica scelta seria possibile, ossia il ritorno al testo concordato in sede di Nazioni Unite».
Con diversi toni ma simili motivazioni, alcuni senatori si sono astenuti, solo perché di votare contro una legge necessaria all’Italia per rientrare nella legalità internazionale non se la sentivano. Astensioni a volte prevedibili, come nel caso di Sinistra Italiana, a volte meno scontate, come quella del presidente della commissione Diritti umani, il dem Luigi Manconi, o l’ex magistrato Felice Casson, passato con Mdp, che non hanno partecipato al voto in aperto dissenso con i loro partiti.
Una legge dal travaglio lungo – malgrado sia tra le più facili da scrivere, perché la fattispecie è dettata chiaramente dalla Convenzione Onu ratificata dall’Italia nel 1988 -, iniziato a marzo 2014 nel peggiore dei modi proprio al Senato, e che non si è ancora concluso. Infatti il testo approvato ieri dalla maggioranza di Palazzo Madama dovrà tornare ora, per la quarta lettura, alla Camera, dove era già stato rimaneggiato e licenziato nell’aprile 2015, in una versione migliore di quella attuale. Il pericolo – difficile però dire se sia il peggiore possibile – è che nel ping pong si arrivi a fine legislatura. E arrivederci legge sulla tortura.
Un rischio che il ministro della Giustizia Andrea Orlando vorrebbe evitare: «È stato compiuto un passo decisivo che ci consente finalmente di sbloccare una fase di stallo durata troppo – ha commentato in una nota il Guardasigilli – Il testo, frutto delle necessarie mediazioni parlamentari, ci avvicina all’obiettivo di introdurre nel nostro ordinamento una nuova figura di reato, su cui anche molti organismi internazionali sollecitano da tempo il nostro Paese. Ora l’auspicio è che la Camera approvi in tempi rapidi e in via definitiva la legge, colmando cosi un vuoto normativo molto grave».
Allo stato dell’arte, il «compromesso» raggiunto tra chi pretende l’impunità completa delle forze dell’ordine e chi si batte per un provvedimento che rechi giustizia alle vittime degli agenti e dei pubblici ufficiali, è tutto definito dall’articolo 1 della legge che introduce il nuovo reato nell’ordinamento penale con gli articoli 613 bis e 613 ter. Il primo comma restringe, rispetto al testo della Camera, la fattispecie del reato («violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà» che cagionano «acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico») e delimita la punibilità: «è punito con la pena della reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è compiuto mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona» (nelle Convenzioni Onu i trattamenti sono inumani o degradanti, e non occorrono più condotte; inoltre, come sostiene l’appello contro la «legge truffa», «la possibilità di prescrizione permane»).
Nel testo, la pena sale da 5 a 12 anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nelle sue funzioni, e arriva a 30 anni di reclusione nel caso di morte «non voluta» del torturato; ergastolo se il decesso è nella volontà del torturatore. La pena però «non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». Un passaggio, quest’ultimo, «decisamente superfluo» (lo sottolineano i senatori di SI) ma necessario per tranquillizzare certi sindacati di polizia.
Scritta così, «tecnicamente male», secondo l’ex pm e giudice istruttore Felice Casson, «è inapplicabile», soprattutto perché «le condizioni poste alla punibilità, reintroducendo il concetto di reiterazione del reato, renderanno i processi una corsa ad ostacoli sempre più complicata». Anche il M5S parla di «formule che annacquano il testo», ma alla fine opta per il voto a favore. Per l’associazione Antigone, il ddl è «molto confuso, pasticciato, arzigogolato». In una parola: limitato, se non inutile. La palla passa ora alla Camera, in una corsa contro il tempo. Anche se una soluzione ci sarebbe: tornare al testo concordato in sede internazionale fin dal 1952.

il manifesto 18.5.17

Nella vostra legge «tutto il male del mondo»
di Luigi Manconi

Non ho partecipato al voto sull’introduzione del delitto di tortura nel nostro ordinamento perché ritengo che quello approvato non sia un testo mediocre: è né più né meno che un brutto testo. E la scelta di non votarlo è stata per me particolarmente gravosa perché il disegno di legge in origine portava il mio nome, in quanto esattamente il primo giorno dell’attuale legislatura (il 15 marzo 2013) depositai il mio testo. Del quale, oggi, praticamente nulla più resta.
Nell’articolato discusso nel luglio del 2016, si pretendeva che le violenze o le minacce gravi fossero «reiterate» perché così, e solo così, si sarebbe concretizzato il reato di tortura. Oggi, nel testo approvato, si dice che il fatto è punibile se compiuto mediante «più condotte». Ora, passi che il reato di tortura non sia riconosciuto per quel che è: un reato proprio dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio, derivante cioè dall’abuso di potere di chi tiene sotto la propria custodia un cittadino. Passi che il trauma psichico della vittima di tortura debba essere «verificabile» per concorrere a definire il fatto delittuoso. Ma che quest’ultimo debba comportare, per essere perseguibile, «più condotte» (dello stesso genere o necessariamente distinte?), ciò è davvero inaccettabile.
Così come è stata scritta, la norma risulta di ardua applicazione: devono ricorrere nella definizione votata tali e tante circostanze da rendere complessa ogni operazione ermeneutica.
D’altra parte, come si è detto, per esservi tortura devono verificarsi violenze esercitate attraverso più condotte. Dunque il singolo atto di violenza brutale (si pensi a una pratica singola di water boarding) potrebbe non essere punito. Ancora, scrivere che il trauma psichico deve essere verificabile significa introdurre un elemento di valutazione che impone probabilmente perizie psichiatriche o psicologiche. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima?
Tutto ciò significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà o comunque loro affidate. E non per un riprovevole ma dichiarato atteggiamento di giustificazione della tortura in nome di qualche stato di eccezione: bensì solo per accondiscendere a richieste corporative che vogliono salvaguardare i peggiori, infangando la dignità dei migliori tra gli appartenenti alle forze di polizia, che, nella grande maggioranza, non userebbero violenza contro le persone sottoposte alla loro custodia. Non sanzionare quanti ricorrono a torture o a trattamenti inumani o degradanti, questo sì che significa disonorare la divisa e ledere il prestigio delle forze di polizia.
Tutto ciò conferma ancora una volta come i partiti non riescano a liberarsi di quel riflesso d’ordine che li rende subalterni, prima ancora che ai corpi dello Stato, alle loro rappresentanze politico-sindacali, alle loro potenti pulsioni corporative e alle loro irresistibili tendenze alla connivenza. È come se la classe politica non si fidasse della lealtà delle polizie, dubitasse della loro dipendenza in via esclusiva «dalla legge». Da qui, una sorta di complesso di inferiorità e di sudditanza psicologica che pone come prioritario l’obiettivo della stabilità e della compattezza di quegli stessi apparati, anche quando ciò vada a scapito della piena legalità del loro agire. E a scapito di indispensabili, e non sempre indolori, processi di democratizzazione. Si tratta di un meccanismo micidiale che alimenta lo spirito di corpo e ostacola qualunque processo di autentica autoriforma.
Di conseguenza anche questa non sembra la legislatura adatta per far corrispondere il nostro codice penale alle disposizioni costituzionali e a quelle della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984.
In ultimo, ricordo che la ratifica da parte dell’Italia di quella Convenzione porta la data del 1 gennaio 1988. È l’anno di nascita di Giulio Regeni, il nostro connazionale sequestrato, torturato e ucciso al Cairo nel 2016. Perché richiamo questa coincidenza? Perché nell’atteggiamento – che mi addolora definire inerziale – del nostro Paese nei confronti del regime dispotico dell’Egitto, che nega la verità su quella morte, trovo una possibile e drammatica chiave di interpretazione. L’Italia, tuttora priva di una legge contro la tortura, rivela una sorta di complesso di colpa e un deficit di autorità morale quando deve pretendere da un altro Stato un’intransigente ricerca e una severa sanzione delle responsabilità di chi ha seviziato e brutalizzato il corpo di un giovane. Non posso non ricordare qui le parole dei genitori di Giulio Regeni, ai quali dedico questo mio modesto atto di dissenso. Davanti al suo corpo martoriato, hanno detto: «Il volto di nostro figlio era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Lo abbiamo riconosciuto dalla punta del naso. Sul suo viso tutto il male del mondo».
Sì, tutto il male del mondo – nel pensiero dei signori Regeni – è appunto la tortura. Che non è solo esercizio di violenza sull’organismo fisico della vittima, sugli arti, sulle piante dei piedi, sulla schiena, sui genitali e sul volto. È volontà di degradazione della persona, mortificazione della sua identità, annichilimento della sua dignità. È intenzionale riduzione della «materia umana» (Primo Levi) alla sola dimensione del dolore fisico, schiacciando e annullando quell’umano nella materialità sofferente del corpo brutalizzato.

