Repubblica 30.5.17
I partiti senza idee e il ritorno alla palude
di Claudio Tito
NEL
confronto di queste settimane sulla riforma elettorale e sulla data del
voto, manca sempre qualcosa. Il dibattito si presenta amputato. Privato
di quel nucleo essenziale che dovrebbe dare anima e sostanza a tutte le
forze politiche. Quali sono gli obiettivi? Cosa intendono fare dopo
aver chiuso le urne?
SEMPLICEMENTE qual è il loro programma? Non
c’è nulla di tutto questo. Sembra quasi che nel tempo della transizione i
partiti si sentano dispensati dall’obbligo di comunicare agli elettori i
loro propositi e abbiano deciso di regredire in una sorta di immaturità
permanente.
Non si spiega altrimenti quel che sta accadendo in
Parlamento. I quattro principali partiti — Pd, M5s, Forza Italia e Lega —
si stanno mettendo d’accordo per approvare una legge che ricalca il
modello proporzionale tedesco. È doveroso che una democrazia abbia un
sistema elettorale degno di questo nome. E l’Italia non ce l’ha. Ma non è
solo questo in discussione. Il vero nodo si concentra nel motivo per
cui queste quattro forze politiche lo scelgono: l’impotenza. Negli
ultimi ventitré anni, uno schema sostanzialmente maggioritario ha
costretto tutti a misurarsi con le richieste dei cittadini e a
presentare loro le idee, le linee di un futuro governo. A esporre la
loro natura. Adesso succede il contrario. In una sorta di ritorno al
“pentapartito” della Prima Repubblica, tutto si rinvia a dopo. In un
enorme bacino dell’indistinto. Il cui pericolo più concreto prende la
forma di una nuova palude in cui ogni mossa sarà frenata dalla melma.
Del resto ignorare che il sistema politico italiano non è quello di
Berlino non può che portare a queste conclusioni. In Germania ci sono
due grandi partiti, una leader riconosciuta, Angela Merkel, e il fronte
populista non supera mai la soglia del 10%. In Italia la vera guida è la
frammentazione e la protesta populista nei sondaggi arriva al 40%.
Basta
allora osservare la traiettoria assunta dal Pd di Renzi. Un partito
nato sulla vocazione maggioritaria, appare preoccupato soprattutto di
ritornare al voto per dimostrare a se stesso che la sconfitta del 4
dicembre (la principale causa delle attuali distorsioni) è stata solo un
incidente di percorso. Ma il leader democratico non chiarisce quali
siano le sue finalità. Come intende governare il Paese. Non riesce a
delineare i confini ideali del suo partito. Non può farlo. Non può
presentare il suo programma reale. Perché sa che nel migliore dei casi —
dopo il voto — dovrà allearsi con il partito di Silvio Berlusconi. Con
il partito che il Pd ha combattuto per 20 anni e con il quale non
dovrebbe condividire nulla dal punto di vista dei contenuti. Il Partito
democratico avrebbe l’obbligo di rilanciare almeno un istintivo
riformismo, ma è paralizzato nell’impossibilità di aggiornare il suo
profilo. Anzi il ritorno alla proporzionale lo sta inconsapevolmente
modificando. E questa mutazione riguarda anche gli “scissionisti” del
Pd, appagati dalla speranza della sconfitta renziana.
Lo stesso
riguarda Forza Italia. Berlusconi però si crogiola nella speranza di
recuperare centralità senza avere più i consensi di un tempo. E senza
nemmeno rinverdire gli onirici proclami mai realizzati.
Il
paradosso si raggiunge con i grillini e i leghisti. Il Movimento5Stelle
si sta rintanando in una posizione meramente speculativa. La paura di
governare — esplosa con i disastri della giunta Raggi a Roma — spinge
l’ex comico ad accettare il bottino di parlamentari che conquisterà in
autunno (se davvero si voterà in autunno). Si rintana nella sua identità
primordiale: quella del vaffa. Sapendo — o sperando — che se nascerà il
governissimo Renzi-Berlusconi potrà ricominciare a sparare contro tutto
e tutti. Senza bisogno di spiegare agli italiani cosa vogliano davvero
fare per il Paese. Come può cambiare. Come affrontare la crisi
dell’Unione europea e il rapporto con Trump. Come rimettere in ordine i
conti dello Stato o abbassare il tasso di disoccupazione. Solo slogan
inattuabili. In perfetto spirito populista. Seguito a ruota dalla Lega
di Salvini già pronta a denunciare gli “inciuci”. Non si tratta quindi
di un novello patto del Nazareno, ma di un’intesa per la sopravvivenza
che coinvolge tutti e quattro. Assecondando così il sentimento provato
da molti elettori e che Zygmunt Bauman spiegava in questi termini: «Per
una grande maggioranza di cittadini l’idea di contribuire a indirizzare
il corso degli eventi raramente è considerata credibile».
Il
ritorno alla Prima Repubblica e il tempo della immaturità portano dunque
tutti questi “doni”. Le classi dirigenti di questo Paese, a cominciare
dai partiti che sostengono con distrazione il governo Gentiloni,
dovrebbero allora riflettere prima di fare un passo indietro. Utilizzino
il tempo rimanente per tentare ancora una legge elettorale che
stabilisca maggioranze certe e omogenee. E soprattutto facciano ora
quello che poi non si potrà più fare. Oggi su questo giornale Liana
Milella e Lavinia Rivara spiegano bene quanti provvedimenti fondamentali
e civili siano ancora all’esame del Parlamento. Impieghino le loro
energie per approvarli. E si concentrino sulla prossima legge di
Stabilità senza escogitare barocchi artifici. E soprattutto evitando di
esporci al baratro dell’esercizio provvisorio e della speculazione
finanziaria.