Repubblica 15.5.17
Nella sua casa in Val Trebbia il manager ex Unicredit rifiuta il ruolo di arbitro “Se il governo regge non può dipendere da me”
Ghizzoni e l’affaire Etruria “Un problema dei politici lo risolvano loro, non io In Parlamento dirò tutto”
di Andrea Greco
SCRIVELLANO (PIACENZA). «Se mi convocheranno parlerò alla commissione d’inchiesta: in Parlamento, non sui giornali, risponderò ovviamente a tutte le domande che mi faranno». Il muro del no comment regge, ma un forellino per guardarci attraverso si nota. Federico Ghizzoni, il banchiere più inseguito d’Italia, dribbla i tanti giornalisti venuti ad aspettarlo sotto la casa di campagna. Ma a chi insiste di più fa capire meglio il suo stato d’animo, la sua voglia di togliersi quello che è diventato un peso. Quando il campo sarà sgombro dalle strumentalizzazioni mediatiche, che a ore alterne lo vogliono ariete dell’opposizione o parafulmine del governo, darà il suo contributo di cittadino perchè si chiariscano i rapporti tra la maggioranza, la sua icona Maria Elena Boschi e la Banca dell’Etruria, saltata nel 2015 mentre il padre e il fratello dell’allora ministra operavano ai piani alti. «Adesso non parlo, perché non si può mettere in mano a un privato cittadino la responsabilità della tenuta di un governo – si è sfogato Ghizzoni dopo il pranzo domenicale, consumato prudenzialmente in casa -. E’ un caso della politica, sarebbe dovere e responsabilità della politica risolverlo ».
Il manager ha cercato di santificare le feste. È andato a messa come ogni domenica nella frazione dove abitavano i genitori sui colli del fiume Trebbia. Poi ha avuto l’idea “normale” di andare far la spesa per il pranzo: e s’è accorto, dalla schiera di cronisti che l’aspettava in paese per interrogarlo, di dover reggere suo malgrado le sorti del renzismo redivivo, ruolo cui l’ha chiamato Ferruccio de Bortoli nel libro Poteri forti ( o quasi). Sono bastate 13 righe, dove si legge che a inizio 2015, quand’era amministratore delegato di Unicredit, avrebbe valutato su diretta richiesta di Maria Elena Boschi l’acquisizione di Banca Etruria, in dissesto e prossima al commissariamento.
La linea di Ghizzoni non è cambiata: volare basso, lontano da riflettori e polemiche. «Qualsiasi cosa dicessi ora, sarebbe strumentalizzata da una parte politica contro l’altra, e contro di me - si limita a dire ai giornalisti che saliti in collina -. Oltre poi al fatto che quando studiavo da banchiere mi hanno insegnato che la riservatezza è una virtù». L’orientamento di fondo emerso da giorni non va tuttavia scambiato per reticenza, o disinteresse verso i temi di primo piano: Ghizzoni lo ha chiaro in testa, e non lo nasconde agli intimi. «Anche se sono una persona emotiva, e in questi giorni la pressione mediatica su me e la mia famiglia è notevole, mi sento assolutamente sereno – ha confidato il banchiere che guidò Unicredit dal 2010 al 2016 -. Se mi convocheranno sono disposto a rispondere a tutte le domande della commissione d’inchiesta parlamentare: ho letto che partirà presto, mi auguro sia vero». Non ha nessuna voglia, il figlio del grande latinista emiliano Flaminio, di strumentalizzazioni usate per secondi fini. Vorrebbe tanto, Ghizzoni, che il pallino tornasse nelle mani delle istituzioni, mentre lui aspetta defilato che la polvere si posi, studia agende e carte passate con il legale di fiducia (anche se finora delle querele annunciate da Boschi ci sono solo gli annunci), e soprattutto si tuffa con entusiasmo nei nuovi incarichi, molto operativi e pieni di viaggi e rapporti con i clienti, nel fondo Clessidra e nella banca d’affari Rothschild. Tuttavia nella prima settimana del caso “la politica” è sembrata curarsi più degli effetti mediatici che di ricostruire ruoli e responsabilità degli attori nel crac di Banca Etruria. Finora non sembra che i politici abbiano imitato i giornalisti, nel chiamare Ghizzoni per chiedergli se abbia ricevuto richieste dirette da Maria Elena Boschi in quei giorni, quando la ministra stava in pena per il padre vicepresidente della “banca dell’oro”; o per sapere se è vero che affidò il dossier Etruria alla dirigente di Unicredit Marina Natale, e come l’ipotesi di rilevarla venne rapidamente accantonata a inizio 2015. Ai giornali Ghizzoni ribatte con una fila di “no comment”, senz’altri dettagli: anche se le mezze parole e le mancate smentite di questi giorni fanno supporre che qualche scambio di idee con la ministra Boschi sul dossier ci sia stato davvero. «E’ normale che politici e banchieri si parlino, specie nelle situazioni di crisi» è un’altra frase che Ghizzoni ripete questi giorni.