Repubblica 18.5.17

Il Paese diviso e immobile
di Chiara Saraceno

IL RAPPORTO Istat di quest’anno ha come tema quello delle disuguaglianze. Queste, secondo gli estensori del rapporto, hanno un profilo frammentato, non più agevolmente riconducibile a quello delle classi tradizionali. Allo stesso tempo, a seguito della lunga e non ancora superata crisi, sono anche congelate, con un rafforzamento delle caratteristiche di scarsa fluidità sociale che tradizionalmente vengono imputate alla società italiana, che appare così insieme frammentata e immobile. Una società dove i destini sociali degli individui sono fortemente condizionati dalla loro origine sociale e dove avere una occupazione non sempre è sufficiente per tenere fuori dalla povertà se stessi e la propria famiglia. Se poi si è migranti, la situazione è anche peggiore. Secondo gli estensori del rapporto, infatti, le famiglie in cui vi è almeno un componente migrante non solo sono collocate prevalentemente negli strati sociali economicamente più modesti, ma sono state colpite dalla crisi più di quelle in cui tutti sono autoctoni.
Per tratteggiare questa fotografia, gli estensori del rapporto hanno utilizzato i ricchi dati di cui dispone l’istituto per individuare differenti gruppi sociali sulla base delle caratteristiche economiche, di istruzione, di possesso o meno dell’abitazione, della cittadinanza, e così via. In questo modo, a partire da una prima dicotomizzazione sulla base della posizione professionale, procedendo poi per selezioni successive (secondo una struttura analitica “ad albero”, come viene spiegato) hanno individuato nove gruppi in cui possono essere distribuite le famiglie residenti, ambiziosamente definiti non come puri aggregati statistici, ma come aventi esperienze, interessi, stili di vita comuni. Si tratta di un esercizio, o meglio un obiettivo, in sé interessante, nella misura in cui è vero che non basta il reddito e neppure la professione a definire il senso di appartenenza di un individuo e tantomeno della sua famiglia. La base concettuale e metodologica che lo regge tuttavia è fragile e se ne vedono le conseguenze sui gruppi individuati. Procedendo per successive selezioni, infatti, contrariamente alle intenzioni si privilegia una dimensione (in questo caso la condizione professionale, per altro definita in modo confuso) su tutte le altre, impedendo di vedere se e come altre dimensioni (ad esempio l’istruzione, o l’essere monoreddito, o la numerosità della famiglia) siano invece altrettanto o più importanti, aggregando diversamente i gruppi sociali. Ne derivano alcuni risultati concettualmente problematici fin dal primo passo, che divide le famiglie in due grandi gruppi: da una parte le famiglie in cui la persona di riferimento (paradossalmente chiamata “principale percettore di reddito”, anche quando non ne percepisce affatto) è “inattiva o disoccupata, oppure lavora ma si colloca nella fascia bassa delle retribuzioni (lavoratore atipico, cioè dipendente con contratto a termine o collaboratore, operaio o assimilato)”; dall’altra parte ci sono tutte le altre famiglie. Le suddivisioni successive avvengono all’interno di questi due grandi gruppi, senza che sia più possibile individuare somiglianze trasversali ed invece trovando gruppi statistici che è difficile immaginare come veri gruppi sociali caratterizzati da interessi e prospettive di vita comuni, come, ad esempio, quello composto da “anziane sole e giovani disoccupati”. Anche i termini utilizzati per individuare i gruppi aumentano la confusione. Il gruppo denominato “pensioni d’argento” in realtà contiene anche famiglie di dirigenti, non solo di pensionati abbienti. Quanto alle “famiglie tradizionali di provincia”, fanno sorgere il dubbio che tutte le altre vivano in città. Non sorprende che alla fine prevalga l’eterogeneità interna ai gruppi così individuati invece di quella tra gruppi, una eterogeneità che spiegherebbe ben l’80% della disuguaglianza. Viene così smentita l’ambizione di fornire nuove categorie più utili all’analisi della stratificazione sociale di quelle tradizionalmente adottate.
Si rimane con una immagine sfocata e dispersiva, dove mancano informazioni importanti. Ad esempio, dove stanno e che caratteristiche hanno le famiglie in povertà assoluta? Fa differenza se un operaio è specializzato o comune? Se in famiglia lavorano in due o uno solo? Se il principale percettore di reddito è un uomo o una donna? Se vivono al Nord, al Centro o al Sud? Se si è all’inizio della propria carriera lavorativa o verso la fine? Come se la cavano le famiglie con un genitore solo? Tra i separati, dal punto di vista economico, fa differenza se si è uomini o donne?

il manifesto 18.5.17

Pd, il proporzionale è solo un trucco
Legge elettorale. Arriva la proposta del relatore Fiano, è l'ultima ma è già il testo base. Prevede un solo voto che si trasferisce automaticamente dal collegio uninominale alla lista o al listone. Renzi, come già per l'Italicum, prova a dettare forzature e tempi rapidi alla camera. E intanto manovra per conquistare i voti necessari al senato
di Andrea Fabozzi

Una legge maggioritaria ben oltre il 50% dei collegi uninominali. Con la quota proporzionale annichilita dal fatto che è possibile un solo voto, automaticamente esteso dal candidato nel collegio alla lista che lo sostiene. Lista unica, perché le coalizioni sono escluse o meglio dovranno travestirsi da listoni. Non è bastato il referendum, non è bastata la Corte costituzionale. Con il testo Fiano, depositato ieri sera, il Pd riprende la strada dell’Italicum e del prendere o lasciare.
QUANDO nel pomeriggio cala l’ultimatum di Matteo Renzi, non c’è ancora il testo della legge proposta dal Pd. Il segretario vuole che la prima commissione della camera la approvi immediatamente, entro una settimana, perché possa essere messa all’ordine del giorno dell’aula per la fine di maggio. «Questo permetterà – spiega Renzi via facebook – di avere tempi contingentati e di approvare la nuova legge nei primi giorni di giugno». Aggiunge un appello: «Chiediamo a tutti i partiti di non perdere altro tempo. Sono passati sei mesi dal referendum, non prendete in giro gli italiani». Renzi ha ragione sul regolamento, ma ha torto su tutto il resto. È responsabilità del Pd se la data del 29 maggio non potrà essere rispettata.
MARTEDÌ SERA i democratici in commissione hanno affossato il testo base del relatore e hanno cambiato linea per la terza volta in due mesi, costringendo tutti a ripartire da zero. Il capogruppo del partito in commissione, Emanuele Fiano, ha annunciato un nuovo testo, ma l’ha depositato solo ieri sera alle otto, due ore dopo l’ultimatum di Renzi. È il finto Mattarellum, che prevede il 50% di seggi uninominali e il 50% proporzionali, ma con il divieto di voto disgiunto (come abbiamo spiegato ieri). Il Pd lo presenta come «testo base», eppure è solo il 32esimo progetto di legge che arriva in commissione (ci sono anche otto petizioni). Non armonizza affatto le proposte dei vari gruppi anzi ignora anche le precedenti undici del Pd. Storia già vista, andò esattamente così per l’Italicum. Arrivo anche quello alle otto di sera, buon ultimo in commissione (23esimo), incompleto. Fu assunto subito come testo base, anche allora sospinto da Fiano, per il quale l’Italicum avrebbe assicurato «un futuro di democrazia più efficiente, più stabile e più rappresentativa». La fine è nota.
PIÙ CHE LA FINE, le parole di Renzi illuminano l’immediato futuro. Preparano nuovi strappi, prima in commissione poi in aula. Approvare il testo entro il 29 è impossibile, dal momento che quando i commissari lo conosceranno – oggi è previsto l’ufficio di presidenza dedicato ai tempi della discussione – dovranno avere almeno una settimana per gli emendamenti – stiamo parlando di un testo fin’ora sconosciuto. Impossibile discuterli e votarli tutti, se non con forzature e sedute notturne già viste ai tempi dell’Italicum. Questa volta però la presidente della camera Boldrini ha fatto arrivare il messaggio (ne ha parlato con gli esponenti del comitato del No che ha ricevuto qualche giorno fa) che sarà garantito l’esame pieno delle legge. Non si può correre il rischio di un’altra legge elettorale incostituzionale. Sarebbe la terza, dopo il Porcellum e soprattutto dopo l’Italicum, tutte e tre sotto il segno di Denis Verdini. Perché Renzi anche in questo sta ricalcando lo schema Italicum. Il finto Mattarellum è scritto sulla traccia di una proposta originaria di un deputato (Parisi) verdiniano.
ED È PERSINO PEGGIO, perché se il voto disgiunto era vietato anche nel testo Parisi, nel testo Fiano è previsto un solo voto. Cade completamente l’ingannevole paragone con il sistema tedesco – dove sono previsti due voti, anche disgiunti – e con il Mattarellum – dove erano previste per l’uninominale e il proporzionale addirittura due schede. In questo caso il voto è unico e si estende non solo dalla lista (proporzionale con due/quattro nomi) al candidato (uninominale) ma anche dal candidato alla lista. Trasparente l’intenzione di Renzi di costruire la campagna elettorale sull’appello al voto utile. Non contano le figurine dei candidati all’uninominalie: chi vuole votare contro Grillo o Berlusconi sarà indotto a votare Pd, viso che le altre liste più piccole hanno poche chance di conquistare il seggio nella sfida maggioritaria. Valido però anche il ragionamento opposto: per votare contro Renzi sarà più forte il voto a Grillo. In questo modo la penalizzazione per le liste minori è massima e va ben oltre la soglia di sbarramento del 5% (che consente un teorico diritto di tribuna di 14 seggi), e che potrà essere oggetto di negoziazione tra il Pd e i centristi di Alfano.
AL MOMENTO Alternativa popolare è schierata per il No. Così come Forza Italia. In teoria al senato la legge non ha i numeri. Ma più che il merito della proposta, importa il momento in cui arriverà a palazzo Madama. Saranno giorni, gli ultimi della legislatura, in cui sarà aperto il mercato delle nuove liste. Se Alfano ci ripensa, al senato Renzi ha tutti i voti che gli servono. Se non ci ripensa, può farcela lo stesso con l’appoggio di mezzo gruppo misto che già è nella scia del Pd e di un po’ di senatori del Gal, per tacere delle frange forziste.
La strada del testo Fiano non è troppo in salita. Oltretutto il Pd ha di fronte un’alternativa che non disprezza: andare a votare con le due leggi in vigore. Nei prossimi giorni si guarderà anche ai difetti minori della proposta arrivata ieri sera, dove per esempio è sparita l’alternanza delle candidature per genere ed è stata cancellata la firma digitale.

