Repubblica 27.5.17
Collocò i papi all’inferno Separò teologia e politica E le sue opere furono bandite
Il Dante laico un eretico in Paradiso
di Vito Mancuso
Il
centro matematico della “Commedia” è una terzina in cui si celebra la
libertà in quanto possibilità di libera decisione: «Se così fosse, in
voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia / per ben
letizia, e per male aver lutto» (“Purg.” XVI, 70-72). L’intera opera in
realtà ruota attorno al concetto di libero arbitrio, come spiega Dante
stesso presentando il suo lavoro: «L’uomo, meritando o demeritando
nell’esercizio del suo libero arbitrio, è soggetto al giusto premio o
alla giusta pena» (“Epistola a Cangrande”,
8). È per questo che si
dà commedia, cioè movimento, trama, creatività, mentre in sua assenza
si avrebbe tragedia, come Edipo destinato a uccidere il padre e a
giacere con la madre, oppure farsa, mero caos, assenza totale di
struttura.
Uno dei versi più belli è quello con cui Virgilio,
accomiatandosi da Dante, gli conferisce la corona e la mitria attestando
che ormai egli è re e papa di se stesso: «Per ch’io te sovra te corono e
mitrio» ( Purg. XXVII, 142). Appare qui l’altissimo senso della libertà
della coscienza personale coltivato da Dante, confermato da quanto
scrive al signore di Verona: «Coloro che hanno vigore d’intelletto e di
ragione sono dotati di una sorta di divina libertà e non sono
rigidamente legati a nessuna consuetudine; e ciò non fa meraviglia,
perché non essi sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da loro»
( Epistola a Cangrande, 2). Tale primato della coscienza ha ben poco a
che fare con lo stereotipo del medioevo oscurantista e non a caso si
ritroverà nell’umanesimo con la Oratio pro hominis dignitate di Pico
della Mirandola del 1486, e nella modernità con lo scritto di Kant del
1784 Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo?.
Da tale
considerazione della libertà discende il primato della morale sostenuto
da Dante: «Cessando la Morale Filosofia, l’altre scienze sarebbero
celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di felicitade, e
indarno sarebbero scritte e per antico trovate» (Convivio, II, 14). Si
tratta di una tesi «veramente straordinaria nel medioevo» (Gilson),
secondo cui la filosofia si compie come etica e la conoscenza come
giustizia. È per questo che in Dante hanno tanto spazio la denuncia e
l’invettiva: sono una logica conseguenza dell’aver assunto l’etica quale
punto di vista in base a cui guardare il mondo. Uno sguardo informato
dalla giustizia intende giudicare, sente cioè la necessità di
distinguere il bene dal male e gli onesti dai truffatori. Dante quindi è
un moralista, non però nel senso decaduto della contemporaneità, ma nel
senso classico che fa della giustizia la virtù più grande al cui
servizio si devono porre la politica, la filosofia e la teologia, perché
a questo servono il potere, la conoscenza e la religione: a essere
giusti nel proprio intimo e a incrementare il tasso di giustizia nel
mondo.
Esattamente per perseguire la giustizia sopra ogni cosa
Dante non esita a collocare all’inferno ben cinque papi: Niccolò III,
Bonifacio VIII, Clemente V, Celestino V, Anastasio IV, oltre ad altri
non nominati e a moltissimi esponenti del clero, collocati soprattutto
nel girone degli avari e dei sodomiti.