La Commissione d’inchiesta sul credito può rivelarsi dunque una macchina della verità preziosa. Anche se la cornice - tra Renzi che invoca chiarezza, Boschi che smentisce e annuncia querele, de Bortoli che conferma la versione e non le teme, Ghizzoni prudente in attesa di testimoniare in Parlamento - fa somigliare sempre più il caso Etruria a un poker dove qualcuno sta bluffando.
La Stampa 15.5.17
Sul Mattarellum bis torna il patto Renzi-Verdini
I bersaniani dicono no
E il Pd punta a incassare il sostegno dei centristi
di Giuseppe Alberto Falci
Vuole andare fino in fondo sulla legge elettorale il segretario del Pd Matteo Renzi. Da un lato intende affossare il testo base proposto in commissione Affari Costituzionale dal presiedente Andrea Mazziotti di Celso, che prevede l’Italicum modificato dalla Consulta con una soglia di accesso pari al 3% per la Camera e il Senato. Dall’altro Renzi tiene il punto sul Mattarellum rivisitato, ovvero su una proposta che prevede il 50% dei collegi di tipo maggioritari e il restante 50% di tipo proporzionale. Intervenendo all’Arena su Raiuno, Renzi chiarisce la posizione del Pd: «Sulla legge elettorale purtroppo il Pd da solo non ha la maggioranza, altrimenti l’avremmo già fatta, e tutti quelli che hanno detto no al referendum adesso dovranno decidere da che parte stare. Spero ci sia una legge con il principio che il cittadino possa decidere liberamente e la sua scelta corrisponda a un principio di governabilità». Unire la rappresentanza alla governabilità, è l’obiettivo dell’ex premier. Con il fine di allontanare quel proporzionale che piace tanto a Berlusconi e che sa tanto di «inciuci». Il segretario Pd spera nei voti della Lega di Salvini - che in una intervista al Corriere si è espresso a favore del maggioritario - dei parlamentari di Raffaele Fitto (COR), di quelli di Denis Verdini e nel sostegno di Alleanza Popolare. Quest’ultimo, il partito di Angelino Alfano(Ap), annovera 27 deputati e 27 senatori. Divisi fra chi vuole tornare con Silvio Berlusconi ed è a favore del proporzionale. E chi invece ritiene che un sistema di voto maggioritario possa esaltare le performance del partito di centro. Enrico Costa, ministro degli Affari regionali, appartiene alla seconda categoria e ne spiega la ragione. «Attraverso il Mattarellum-bis - sottolinea Costa - il centro può veramente essere decisivo per far vincere la coalizione. Mentre con l’Italicum il centro sarebbe sì autosufficiente ma avrebbe un minor peso da far valere». Raffaele Fitto guida 11 deputati (“presto saremo 13”, assicura) e 7 senatori, e conviene con la posizione di Renzi. «Se la proposta del Pd andrà in questa direzione riceverà il nostro sostegno», insiste Fitto. Sì al Mattarellum-bis, perché, spiega il leader di Conservatori e Riformisti: «Siamo contrari alla proporzionale che regalerebbe al nostro Paese il caos e l’ingovernabilità». In questa partita il compagno di squadra di Matteo Renzi torna ad