Repubblica 18.5.17

Graziano Cioni
L’ex assessore fiorentino: la rete di Renzi parte dal 2008
“Così nasce il Giglio e l’asse con Verdini”
Denis diede una mano a Matteo sia alle primarie che per l’elezione a sindaco: gli mise contro Giovanni Galli
di Massimo Vanni

FIRENZE. «È il 2008 la data che spiega chi è Matteo Renzi e il Giglio Magico che ha intorno. Tutto nasce da lì». Graziano Cioni, classe 1946, passa oggi le sue giornate in un ufficio di periferia. A Palazzo Vecchio, pur non essendo mai stato sindaco, però era lui, il figlio del cenciaiolo empolese, a dettare legge. Lui lo “sceriffo” che cacciava i mendicanti, l’assessore con la coda più lunga. Lui a chiedere a Renzi la ‘rappresaglia’ nei confronti di Sonia Innocenti, la sua ‘protegé’che aveva deciso di sostenere Lapo Pistelli nella corsa a sindaco.
Cioni, si ricorda di Innocenti?
«Certo. Non si era comportata correttamente con me. Ma parliamo di politica...».
Allora perché dice che tutto nasce nel 2008?
«Ho sostenuto Renzi alle primarie per il sindaco, gli ho portato dei voti. Solo che si pensava di sapere tutto di cosa accadde…».
E invece?
«Invece c’ho messo anni per capire. E l’ho capito quando Renzi era ormai a Palazzo Chigi e tutte le relazioni si erano trasferite a Roma. Verdini incluso».
Verdini allora sedeva alla corte di Berlusconi.
«Sì, ma fu proprio Verdini a fare un bel regalo a Matteo: indicare l’ex portiere della Fiorentina Giovanni Galli come candidato sindaco del centrodestra. Ottima e stimata persona ma digiuno delle scaltrezze della politica. Una scelta che fa il paio con quella di Renzi di non usare mai il simbolo del Pd».
È risaputo che l’elettorato di centrodestra votò Renzi.
«Ci fu qualcosa di più, come ho scritto nel mio libro. L’ex direttore della ‘Nazione’ e deputato di Forza Italia Umberto Cecchi rivendicò un ruolo nella vittoria di Renzi alle primarie per il sindaco di Firenze. E con Verdini si creò un rapporto che dopo un po’ portò al Patto del Nazareno».
Era ormai alla testa del Pd.
«Occhio però: Renzi non è qualcosa di diverso dal Pd. Perché il Pd produce Renzi. Non è di destra, Renzi è di Renzi. E gli capita di fare cose di sinistra. Ma sempre con gli stessi».
Non solo col centrodestra.
«Appunto. A fermare il favorito alle primarie Lapo Pistelli, deputato Margherita oggi fuori dalla politica, ci pensarono due ex dc. Renzi temeva che la sinistra votasse Pistelli e ci pensarono gli strateghi a dividere la sinistra con un altro candidato».
Chi erano?
«Fu l’attuale sottosegretario Antonello Giacomelli, accompagnato da un assessore regionale, ad incontrarmi segretamente per chiedermi di candidarmi. Rifiutai. E pochi giorni dopo nacque la candidatura di Michele Ventura, amico di Bersani, con l’idea di raccogliere la sinistra schierata con Pistelli e quella schierata con Daniela Lastri».
Bella mossa.
«Fu un caso che Francesco Bonifazi e Maria Elena Boschi sostennero Ventura per poi passare con Renzi subito dopo?» Ventura fu strumento consapevole?
«Non credo ma potete chiederlo a lui. Organizzerò a giorni un confronto pubblico con lui».
E Filippo Vannoni, anche lui era su piazza nel 2008?
«Certo, era presidente di un’azienda che si occupa di anziani. È uno scout, renziano della prima ora, sposato con la figlia di Ugo De Siervo. Era quello che sul camper di Renzi aveva sempre il panino in bocca».
È grazie agli amici se è arrivato a Palazzo Chigi?
«È grazie al presidente Napolitano, che ha incontrato fin dai tempi della Provincia».
Che pensa dello scontro al telefono tra padre e figlio?
«L’intercettazione ha tolto dai giornali il caso Boschi e se fosse davvero opera sua, tanto di cappello. C’è da ridere se avesse utilizzato Il Fatto ».

Repubblica 18.5.17

Reato di tortura, sì del Senato Manconi: “Stravolto il testo”
Polemica sulle modifiche, anche Amnesty è critica
Il ddl dà applicazione con 30 anni di ritardo alla convenzione Onu. Ok da Pd e 5Stelle ma con distinguo Casson: “È rientrata dalla finestra la formula ambigua per cui la tortura, per essere reato, deve essere reiterata”
di Silvio Buzzanca

ROMA. Il Senato della Repubblica approva in terza lettura l’introduzione del reato di tortura e rispedisce il disegno di legge alla Camera per l’approvazione finale. Con una previsione di pena massima di 30 anni per i rei se la vittima muore. Sul tabellone dell’aula si contano 195 voti favorevoli, a partire da Pd e 5Stelle, 8 contrari e 34 astensioni. Con l’avvertenza che a Palazzo Madama astenersi significa votare contro.
Nel conteggio mancano però anche i senatori che hanno annunciato che avrebbero abbandonato l’aula, evitando di partecipare al voto. Luigi Manconi, per esempio, presidente della commissione Diritti umani di Palazzo Madama. Il disegno di legge porta la sua firma, ma ieri ha detto che «è un brutto testo, del ddl che ho presentato il primo giorno di legislatura non rimane nulla, è stato stravolto».
Anche Felice Casson, Mdp, uno dei cofirmatari del testo, ha lasciato l’aula. «Un compromesso al ribasso - ha spiegato - che sarà inapplicabile». Si astenuta anche Sinistra Italiana la cui capogruppo Loredana De Petris, era una cofirmataria. La legge viene bocciata anche da Amnesty internationale e da Antigone che lamentano come il testo sia « impresentabile», «distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura».
No arrivano però anche da destra. Maurizio Gasparri, contento che siano stato introdotti alcuni “correttivi” al testo, ma preoccupato che si possa fare in futuro «un uso strumentale della legge contro le forze di polizia», si è astenuto.
E così anche il gruppo Idea, con Carlo Giovanardi che ha citato il caso Aldrovandi. Il testo non piace neanche a Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia e alla Lega, che parlano di criminalizzazione delle forze di polizia e annunciano battaglia alla Camera.
Il testo è frutto di un dibattito piuttosto vivace, ruotato intorno alla definizione del reato di tortura. La maggioranza dei senatori ha deciso che c’è reato quando «chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minore difesa, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni», ma solo se il fatto «è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Il tema centrale dello scontro è proprio il passaggio dove si scrive che il reato scatta se «il fatto è commesso mediante più condotte».
«La formula ambigua per cui le torture, per essere considerate tali, dovevano essere “reiterate” è uscita dalla porta per rientrare dalla finestra con la formula “più condotte”»,

Repubblica 18.5.17

Così il lavoro manuale degli autori sulla pagina ha generato le opere più belle della nostra letteratura
Da Petrarca a Eco il fascino eterno del manoscritto
di Alberto Asor Rosa

GIOVANNI BOCCACCIO
Ormai vecchio e stanco, il grande autore del Decameron decide di copiare a mano, in prima persona, l’intero suo testo, illustrandolo anche con delle vignette
GIACOMO LEOPARDI
Tormentato dalle febbri, il poeta di Recanati malgrado lo sforzo interviene fino all’ultimo di proprio pugno, testardamente, su parte delle sue Operette morali
UMBERTO ECO
Niente macchina da scrivere né altri, più sofisticati, strumenti che all’epoca cominciavano a diffondersi: Il nome della rosa è stato scritto a mano dal suo autore

