Repubblica 27.5.17
Tar, musei e rispetto delle leggi
di Tomaso Montanari
A
DIFFERENZA di Francesco Merlo, trovo che la sentenza del Tar del Lazio
sul concorso dei supermusei rientri nella perfetta fisiologia
democratica: e, anzi, credo che sia salutare che un potere politico
troppo spesso arrogante e arbitrario venga richiamato alla necessità di
rispettare leggi e regole.
Il giudice amministrativo rileva che
una legge vigente (la 165/2001, art. 38) stabilisce che la cittadinanza
italiana è richiesta quando il pubblico dipendente esercita,
direttamente o indirettamente, pubblici poteri o quando l’ufficio
attenga all’interesse nazionale. E Dario Franceschini, nel decreto
ministeriale del 27 novembre 2014 che ha messo a bando i posti dei
cosiddetti supermusei, ha definito questi ultimi «di rilevante interesse
nazionale ». E dunque: la «figuraccia internazionale dell’Italia » si
deve al giudice che fa rispettare limpidamente la legge, o al ministro
che, pur avendo i numeri parlamentari per farlo, non cambia la legge,
preferendo violarla?
Quanto al merito, il problema esiste: e non
solo da noi. Il direttore della National Gallery di Londra è un
italiano: ma di cittadinanza britannica. E questo è il punto. Il
direttore degli Uffizi, tedesco, ha detto che non aveva letto la
sentenza perché non è un giurista, e perché non è italiano: ma il punto è
che i funzionari dello Stato italiano che fino ad ora avevano diretto i
musei erano chiamati anche a conoscere l’ordinamento giuridico. Perché
il loro non è un incarico puramente scientifico (per il quale nessun
confine nazionale varrebbe), ma è anche una pesante responsabilità
amministrativa.
Il Tar è poi intervenuto sull’opacità del concorso. Che è un dato reale.
I
responsabili dei maggiori musei del mondo sono stati scelti con
colloqui inferiori ai 15 minuti, e i verbali permettono di dedurre che
ogni curriculum è stato letto e valutato in 9 minuti medi. Gli standard
internazionali per la selezione di direttori di musei prevedono ore, e
più spesso giorni interi, di reciproca conoscenza. Franceschini, al
contrario, volle fare tutto in fretta, con una commissione di 5 membri
che doveva decidere su musei tra loro diversissimi: in un evidente
deficit di competenze. Non basta. Nella commissione c’erano solo due
tecnici, mentre la maggioranza era controllata dal braccio destro del
ministro e autore del testo della riforma, da una manager museale che
Franceschini nominerà subito dopo nel cda degli Uffizi e dal presidente
della Biennale di Venezia che attendeva che il ministro derogasse ad una
norma per confermarlo ancora in quel posto. La verità è che la politica
ha steso prepotentemente la sua ombra su un concorso che doveva essere
tecnico e indipendente. Del resto, è questo lo spirito della “riforma”: i
consigli scientifici dei musei sono ora nominati dal ministro, dal
sindaco e dal presidente della Regione, con una lottizzazione politica
della storia dell’arte e dell’archeologia che non ha eguali al mondo.
I
risultati del concorso non furono entusiasmanti: con poche eccezioni,
non risultarono vincitori professionisti che avessero già diretto un
qualunque museo, ma che al massimo erano stati conservatori di sezioni
in musei minori. Abbiamo affidato delle portaerei a chi aveva diretto
solo il ponte di una corvetta. Il risultato è stato una indiscussa
fedeltà dei miracolati al ministro autore di un simile miracolo. E la
comunità scientifica internazionale ha guardato con enorme perplessità a
questa inedita operazione di cosmesi.
Le conseguenze sono state
pesanti. Qualcuno ricorderà l’esteso danno alle tavole di Brera, le
inaugurazioni “politiche” del Museo di Taranto (che poi tornava a
chiudere quelle sale per mancanza di personale), la mercificazione
spinta della Galleria Palatina di Pitti, le dimissioni dai consigli
scientifici della stessa Brera, e della Gnam a Roma: mentre stenta ad
emergere in pubblico l’estesissimo, profondo disagio dei lavoratori di
questi musei.
Franceschini rivendica la quantità: citando numeri
della bigliettazione che non dipendono, tuttavia, dalla sua riforma, ma
dalla congiuntura internazionale legata al terrorismo, che vede i
turisti in fuga dalla Francia e da molti paesi del Mediterraneo.
Niente
gli cale, invece, della qualità: la commissione Bray aveva pensato
l’autonomia dei musei come occasione per creare, o rafforzare, comunità
di ricercatori residenti che producessero conoscenza, e la
redistribuissero ai cittadini. Invece i super musei (a differenza dei
loro omologhi inglesi, francesi, tedeschi o olandesi) non fanno più
ricerca, e le figure (monocratiche e isolate) di questi generali senza
esercito hanno ricevuto un mandato diverso: far marketing, non
conoscenza.
Ma mentre su tutto questo si potrebbe discutere a
lungo, il fatto che i giudici debbano far rispettare le leggi dovrebbe
essere, invece, pacifico.