essere Denis Verdini. Il partito di Denis, Ala, può contare su 16 deputati e 16 senatori, e sosterrà il Mattarellum-bis. A confermarlo sono le parole di Massimo Parisi, parlamentare verdiniano e membro della commissione Affari costituzionali: «Ci siamo già espressi in commissione. Siamo a favore di un sistema di impronta maggioritaria. D’altronde la nostra proposta prevede il 50% di collegi e l’altro 50% di tipo proporzionale. Con un aggiunta: il premio alla governabilità. È chiaro che l’impronta sia la stessa». Chi non ci sta è Articolo 1-Mdp, ovvero il gruppo parlamentare dei fuoriusciti del Pd. Miguel Gotor lo afferma senza mezze misure: «Non è un Mattarellum-bis, ma un Verdinellum che codificherebbe a livello elettorale l’interesse politico di Renzi di fare dopo le elezioni una santa alleanza con Berlusconi e Verdini».
La Stampa 15.5.17
Meno onorevoli
Ora si risveglia il fronte del No
di Carlo Bertini
Sono passati cinque mesi dal referendum costituzionale e dal grande Fronte del No si leva un’altra voce a squarciare il silenzio sul tema che si pensava morto e sepolto per gli anni a venire: la riduzione dei parlamentari bocciata dal 60% degli elettori. Dopo che Gaetano Quagliariello ha fatto da apripista, chiedendo di riaprire il dibattito sulle riforme al Senato, alla Camera passa alla carica Pippo Civati. Al quale va riconosciuto il coraggio di depositare nero su bianco una proposta per la riduzione dei parlamentari: dopo essersi battuto per affossare la riforma che riduceva il Senato ad una Camera delle autonomie con 100 membri scelti tra sindaci e consiglieri regionali. La riforma che portava la firma della Boschi riduceva il numero dei parlamentari da 945 a 730 e modificava decine di articoli della Carta. Ma era considerata troppo ampia, mentre «la Costituzione ha bisogno di un aggiornamento su singoli punti», dice Civati. Ammettendo che, tra questi punti, quello più condiviso e maggiormente promesso agli elettori, è proprio la riduzione dei deputati e dei senatori.
«Riteniamo - scrive Civati - che una rappresentanza adeguata nella Camera dei deputati possa portare i suoi componenti a quattrocentosettanta e conseguentemente i componenti del Senato a duecentotrenta. In questo modo il numero complessivo dei parlamentari risulterebbe di settecento, realizzando con equilibrio (attraverso una riduzione di circa il 26 per cento) uno snellimento utile al migliore funzionamento: certamente in misura maggiore e soprattutto migliore rispetto a quanto facesse l’ultima riforma costituzionale bocciata dagli elettori». Dunque invece di 630 deputati e 100 senatori, totale 730, Civati propone 470 deputati e 230 senatori, totale 700: si vedrà se e quando le Camere si getteranno di nuovo nell’impresa di procedere a tre letture parlamentari, con migliaia di emendamenti da votare e centinaia di ore di dibattito: per rispondere a questa esigenza improvvisamente riscoperta di ridurre il numero degli onorevoli.