Un libro fuori della norma saggistica più abituale è “Scritti a mano”, di Matteo Motolese (Garzanti, pagg. 260, euro 20), apparso recentemente. Sul frontespizio compare anche un lungo sottotitolo esplicativo, che per ora mi risparmio, vi risparmio, preferendo affrontare la complessa materia con i miei mezzi. Ma, appunto, cosa vuol dire innanzi tutto quello strano titolo? Motolese, che è fondamentalmente un linguista di scuola romana, sceglie, studia, minuziosamente descrive, ricostruisce e interpreta una serie di testi capitali nella storia della letteratura italiana, dei quali esistono esemplari in tutto o in parte autografi
dell’autore. I testi e i loro autori sono quanto di più elevato si possa riscontrare nella nostra storia letteraria e culturale, ma anche, come io non mi stanco mai di ricordare e di sottolineare, nella storia della nostra genesi e identità nazionale. Sono: il Decameron di Giovanni Boccaccio, il Canzoniere (meglio: Rerum Vulgarium fragmenta) di Francesco Petrarca; la Grammatica di Leon Battista Alberti; il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei; le Operette morali di Giacomo Leopardi; Satura di Eugenio Montale; Il nome della rosa di Umberto Eco (come è noto, di Dante non esistono autografi). Sono sei secoli di esplorazioni e rinnovamenti, di scoperte e di geniali illuminazioni (il codice del Decameron di mano del Boccaccio è del 1370;
Il nome della rosa appare a stampa nel 1980).
Motolese studia questo eccezionale campionario in maniera che da ognuno di quei testi, attraverso l’itinere che parte dalla prima stesura e arriva alla scelta definitiva, risulti con estrema chiarezza il processo creativo, la genesi intellettuale – immaginativa, che lo caratterizza e lo rende diverso (e superiore!) rispetto a tutto il resto del mondo. Mi verrebbe di dire: in sé e per sé si tratta di un’indagine eminentemente linguistica e paleografica; la quale però assume a un certo punto i connotati e l’operatività di una nuova forma di “critica storica”, in non pochi casi e momenti più attendibile ed efficace di quella che molto spesso viene esercitata da chi lavora professionalmente in questo settore.
Motolese non si limita infatti a studiare e descrivere il processo verticale che dal primo testo manoscritto porta al testo definitivo, manoscritto o stampato che sia. Ma allarga lo sguardo all’intero percorso scientifico, umano e personale, attraverso il quale quei risultati vengono raggiunti. In una sorta di andamento tridimensionale: c’è innanzi tutto la ricostruzione storica e genetica, comunque prevalentemente fattuale, del testo, manoscritto o stampato che sia (con le eventuali intersezioni fra le due forme): poi (o contestualmente, come pare più opportuno all’autore) c’è la narrazione, quanto mai vivace e creativa, delle occasioni, modalità, luoghi, situazioni bibliotecarie nei quali e attraverso i quali la sua ricerca si è dispiegata e concretizzata; infine c’è una puntualissima, scientificissima, ma al tempo stesso affascinante e narrativa, analisi delle varie forme linguistiche, stilistiche, culturali e ideali, di cui ogni singolo testo è portatore, con una particolare attenzione rivolta ai mutamenti e alle innovazioni. Dico tutto questo per un motivo che a questo punto m’interessa moltissimo chiarire. Questo non è un libro per specialisti. Per argomenti, dimostrazioni e scrittura (dell’autore, s’intende), potrebbe essere considerato un efficace introibo all’esaltante frequentazione da parte di chiunque, del livello letterario più alto. E cioè, se è così che è avvenuto, se le cose sono andare proprio così, allora si può, risalendo quel percorso, arrivare veramente a capire e gustare quel che di primo acchitto sembrerebbe difficile o addirittura impenetrabile.
Dovrei ora entrare di più nel merito: ricordando, magari, come Boccaccio, vecchio e stanco, intraprenda l’immane fatica di assicurare al testo del Decameron la sua veste più definitiva, copiandolo diligentemente tutto, non senza qualche visibile ripensamento, illustrandolo per giunta con divertentissime e spiritosissime vignette dei suoi personaggi (è il Codice Hamilton 90 di Berlino, su cui si basa l’edizione critica di Vittore Branca, 1976, quella su cui attualmente leggiamo la leggendaria raccolta di novelle in tutte le possibili edizioni del mondo); o come Giacomo Leopardi, malato e tormentato dalle febbri, e ormai vicino alla morte, torni a intervenire, tenacemente e testardamente, sul testo delle Operette morali, di cui un editto dei Borboni, regnanti a Napoli, ha interdetto, su ispirazione della Chiesa, la pubblicazione («la mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto…»).
Non potendo farlo, preferisco concludere con alcune osservazioni, in cui l’emozione della scoperta si mescola per me con la commozione del ricordo, e con un auspicio.
Il primo caso: Il nome della rosa di Umberto Eco. Quando il libro apparve nell’80, fui uno tra i pochi lettori professionali ad osservare come quell’opera introducesse sulle nostre lettere un nuovo paradigma d’invenzione narrativa, reso attivo e creativo, per giunta, da una formidabile capacità di divertimento e di riso. Ora Motolese, introdotto nell’archivio Eco soltanto pochi mesi dopo la sua scomparsa dalla generosità della vedova Renate e del figlio Stefano, ha cominciato a sondare l’incredibile molteplicità delle sorgenti inventive e delle scelte narrative, da cui il Grande Professore è stato stimolato e quel libro è nato: tutta roba scritta non casualmente a mano, come nella tradizione, altro che macchina da scrivere, altro che computer... Ora, evidentemente, si tratta di tornarci su e di andare avanti. L’auspicio: come lasciano intendere alcuni fondamentali contributi (per esempio, l’edizione delle sue opere nei Meridiani Mondadori ad opera di un gruppo di illustri studiosi milanesi), dietro e sotto l’opera narrativa di Italo Calvino s’intravvede una vera miniera di “scritti a mano”, preludio, arricchimento e formidabile strumento interpretativo del Calvino stampato, che conosciamo. Quando e come ci si calerà in quella miniera per estrarne fino in fondo l’esaltante vena d’oro?

Corriere 18.5.17
Non ci sono più le classi sociali di una volta
Italia 2017. Rapporto annuale Istat: la relazione tra l’appartenenza di classe e l’identità sociale si è sfaccettata. Operai e borghesi sono classi esplose nella crisi. La zona grigia dove si intrecciano la precarizzazione degli uni e la proletarizzazione degli altri coinvolge ugualmente il lavoro autonomo freelance e ordinistico. Il presidente Istat Alleva: «La ripresa, a causa dell’intensità insufficiente della crescita economica, stenta ad avere gli stessi effetti positivi diffusi all’intera popolazione». E' record di precariato e disuguaglianze, mentre crollano le nascite
di Roberto Ciccarelli

