Corriere 30.5.17
i calcoli azzardati dei partiti
di Massimo Franco
Il
gioco a incastro dei quattro maggiori partiti sembra avere qualche
possibilità di riuscita. Se il loro accordo reggerà nei prossimi giorni,
si avrà finalmente una nuova legge elettorale: notizia positiva, se non
fosse che si abbina alla prospettiva di elezioni in autunno. Il
sentiero per fare arrivare la legislatura al 2018 diventerebbe
strettissimo perfino per il presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella. Se Pd, M5S, FI e Lega sono in sintonia sullo scioglimento
delle Camere, il capo dello Stato si troverà accerchiato da forze
politiche tentate di assegnargli un ruolo poco più che notarile: tanto
da decidere tra loro la data delle elezioni, cercando di mettere il
Quirinale di fronte al fatto compiuto.
La rinuncia di Pd e Lega al
sistema maggioritario conferma una sensazione sgradevole: che il merito
della riforma sia secondario rispetto alla voglia di voto anticipato.
Non è un bel segnale seppellire l’idea, sbandierata fino all’ultimo, di
sapere chi ha vinto appena aperte le urne.
Per Forza Italia è il
contrario: una legge proporzionale rimette in gioco Silvio Berlusconi
dopo un’elezione che costringerà a allearsi in Parlamento; e, in teoria,
riduce il potere di ricatto di Matteo Salvini. Per questo, le obiezioni
berlusconiane sul voto autunnale sono cadute. Per Beppe Grillo va bene
comunque. Può dire di avere ottenuto il sistema proporzionale; attaccare
un Pd che fa cadere il suo terzo governo in una legislatura; e additare
un’alleanza Renzi-Berlusconi in incubazione.
La soglia di
sbarramento al 5 per cento, in realtà, favorisce Pd e Movimento,
convinti di erodere consensi alle forze minori in maniera trasversale.
Ma non dispiace nemmeno agli altri, per ragioni diverse. Forse sarà
accettata anche dagli scissionisti di Mdp, che dovranno fondersi col
movimento dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. L’azzardo insito
in questa accelerazione, con la campagna elettorale sotto l’ombrellone,
non sembra un ostacolo. A frenare non basta neanche il rischio di
un’esposizione dell’Italia alla speculazione finanziaria, come avvenne
nell’estate del 2011 con l’ultimo governo Berlusconi.
Prevale
l’ansia, soprattutto nel Pd, di chiudere una fase senza pagare il dazio
di una manovra correttiva pesante. La prospettiva delle urne diventa la
fuga dalla responsabilità di spiegare perché, dopo anni descritti come
un inizio di ripresa economica, bisognerà ricalibrare i conti pubblici.
D’altronde, al governo di Paolo Gentiloni è stato concesso poco o nulla
per decollare: in primis dal «suo» Pd, che non ha mai smesso di
considerare chiusa la legislatura dopo il disastro referendario del 4
dicembre. Il paradosso è che gli darebbe il benservito mentre si
sottolinea la buona immagine offerta al G7 di Taormina; e sebbene il
premier lasci filtrare l’opportunità di continuare fino al 2018.
Eppure,
Gentiloni non può né vuole resistere alle pressioni di Matteo Renzi e
della nomenklatura del Pd. E a Mattarella viene attribuita una
preoccupazione crescente perché teme, e non esagera, che l’Italia si
ritrovi senza i conti messi in sicurezza. Soprattutto, non è affatto
sicuro che dopo un voto a settembre o a ottobre esisterà una maggioranza
per approvare una legge di Stabilità che prevede una manovra intorno ai
30 miliardi di euro. Ma se davvero alla fine i quattro partiti maggiori
concorderanno una riforma, sarà difficile al capo dello Stato far
valere le ragioni della prudenza e del vero interesse nazionale.
E
magari Mattarella dovrà anche ascoltare la motivazione quasi beffarda
di un’intesa raggiunta per assecondare le sue richieste di un accordo
condiviso; e avallare le elezioni incluse dai partiti nella loro
trattativa. Il Pd ha già messo nel conto l’esercizio provvisorio del
bilancio, sebbene lo escluda: ha solo l’assillo di non gestirlo da solo.
Perfino tra i dem c’è chi parla di «allegra irresponsabilità» del
vertice del partito. Eppure, forze in grado di fermare la deriva non se
ne vedono. In Senato, i partiti che verrebbero spazzati via dalla soglia
del 5 per cento, a cominciare da quello del ministro degli Esteri,
Angelino Alfano, possono al massimo resistere.
Il problema sarà
spiegare all’opinione pubblica perché si sta scegliendo la strada del
voto. Bisognerà vedere quanto sarà alto il prezzo, se si andasse al voto
per restituire un Parlamento più impotente dell’attuale, e un Paese
aggredito dagli speculatori. La conseguenza della riforma elettorale, si
spiega, è che dopo saranno probabili, se non inevitabili, le «larghe
intese». Ma di chi e con chi? Si parla di un governo Renzi-Berlusconi. A
scorrere i sondaggi di oggi, però, un esecutivo del genere ha la
consistenza del miraggio. Dalle urne in autunno promette di spuntare
soprattutto un Grillo più forte di prima.