Il pensiero di Dante sul
rapporto della teologia con le altre scienze, in particolare con la
filosofia, emerge con chiarezza dal Convivio dove viene ripreso un passo
biblico secondo cui «sessanta sono le regine… una è la colomba mia e la
perfetta mia», con il seguente commento: «Tutte scienze come regine» e
la teologia «colomba perché è sanza macula di lite» ( Convivio II,14; la
citazione biblica è Cantico dei cantici 6,8). Ora Dante sapeva bene che
la condizione effettiva della teologia non era certo quella di essere
priva di liti, visto che la rabies theologorum alimentava scomuniche e
roghi. Egli si riferiva però alla teologia quale avrebbe dovuto essere
idealmente: una scienza non a servizio del potere, e perciò ricolma di
invidia e di litigiosità, ma a servizio della vita spirituale, e perciò
ricolma di pace e di mitezza. La teologia amata da Dante ha il vertice
non nella dogmatica, ma nella spiritualità e nella mistica: non a caso
Beatrice al culmine del Paradiso lo affida non a un teologo dogmatico
come Tommaso d’Aquino, ma a san Bernardo, il teologo della mistica
unitiva.
A questo proposito un grande esperto quale Gilson ha
scritto che la prospettiva dantesca «non solo non contiene la dottrina
tomista della subordinazione delle scienze alla teologia, ma manifesta
piuttosto l’intenzione di evitarla », e qui occorre ricordare che fu a
causa di tale teoria tomista della subordinazione delle scienze alla
teologia che in Italia si ebbero eventi come il rogo di Giordano Bruno e
l’abiura di Galileo, che tanto hanno contribuito al declino culturale,
civile e morale del nostro paese.
Tutto ciò trova conferma nella
clamorosa presenza in Paradiso di ben due eretici, già condannati come
tali all’epoca in cui Dante scriveva: Gioacchino da Fiore, condannato
dal Lateranense IV nel 1215, e Sigieri di Brabante, condannato
dall’arcivescovo di Parigi nel 1270 e nel 1277. Dante fa sì che essi
vengano presentati da chi in terra era stato loro particolarmente
ostile, così fa dire a Bonaventura che Gioacchino da Fiore è «di spirito
profetico dotato », un’affermazione che il Bonaventura storico non
avrebbe mai potuto compiere perché considerava Gioacchino «come un
ignorante condannato a buon diritto ». Quanto a Sigieri, ancora gli
esperti non hanno trovato un accordo sul motivo che portò Dante a porre
in Paradiso un pensatore tanto scomodo, esponente di quell’aristotelismo
radicale, o averroismo, guardato con palese ostilità dal potere
ecclesiastico per la piena autonomia della ragione che professava. Ma
proprio un personaggio così scomodo viene posto da Dante in Paradiso
accanto ai teologi più illustri e fatto presentare dal più illustre di
tutti, san Tommaso d’Aquino, con le celebri parole: «Essa è la luce
etterna di Sigieri, / che, leggendo nel vico degli strami, / sillogizzò
invidiosi veri» ( Par. X, 136-138). Sigieri era un filosofo che
professava la più rigorosa distinzione tra teologia e filosofia:
collocandolo in Paradiso Dante approva questa impostazione, persino dopo
la pubblica condanna ecclesiastica (cui peraltro seguì la morte
sospetta di Sigieri nella curia papale per mano del segretario, si disse
preso da un raptus di follia).
Perché Dante esalta Sigieri?
Perché il suo pensiero si traduceva in politica nella rigorosa
distinzione tra papato e impero, e nella conseguente esclusione del
papato da ogni gestione del potere politico. È la prospettiva che noi
oggi denominiamo laicità. Si spiega così anche l’ostilità di cui fu
oggetto il pensiero politico di Dante da parte del potere ecclesiastico,
con l’ordine di papa Giovanni XXII nel 1329 di dare alle fiamme il De
Monarchia e l’inserimento della stessa opera nel 1559 nella prima
edizione del famigerato
Index librorum prohibitorum.
Esaltò
il libero arbitrio e la coscienza personale e fu un moralista in senso
pieno Fece l’elogio di due condannati dalla Chiesa, Sigieri di Brabante e
Gioacchino da Fiore
* L’INIZIATIVA
Vito Mancuso sarà oggi a
Pisa dove alle 16, in Palazzo Blu, terrà un incontro dal titolo “ Il
teologo e Dante” nell’ambito di “ Danteprima”, un’iniziativa dedicata al
poeta della “ Commedia” curata da Marco Santagata che dura fino a
domenica