ROMA Dieci anni di crisi hanno frammentato la classe operaia e la classe media e modificato il senso dell’appartenenza sociale. Il rapporto annuale dell’Istat, presentato ieri alla Camera dal presidente Giorgio Alleva, sostiene che la classe operaia ha perso il suo connotato univoco, mentre la borghesia si distribuisce su più gruppi sociali. La relazione tra l’appartenenza di classe e l’identità sociale si è sfaccettata e il reddito da lavoro non basta per definire capacità e disponibilità omogenee all’interno delle stesse classi sociali tradizionali.
Quinto stato
LA PRINCIPALE CAUSA di questa «esplosione» dei confini tra le classi ereditati dal Novecento è la «precarizzazione delle forme contrattuali» e l’aumento delle «diseguaglianze sociali» sostiene l’Istat. Venti anni di destrutturazione del mercato del lavoro iniziata nel 1997 con il «pacchetto Treu» del primo governo Prodi e terminata (al momento) con il Jobs Act di Renzi entrato in vigore il 7 marzo 2015 hanno portato a una trasformazione radicale della composizione sociale: oggi non basta essere operai per appartenere alla classe operaia e non basta essere impiegati o occupati per essere «borghesi». Nella posizione della classe operaia oggi si ritrovano quelli che l’Istituto nazionale di statistica definisce «giovani blue-collar», ovvero precari del terziario più o meno avanzato. Un settore che all’inizio della trasformazione produttiva in senso post-fordista – negli anni Novanta – sembrava essere una terra promessa. E per anni si è fantasticato sulle “classi creative”, o altri ritrovati sociologici, che l’avrebbero popolato. Dopo quasi un lustro il rapporto dell’Istat ne restituisce un’immagine più realistica: il terziario avanzato si è trasformato in un «sommerso post-terziario» dove il lavoro intermittente è accompagnato da un «sommerso dei redditi» dove proliferano figure labili e provvisorie, che vivono sulla soglia tra formazione e lavoro, tra precariato e impieghi gratuiti.
NELLA STRAGRANDE MAGGIORANZA si tratta di under 49 che lavorano con contratto a tempo determinato o con la partita Iva, svolgono attività discontinue nel pubblico o nel privato, hanno anche creato famiglie più o meno stabili. Il loro reddito è ben al di sotto del ceto medio delle professioni o impiegatizio. Lo stesso discorso vale per il ceto medio all’interno del quale esistono redditi e occupazioni più vicine alla condizione di un nuovo proletariato che a quelle più tradizionali che attribuiva alla «borghesia» il ruolo della «classe dell’innovazione sociale», così è scritto nel secondo capitolo del rapporto. La zona grigia dove si intrecciano la precarizzazione degli operai e la proletarizzazione del ceto medio coinvolge ugualmente il lavoro autonomo freelance e ordinistico. Questa condizione definita – «Quinto stato» o «precariato come classe esplosiva» (Guy Standing), va inoltre analizzata alla luce della crescita della povertà assoluta: 4,6 milioni di persone e della povertà relativa (8,3 milioni) in cui rientrano alcune delle categorie considerate nel rapporto. Nella piramide sociale le famiglie più svantaggiate sono quelle straniere (4,7 milioni di persone), la fascia più benestante è composta da 12,2 milioni catalogate come «famiglie di impiegati».
Apolidi
FUORI DA QUESTO SCHEMA, risultato di un’evoluzione di quello approntato da Paolo Sylos Labini in un celebre volume sulle classi sociali nel 1974, emerge un settore “apolide”. Nel 2016 l’Istat ha contato circa 3 milioni 590 mila famiglie senza redditi da lavoro. Parliamo di milioni di persone che non risultano, almeno agli occhi delle statistiche ufficiali, né occupati né pensionati da lavoro. La percentuale più alta si registra nel Mezzogiorno (22,2%) Sono definiti nuclei «jobless» dove si va avanti grazie a rendite diverse, affitti o aiuti sociali. Rispetto al 2008 queste famiglie erano 3 milioni 172 mila. Tutte le classificazioni sono limitate e, spesso, macchinose. Quelle dell’Istat non fanno eccezione. Ma possono essere lette in senso trasversale, come una spia della complessità del divenire delle classi nella crisi. In questo caso, nella stessa fascia, si trovano evidentemente persone che possono vivere di rendita (o affittano appartamenti su Airbnb) e persone che vivono con uno o più sussidi. La categoria potrebbe essere fallace, ma l’indistinguibilità tra uno stile di vita da rentier e quello da poverissimo dice molto dello sconfinamento avvenuto e della realtà sociale in cui siamo immersi.
Boom di precariato
DATI IMPRESSIONANTI che parlano di un impoverimento di massa e dell’affermazione di una nuova realtà: il lavoro povero che non basta per arrivare a fine mese è insufficiente per accumulare una pensione e non basta per pagarsi una visita medica specialistica. Uno su dieci rinuncia. A Sud è record: rinuncia il 10% della popolazione. Crisi dei redditi, mancanza di prospettive spiegano anche il crollo delle nascite: «Nel 2016 abbiamo superato il record negativo che non si registrava dalla metà del 500» ha detto Alleva.
L’OCCUPAZIONE CRESCE nei settori meno qualificati e aumenta il lavoro intermittente. Quello permanente a tempo parziale è stato l’unica forma di lavoro a crescere nella crisi (+789 mila dal 2008, +101 mila nell’ultimo anno). Dal 2008 i precari sono aumentati di quasi un milione (+29,3%), arrivando nel 2016 a un totale di quasi 4,3 milioni di persone. Quanto al tasso di disoccupazione è diminuito solo lievemente a livello nazionale (11,7% da 11,9% del 2015) ma è aumentato di due decimi nelle regioni meridionali e insulari (19,6%). Le retribuzioni contrattuali per dipendente sono aumentate dello 0,6% nel 2016, in ulteriore rallentamento rispetto all’anno precedente (+1,2%).
SI E’ AFFERMATA inoltre un’asimmetria generazionale tra gli over 50 che hanno un lavoro vero e proprio (effetto Jobs Act combinato con la riforma Fornero che ha aumentato l’età pensionabile) e i «giovani adulti» tra i 24 e i 49 anni. Questa è la fascia anagrafica più precarizzata. Di solito è considerata la più «produttiva». In realtà è la prima generazione che ha sperimentato, sulla propria pelle, la violenza della ristrutturazione capitalista che ha modificato anche la struttura sociale italiana. Accanto, o nel mezzo, ci sono i «Neet», i «giovani che non studiano né lavorano» fino ai 29 anni: nel 2016 sono scesi a 2,2 milioni, per effetto dei trucchi statistici che mascherano la disoccupazione reale la formazione professionale o tirocini con Garanzia giovani. E tuttavia i numeri sono così imponenti da rendere evidente l’anomalia italiana; l’incidenza dei «Neet» è del 24,3%, la più elevata in Europa dove la media è al 14,2%. Uno degli effetti più visibili di questa situazione è che sette giovani under 35 su dieci vivono nella famiglia di origine per mancanza di lavoro o perché guadagnano troppo poco per conquistarsi un’indipendenza.
«Degiovanimento»
I GIOVANI si trovano al centro di un duplice processo. Quello sociale dell’esplosione delle classi sociali tradizionali e quello demografico. Per l’Istat l’Italia sta vivendo un «degiovanimento», ovvero il calo delle generazioni dei giovani sulla popolazione complessiva. «Analizzando la struttura per età stimata al primo gennaio 2017, si nota la forte riduzione dei contingenti delle generazioni più giovani, praticamente la metà delle generazioni nate nel periodo del baby boom». Siamo «uno dei Paesi con il più basso peso delle nuove generazioni». Nell’ultimo decennio, dal 2008 al 2017, la popolazione residente di età compresa tra i 18 e i 34 anni è diminuita di circa 1,1 milioni. Attenua questa dinamica solo «il contributo positivo dei cittadini stranieri».
«IN UN PAESE FRAMMENTATO – sostiene la Cgil in una nota – si privilegia l’austerità e la svalutazione competitiva del lavoro. Serve un piano straordinario per il lavoro». «Questo è il fallimento delle politiche degli ultimi governi, quello di Renzi e di Gentiloni, ma anche quelli prima» sostiene Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) che «interventi pubblici e redistribuzione della ricchezza. Il movimento Cinque Stelle rilancia il «reddito di cittadinanza» (in realtà è un «reddito minimo»). Tutte le fiches dell’esecutivo sono oggi puntate sulla ripresa lillipuziana che non produce occupazione fissa [Jobless recovery]. Ieri, il ministro dell’Economia Padoan si è detto soddisfatto della crescita dello 0,2% del Pil nel primo trimestre 2017. Rispetto al 2016 la variazione è dello 0,8%. «È in linea con le previsioni del governo». Ciò che Padoan ha omesso di dire è che solo la Grecia ha fatto peggio dell’Italia. «La crescita è insufficiente – ha concluso Alleva – e stenta ad avere gli stessi effetti positivi diffusi all’intera popolazione».

Corriere 18.5.17
Misteri del tempo che danza con noi (ma non si rivela)
di Carlo Rovelli

Mi fermo e non faccio nulla. Non succede nulla. Non penso nulla. Ascolto lo scorrere del tempo. Questo è il tempo. Familiare e intimo. La sua rapina ci porta. Il precipitare di secondi, ore, anni ci lancia verso la vita, poi ci trascina verso il niente... Lo abitiamo come i pesci l’acqua. Il nostro essere è essere nel tempo. La sua nenia ci nutre, ci apre il mondo, ci turba, ci spaventa, ci culla. L’universo dipana il suo divenire trascinato dal tempo, secondo l’ordine del tempo. La mitologia indù rappresenta il fiume cosmico nell’immagine divina di S ´ iva che danza: la sua danza regge lo scorrere dell’universo, è il fluire del tempo. Cosa c’è di più universale e evidente di questo scorrere?
Ep pure le cose sono più complicate. La realtà è spesso diversa da come appare: la Terra sembra piatta, invece è una sfera; il sole sembra roteare nel cielo, invece siamo noi a girare. Anche la struttura del tempo non è quella che sembra: è diversa da questo uniforme scorrere universale. L’ho scoperto sui libri di fisica, all’università, con stupore. Il tempo funziona diversamente da come ci appare.
Su quegli stessi libri ho anche scoperto che come davvero funziona il tempo non lo sappiamo ancora. La natura del tempo resta il mistero forse più grande. Strani fili lo legano agli altri grandi misteri aperti: la natura della mente, l’origine dell’universo, il destino dei buchi neri, il funzionamento della vita. Qualcosa di essenziale continua a riportare alla natura del tempo.
La meraviglia è la sorgente del nostro desiderio di conoscere, e scoprire che il tempo non è come pensavamo apre mille domande. La natura del tempo è stata al centro del mio lavoro di ricerca in fisica teorica per tutta la mia vita. Nelle pagine che seguono, racconto quello che abbiamo capito del tempo, le strade che stiamo seguendo per cercare di capire meglio, quello che ancora non capiamo e quello che mi sembra di intravedere.
Perché ricordiamo il passato e non il futuro? Siamo noi a esistere nel tempo o il tempo esiste in noi? Cosa significa davvero che il tempo «scorre»? Cosa lega il tempo alla nostra natura di soggetti? Cosa ascolto, quando ascolto lo scorrere del tempo?
Il libro è diviso in tre parti ineguali. Nella prima, riassumo quello che ha compreso del tempo la fisica moderna. È come tenere fra le mani un fiocco di neve: man mano che lo studiamo ci si scioglie fra le dita fino a sparire. Pensiamo comunemente il tempo come qualcosa di semplice, fondamentale, che scorre uniforme, incurante di tutto, dal passato verso il futuro, misurato dagli orologi. Nel corso del tempo si succedono in ordine gli avvenimenti dell’universo: passati, presenti, futuri; il passato è fissato, il futuro aperto... Bene, tutto questo si è rivelato falso.
Gli aspetti caratteristici del tempo, uno dopo l’altro, sono risultati essere approssimazioni, abbagli dovuti alla prospettiva, come la piattezza della Terra o il girare del sole. Il crescere del nostro sapere ha portato a un lento sfaldarsi della nozione di tempo. Quello che chiamiamo «tempo» è una complessa collezione di strutture, di strati. Studiato via via più in profondità, il tempo ha perso questi strati, uno dopo l’altro, un pezzo dopo l’altro. La prima parte del libro è il racconto di questo sfaldarsi del tempo.
La seconda parte descrive quello che resta alla fine. Un paesaggio vuoto e ventoso che sembra aver perso quasi traccia di temporalità. Un mondo strano, alieno; ma il nostro mondo. È come arrivare in alta montagna, dove sono solo neve, roccia e cielo. O come deve essere stato per Armstrong e Aldrin avventurarsi sulla sabbia immobile della luna. Un mondo essenziale che riluce di una bellezza arida, tersa e inquietante. La fisica su cui lavoro, la gravità quantistica, è lo sforzo di comprendere e dare senso coerente a questo paesaggio estremo e bellissimo: il mondo senza tempo.
La terza parte del libro è la più difficile, ma anche la più viva e la più vicina a noi. Nel mondo senza tempo deve comunque esserci qualcosa che dia poi origine al tempo che noi conosciamo, con il suo ordine, il passato diverso dal futuro, il dolce fluire. Il nostro tempo deve in qualche modo emergere intorno a noi, alla nostra scala, per noi.
Questo è il viaggio di ritorno, verso il tempo perduto nella prima parte del libro inseguendo la grammatica elementare del mondo. Come in un romanzo giallo, andiamo ora alla ricerca del colpevole che ha generato il tempo. Ritroviamo uno a uno i pezzi di cui è composto il tempo a noi familiare, non come strutture elementari della realtà, ma come approssimazioni utili per quelle creature goffe e impacciate che siamo noi mortali, aspetti della nostra prospettiva, e forse anche aspetti — determinanti — di ciò che siamo.
Perché alla fine — forse — il mistero del tempo riguarda ciò che siamo noi, più di quanto riguardi il cosmo. Forse, come nel primo e più grande di tutti i gialli, l’ Edipo re di Sofocle, il colpevole era il detective.
Qui il libro diventa magma rovente di idee, talvolta luminose, talvolta confuse; se mi seguite, vi porto fin dove io credo arrivi il nostro attuale sapere sul tempo, fino al grande oceano notturno e stellato di quello che ancora non sappiamo.

Corriere 18.5.17

L’Italia dei 35enni ancora con i genitori Soltanto il Giappone ha più anziani di noi
L’Istat: cresce la disuguaglianza, niente sport per il 40%
di Alessandra Arachi

ROMA La classe operaia non va più in paradiso, ma in pensione. Ma la pensione oggi, nell’economia del nostro Paese, è una sorta di piccolo paradiso, nel marasma di lavori atipici, precari e a termine.
Ecco perché l’Istat nel suo rapporto annuale ha scelto di scattare una fotografia dinamica dell’Italia, inventando i gruppi sociali che sostituiscono le vecchie «classi» e dove le famiglie degli operai in pensione sono inaspettatamente le più numerose e tra le più benestanti (quasi 6 milioni di famiglie su 25,7 milioni che sono in Italia).
La foto Istat di quest’anno, purtroppo, appare un po’ sbiadita con un’Italia sempre più anziana, con l’ascensore delle classi bloccato e sette «Millenials» (i giovani nati tra i primi anni Ottanta e il 2000) su dieci bloccati a casa con i genitori (tradotto in numeri 8,6 milioni di persone tra i 25 e i 34 anni che non abbandonano il tetto di mamma e papà).
«Siamo in fase di recupero della crescita, sebbene a ritmo moderato», dice il presidente dell’Istat Giorgio Alleva commentando la crescita dello 0,2% del Pil nel primo trimestre di quest’anno, ma nonostante la timida ripresa non si può non notare come la forbice della disuguaglianza continua ad aumentare. Un numero inquietante: il 6,5% della popolazione rinuncia alle visite mediche per motivi economici. Era il 4% nel 2008.
La forbice che si allarga: le spese mensili del gruppo dirigente sono il doppio del gruppo più basso sociale (3.810 euro contro 1.697). E questo quando 3 milioni 590 mila famiglie (il 13,9% del totale) sono senza redditi da lavoro. Erano 3 milioni 172 mila dieci anni fa.
A questo conto, però, si devono aggiungere i cosiddetti i Neet, un acronimo inglese che vuol dire che esistono giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano. In Italia sono i più numerosi d’Europa: 2 milioni 200 mila.
Siamo il Paese più anziano dell’Unione europea e nel mondo secondo soltanto al Giappone: al 1° gennaio del 2017 gli individui con più di 65 anni hanno raggiunto la quota del 22%. E anche gli stranieri nel nostro Paese cominciano a invecchiare: l’età media è passata da 31,1 a 34,2 anni.
Ma i nostri ultrasessantacinquenni sono gagliardi e tosti. Lo dicono le statistiche: dal 2010, infatti, è aumentato il numero di anni vissuto senza limitazioni nelle attività della vita quotidiana dopo i 65 anni: da 9 a 9,9 per gli uomini e da 8,9 a 9,6 per le donne.
Siamo anziani in buona forma, ma con le culle drammaticamente vuote, lo sappiamo da un po’ con il nostro indice di natalità che è sceso a 1,27 figli per donna ed è il più basso d’Europa. E per questo con soltanto 474 mila bambini nati il saldo di quest’anno tra nati e morti è stato negativo per ben 134 mila unità. Siamo anche pigri. L’Istat è andato a fare i conti con le nostre attività quotidiane e ha scoperto che quattro persone su dieci dai 3 anni in su non praticano sport né attività fisica nel tempo libero. Sono più pigre le donne (43,4% contro il 34,8% degli uomini).
Del resto a guardare le tabelle si vede come le donne hanno molto da fare in casa: l’Istat ha calcolato che le casalinghe con il loro lavoro producono beni e servizi per 49 ore a settimana.
In ogni caso rimaniamo un popolo di gaudenti. Ci piace bere, in Italia: il nostro istituto di statistica ha calcolato che il 64,2% della popolazione dagli 11 anni in su ha consumato almeno una bevanda alcolica l’anno, il 21,4% almeno una bevanda ogni giorno.

Corriere 18.5.17
Operai e borghesi escono di scena
di Dario Di Vico

L’Istat vuole produrre sociologia. Aveva iniziato nel Rapporto dello scorso anno con lo studio dell’avvicendarsi delle generazioni, nel 2017 però l’istituto si è posto un obiettivo più ambizioso: riscrivere e aggiornare la mappa dei principali gruppi nei quali si suddivide la società italiana. Il confronto è con l’elaborazione di Paolo Sylos Labini e con il saggio sulle classi sociali della metà degli anni 70 che classificava i gruppi a partire dai rapporti di produzione, negli anni 90 si sono imposti invece i lavori del sociologo Antonio Schizzerotto imperniati soprattutto sulla professione degli occupati. Ora l’Istat adotta per la classificazione una pluralità di caratteristiche che prendono in considerazione il reddito, l’istruzione, la partecipazione sociale, la posizione nel mercato del lavoro, l’ampiezza della famiglia, la cittadinanza e il luogo di residenza.
Il ruolo della famiglia
Per tutti questi motivi l’esperimento farà discutere animatamente sociologi ed economisti. I gruppi individuati sono nove e vale la pena elencarli per le tante novità che emergono: la classe dirigente, le pensioni d’argento, le famiglie di impiegati, le famiglie degli operai in pensione, le famiglie tradizionali della provincia, i giovani blue-collar, le donne anziane sole e i giovani disoccupati, le famiglie a basso reddito di soli italiani e le famiglie a basso reddito con stranieri.
Gli operai dunque si suddividono in due gruppi per di più «a reddito medio», la piccola borghesia sparisce così come i ceti medi di Sylos Labini, i pensionati da soli (!) danno vita ad altri due gruppi e il peso quantitativo degli impiegati è ragguardevole. Come è facile constatare poi il sostantivo ricorrente è «famiglia», non per una sorta di omaggio alla tradizione culturale italiana ma perché viene individuato come il soggetto che pur nella piena modernità continua a gestire e redistribuire gran parte delle risorse. Assorbendo peraltro al suo interno il conflitto intergenerazionale.
Cominciamo dalla classe operaia che perde la tradizionale identità collettiva che tanto ha contato nella politica del ‘900 e si divide in più gruppi situati però dentro il perimetro delle «famiglie a reddito medio». Le giovani tute blu sono un gruppo formato da poco più di 3 milioni di famiglie e 6,2 milioni di individui, hanno un contratto a tempo indeterminato e lavorano nell’industria, sono spesso coppie senza figli o persone sole, un grado elevato di instabilità coniugale, risiedono prevalentemente nelle regioni settentrionali. Il gruppo delle famiglie degli operai in pensione è molto più corposo (5,8 milioni di nuclei e 10,5 milioni di individui), è presente per lo più nei piccoli centri, ha quasi sempre la casa di proprietà, non ha più i figli conviventi e però dal punto di vista sanitario presenta criticità per eccesso di peso, sedentarietà e consumo di alcol.
A basso reddito
Quali sono invece i gruppi considerati a basso reddito? L’Istat ne individua ben quattro: a) famiglie con stranieri; b) famiglie povere di soli italiani; c) famiglie della provincia; d) anziane sole e giovani disoccupati. In totale fanno più di 8 milioni di nuclei e 22 milioni di individui. È interessante in questo caso sottolineare come la distanza rispetto agli altri gruppi emerga in maniera omogenea non solo se si prendono in considerazione i redditi ma anche la cittadinanza, la residenza territoriale e il (basso) profilo culturale.
Arriviamo alle famiglie che l’Istat definisce «benestanti» e sono formate da tre gruppi: gli impiegati, i pensionati d’argento e la classe dirigente. Il gruppo degli impiegati è consistente (4,6 milioni di famiglie e 12,2 di individui), è localizzato in prevalenza nel Centro-nord, possiede la casa dove abita e si caratterizza per una partecipazione attiva alla vita politica del Paese. Le pensioni d’argento (non privilegiate ma protette dalle favorevoli norme del passato) rimandano a 2,4 milioni di famiglie e per lo più a ex imprenditori ed ex dirigenti non laureati che hanno buoni consumi culturali e un forte impegno sociale.
Le vecchie élite
Infine la classe dirigente (l’Istat ha prudentemente evitato di usare il termine «élite»): ha un reddito del 70% superiore alla media e detiene il 12,2% del reddito totale. Parliamo di 1,8 milioni di famiglie capeggiate per lo più da imprenditori, dirigenti e quadri con titolo universitario che si caratterizzano per una maggiore partecipazione politica/sociale e per un «comportamento culturale pervasivo».
Con l’insieme di questa classificazione l’Istat ha operato una sorta di «seconda lavorazione» dell’enorme quantità di dati che possiede arricchendo sicuramente il dibattito sociologico corrente, anche perché fornisce materiale per una mappatura delle disuguaglianze non monopolizzata dalle sole differenze di reddito e dall’indice di Gini. Ed è sicuramente un passo avanti.

Corriere 18.5.17
«Senza unità ci sarà una lista nuova Bene il sistema di voto proposto dal Pd»
L’ex sindaco: spero in una coalizione ma l’idea di Matteo segretario-premier non aiuta
di Maurizio Giannattasio

Giuliano Pisapia, Romano Prodi le lancia un messaggio chiaro. La sua proposta di federare il centrosinistra ha creato un’attesa e questa attesa ha bisogno di una risposta. È arrivato il momento?
«Se come molti credono, c’è bisogno di una casa più ampia, impegniamoci tutti insieme su questa prospettiva. Io ci sarò. Mi sono messo a disposizione di un progetto che ha come punti fondamentali quelli dell’unità e della novità. Sto lavorando su questo e se non ci sarà l’unità ci sarà la novità».
Quale novità?
«Vedo due prospettive. La prima è quella di riuscire a fare una coalizione di centrosinistra insieme al Pd senza volontà egemoniche da parte di nessuno. Se questo non sarà possibile diventa necessaria una forza politico-culturale che potrebbe anche diventare in prospettiva una possibile lista elettorale che metta insieme tutte quelle persone che non hanno il Pd come punto di riferimento ma che credono nel centrosinistra».
Quale delle due prospettive le sembra più realistica?
«Spero e continuerò a impegnarmi per la prima, ma ritengo più realistica la seconda».
La legge elettorale proposta dal Pd, metà maggioritario, metà proporzionale, non va nella direzione della coalizione?
«Prodi ha detto che preferisce succhiare un osso che un bastone; diciamo che io preferisco vedere il bicchiere mezzo pieno. La proposta del Pd mi sembra un passo avanti rispetto a una legge proporzionale. Almeno il 50 per cento dei candidati potranno essere persone che hanno la stima e la fiducia degli elettori e non sono stati scelti dalle segreterie dei partiti o in qualche villa ad Arcore o a Genova. È importante però che, nella parte proporzionale, non vi siano capolista bloccati anche per rafforzare il diritto dei cittadini di indicare, all’interno della lista, il candidato che preferiscono e che si torni alla soglia di sbarramento del 4 per cento come prevedeva il Mattarellum».
In caso di legge elettorale che favorisce le alleanze chiederà che si tengano le primarie di coalizione per la scelta del premier?
«Se le primarie sono di coalizione danno la possibilità a milioni di elettori di scegliere, salvo che non si trovi pieno accordo su una persona, il candidato premier, il programma e le priorità, tra cui sicuramente la lotta alle diseguaglianze sociali, alle povertà e per il lavoro. Anche se fosse approvata la proposta del Pd e si arrivasse a una coalizione per i singoli collegi è ben difficile che si facciano le primarie. In ogni caso bisogna aspettare che faccia passi avanti la legge elettorale. Renzi però ha previsto nella sua mozione che il segretario del Pd sia anche il candidato premier, e questo non aiuta. Se ci sarà una coalizione non sarà solo il Pd a decidere e non do affatto per scontato che sarebbe il candidato dell’intero centrosinistra».
Se ci saranno le primarie sfiderà Renzi?
«Le primarie, se vere, sono una grande risorsa positiva di riflessione, mobilitazione oltre che programmatica. L’ho detto più volte: non ho ambizioni né interessi personali».
Il segretario del Pd ha annunciato che vi incontrerete. Che cosa dirà a Renzi?
«In questi mesi incontro moltissime persone, e non solo leader politici. Gli dirò che cosa mi è successo dal Friuli Venezia Giulia alla Sicilia. Gli dirò che quando pronunciavo la parola “unità” scattavano applausi interminabili. Gli dirò che questo — individuare un comune denominatore tra chi sta dalla stessa parte e superare gli asti personali — è quello che chiedono le persone. Ed è quello di cui ha bisogno l’Italia».
La parola unità non sembra incontrare grande favore tra i vertici del centrosinistra.
«Mi rendo conto che la mia risposta può sembrare utopistica, invece è molto ambiziosa. Campo progressista è nato per rompere gli schemi, per riportare a sintesi qualcosa che oggi è frammentato. L’esigenza del mondo intero del centrosinistra è l’unità anche programmatica. E l’unità è la condizione necessaria per immaginare un futuro di questo nostro Paese. Quindi sto con milioni di persone che non capiscono come uno scontro all’interno della stessa famiglia possa distruggere una storia importante».
Lei parteciperà il 20 maggio alla marcia dell’accoglienza dei migranti a Milano. La politica del Pd sui migranti la trova d’accordo?
«Alla marcia ci sarò e mi sento orgoglioso dei riconoscimenti che l’Europa attribuisce al nostro Paese per quanto riguarda l’accoglienza. E condivido in pieno lo sforzo di coinvolgere l’Europa nei progetti strutturali per l’integrazione dei migranti. L’arrivo di tante persone da realtà diverse non sarà un fenomeno transitorio e non può essere solo il Paese-ponte, quale siamo noi, a farsene carico. Per queste persone bisogna immaginare un progetto di vita, nel loro Paese o in Europa, non bastano un letto e un pasto. E questo è qualcosa che chiede una risposta a tutta l’Europa in grado di contribuire non solo all’integrazione ma anche alla democrazia e allo sviluppo nel Paese di provenienza».

Corriere 18.5.17
Export trainato dalla Cina Ai massimi da sei anni
A marzo le vendite all’estero salgono del 14,5%. Con Pechino +32%
di Andrea Ducci

ROMA Le imprese italiane sono più competitive e vendono meglio all’estero. Un rafforzamento, evidenziato dal presidente Istat, Giorgio Alleva, che si riflette in termini positivi sulla capacità di competere nei mercati internazionali da parte delle aziende made in Italy. A certificare il trend sono gli ultimi dati dell’Istituto di statistica relativi alle esportazioni del mese di marzo. Il balzo rispetto al mese precedente è del 4%, mentre su base tendenziale l’aumento dell’export segna un +14,5% rispetto al 2016. Un picco che non si vedeva da oltre cinque anni. Nell’agosto del 2011 il dato tendenziale aveva infatti segnato un +15,2%. In dettaglio, a trainare l’incremento del mese di marzo è l’aumento delle vendite di beni strumentali (+8,3%) e dei beni di consumo non durevoli (+3,1%).
Vale ricordare che la performance delle esportazioni italiane si inserisce in un contesto internazionale contrassegnato da innumerevoli incertezze e da un euro tuttora forte. Tornando ai dati, l’Istituto presieduto da Alleva segnala che il saldo commerciale nel mese di marzo risulta positivo di 5,4 miliardi di euro, a fronte dei 5,2 miliardi di un anno prima. Una tendenza che porta il surplus del primo trimestre 2017 a quota 6,7 miliardi, dato che al netto dei prodotti energetici segnerebbe un avanzo di 15,6 miliardi.
Il cambio di passo dell’export di marzo beneficia della crescita del 6,5% su base congiunturale delle vendite verso i mercati fuori dall’area Ue, e in misura minore anche dell’incremento dei flussi verso i Paesi del Vecchio Continente (+2,1%). La tendenza si inserisce in un quadro che vede nel primo trimestre l’export crescere complessivamente del 3%, rispetto ai tre mesi precedenti. Anche in questo caso il contributo maggiore proviene dalle esportazioni dirette ai Paesi non appartenenti all’Unione Europea (+4,7%). Tra le cifre certificate dall’Istat spiccano le operazioni commerciali verso l’ex Celeste impero, l’export diretto in Cina a marzo cresce infatti del 32,3% (una fetta importante è costituita da autoveicoli). Un dato di poco inferiore all’incremento tendenziale del 31,1% evidenziato dai Paesi membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (Asean). Ma le vendite italiane nel mese di marzo sono cresciute a doppia cifra, rispetto ad un anno prima, anche in Paesi come Romania (+25,2%) e Spagna (+23,4%). Analizzando il dettaglio dei prodotti esportati il contributo maggiore è stato determinato dai prodotti energetici, capaci di segnare una crescita del 47,5% rispetto al marzo del 2016. A seguire i beni intermedi o semi lavorati in aumento del 15,7% e dei beni di consumo (+14,1%). Oltre agli autoveicoli, agli articoli farmaceutici e chimico medicinali a trainare la crescita delle esportazioni è anche l’export del comparto agroalimentare, che nei primi tre mesi del 2017 è aumentato dell’8%, sfiorando il valore di 10 miliardi. L’Istat certifica anche un aumento delle importazioni, segnalando la crescita del 3,3% nel primo trimestre. Un incremento rilevante riguarda il greggio e i prodotti petroliferi raffinati.

Il Fatto 18.5.16
La democrazia in un murales
di Salvatore Settis

Viviamo oggi in una democrazia fragile, minata dal dispotismo antipolitico dei mercati (cioè di una nuova classe di padroni), che si esercita al di fuori di ogni controllo pubblico. Anzi, determina le scelte politiche ingoiando governi, partiti, sindacati, che sempre più spesso rinunciano a difendere i diritti dei cittadini e gli orizzonti del bene comune, e diventano cinghie di trasmissione dei voleri “del mercato”.
In questa democrazia indebolita, che conserva ed esibisce le sue forme ma perde il cuore e la meta, le associazioni di cittadini si stanno moltiplicando in tutto il mondo. L’Italia, nonostante la crisi di rappresentanza e la personalizzazione dei partiti pilotati da un qualche più o meno plausibile padre-padrone, vede il fiorire di migliaia di associazioni, in particolare su fronti delicati e in pericolo come la scuola, l’ambiente, il patrimonio culturale. Esse hanno per lo più uno scopo limitato: costruite intorno a una scuola, un bosco, un teatro, un ospedale, somigliano a quegli advocacy groups che l’etica neoliberista gratifica di concessioni occasionali (un po’ di mecenatismo, qualche assegno e molta retorica). Meglio, infatti, tante piccole proteste che un grande movimento; meglio creare, mediante l’associazionismo spicciolo, una sorta di camera di compensazione che assorba le energie dei cittadini, anziché lasciar maturare la coscienza che fra la difesa di una spiaggia in Sicilia e la lotta per salvare un teatro a Ferrara o una scuola a Genova c’è un nesso forte (si chiama Costituzione). Eppure questo associazionismo civile, espressione di una diffusa voglia di democrazia e di politica (nel senso non di gestione del potere, ma di libero discorso fra cittadini), appare oggi il solo incubatore possibile di una nuova stagione della democrazia. Solo da qui possono svilupparsi, pur partendo da problemi settoriali o puntiformi, nuove visioni d’insieme improntate al bene comune. Perciò il lavorio di queste associazioni (si contano a decine di migliaia quelle attive sul fronte ambientalistico, paesaggistico e dei beni culturali) va seguito con attenzione, specialmente quando mostri una più avanzata capacità progettuale, unita alla capacità di federare più associazioni, che anziché competere fra loro sappiano allearsi per raggiungere un fine comune, e di coinvolgere le istituzioni pubbliche. Su questo fronte, qualcosa si muove. Chi crederebbe, ad esempio, che il più promettente caso di federazione fra associazioni si registra proprio a Roma, la vituperata Capitale che è di moda denigrare anche quando non se lo merita? Eppure, proprio a Roma è nata da qualche settimana Agenda Tevere, una federazione di ben 14 associazioni ambientaliste, sportive, culturali. Alle spalle c’è un anno di intenso lavoro, condotto da gruppi di cittadini attivi che hanno analizzato lo stato di salute di Roma a partire dal più trascurato dei suoi protagonisti, il Tevere. Scorre, è vero, in mezzo alla città, e sin da Romolo e Remo ne racchiude la storia, la topografia e la memoria, eppure è ormai del tutto marginale nella vita dei cittadini (fu partendo da questa considerazione che una delle associazioni coinvolte, Tevereterno, ha promosso con grande successo il fregio di William Kentridge sui muraglioni del Tevere). Sulla base di questa analisi, di cui si troveranno gli elementi essenziali nel sito www.agendatevere.org, è stata elaborata una strategia graduale di intervento, coinvolgendovi anche le amministrazioni regionale e comunale. Va già in questo senso la creazione di un “Ufficio Speciale Tevere” da parte del Comune e del “Servizio Bonifiche e Contratti di Fiume, di Lago e di Costa” da parte della Regione. È una “rivoluzione copernicana” nel rapporto cittadini-istituzioni: collaborare anziché protestare, produrre idee e prendere iniziative anziché aspettarsi dalle istituzioni la largizione di cibo precotto, rifiutare la rassegnazione e il fatalismo. Insomma, farsi parte attiva nell’elaborazione di progetti che vengano lanciati e consolidati dalla loro stessa qualità culturale, dalla capacità di agganciare l’attenzione dei cittadini, di suscitare non solo generici consensi, ma un progressivo coinvolgimento. Quel che “Agenda Tevere” si ripromette è la metamorfosi da cittadino-cliente, sempre pronto a lagnarsi della qualità dei servizi, a cittadino-protagonista, che individua problemi e propone soluzioni, facendo leva sul numero delle associazioni coinvolte e sul loro patrimonio di conoscenze e di idee. Ma questa iniziativa ha dalla sua un’altra ricchezza, ed è la determinazione a dialogare con le amministrazioni pubbliche a prescindere dal loro colore politico: anziché esagerare i difetti e sminuire i successi di questo e di quello a partire dalle appartenenze e dagli ordini di scuderia, “Agenda Tevere” ha aperto un dialogo multipartisan sia con l'amministrazione Raggi che con quella Zingaretti; e forse già a fine giugno potranno essere annunciati significativi passi in avanti su questa strada. Se questo attivismo civile avrà successo a Roma, come dobbiamo augurarci, esso diventerà immediatamente ‘esportabile’, con gli adattamenti necessari di città in città. Potrà, insieme con altri esperimenti (anche molto diversi da questo) in corso in altri contesti, dare una prima risposta al diffuso disagio sociale che nasce dalle molteplici dislocazioni che stiamo sperimentando (il lavoro e la cultura trasformati in merce, le ricchezze e complessità del “capitale umano” ridotte a forza lavoro usa-e-getta). Potrà rappresentare il bisogno assai diffuso di (ri-) creare alleanze di solidarietà sociale e civile, che intorno a pochi principi-base (quelli della Costituzione) possano nel tempo tradursi in progetto politico. Se mai c’è un modo per convincere a un’inversione di rotta gli organi della democrazia rappresentativa (partiti, Parlamenti e governi), la strada è questa. Comincia dal Tevere, il fiume di Roma.