Repubblica 15.5.17
Paolo, siciliano, ha dato l’assedio a Raqqa con una brigata di volontari “Ero pronto a morire, sotto le bombe dei turchi ci sono andato vicino”
Il ritorno del compagno Libertà “Ho combattuto contro l’Isis e sono stanco di quell’inferno”
di Fabio Tonacci
ROMA. Il compagno Libertà è tornato a casa. Nove mesi di assedio a Raqqa possono bastare, per ora. «Sono stanco e volevo rivedere la mia famiglia». Paolo è un quasi trentenne siciliano e, su sua richiesta, tocca fermarsi qui con l’anagrafe. È uno dei combattenti dell’Antifascist Internationalist Tabur, il battaglione dello Ypg (l’esercito curdo siriano) fondato dall’italiano Karim Franceschi. Erano in sette a dicembre, ora sono una trentina. «Si sono aggiunti americani, canadesi, molti europei. Gli italiani sono quattro». Ha arricchito il suo nome di battaglia. «Ero Heval Azadì, in curdo significa compagno Libertà. Ora sono Heval Azadì e Raperin: compagno Libertà e Rivoluzione». Laggiù, la morte gli si è seduta accanto. «Ci sono piovute ventisei bombe sulla testa in due ore, ventidue compagni sono stati ammazzati». La morte che è arrivata dalla parte dove non guardavano. «Erano i turchi a bombardarci, alle spalle ».
Martedì scorso i curdi iracheni lo hanno fermato ad Erbil per immigrazione clandestina, perché il suo visto era scaduto. Era insieme ad un altro italiano, Mirco, e a sette compagni del battaglione. Tre giorni in arresto, poi la Farnesina è intervenuta e venerdì Paolo e Mirco sono atterrati a Roma. Gli altri sono ancora in galera. «Sono frastornato, devo focalizzare», dice, sintetizzando un groviglio di sensazioni da decifrare.
Con il battaglione dove eravate?
«Abbiamo partecipato alla fase tre dell’operazione Raqqa: isolare la capitale del Califfato, tagliando i contatti con le campagne orientali. Il nostro tabur ha liberato Al Tabqa e il villaggio di Karamà, a 15 chilometri da Raqqa. Su 45 giorni di offensiva, abbiamo combattuto 30 giorni. Ora sono a dieci chilometri dalla città».
Ci sono stati morti nelle vostre fila?
«Nel battaglione no, ma finora nell’accerchiamento di Raqqa sono morti un centinaio
di compagni, tra cui quattro internazionali».
Quando la libererete?
«Entro l’autunno spero. Sono già fuggiti 40mila civili da Raqqa. Nei campi profughi, dove la gente muore di fame, ci sono 100mila persone ed è sorto un Consiglio popolare per autogovernare la città dopo che sarà liberata dall’Is: è composto da rappresentanti del popolo che si sono dati il compito di riorganizzare la società civile».
Chi sta partecipando all’offensiva?
«Oltre ai curdi ci sono diecimila arabi con le Forze democratiche siriane. Poi armeni e turcomanni. Gli americani danno il supporto aereo ma Daesh usa donne e bambini come scudi umani. Quando nei villaggi non ci sono civili, infatti, scappano senza resistere. Liberare Karamà, ad esempio, è stato meno difficile del previsto, anche se hanno nascosto mine dovunque: dietro le porte delle case, sottoterra, nei posti più impensabili. Abbiamo preso dei prigionieri dell’Isis, e li abbiamo pure curati e nutriti: la nostra etica è l’opposto della loro».
Cosa ha pensato, vedendo da vicino il nemico?
«Che sono incredibilmente giovani. Hanno una forte ideologia, credono in quello che fanno».
A dicembre raccontò a Repubblica di non
aver mai preso in mano un fucile. Come se l’è cavata in quell’inferno?
«La verità? Fortuna...».
Solo quello?
«La prima volta che mi hanno chiamato al fronte avevo l’influenza, stavo malissimo eppure sono andato lo stesso. E sono tornato vivo ».
Neanche un graffio?
«Non ho ferite, ma a Karatchock nel nord est della Siria stavo per rimanerci secco. Il 24 aprile i turchi hanno sparato sul comando curdo ventisei bombe in due ore e ventidue compagni sono morti. Russi e americani, secondo me, sapevano e non ci hanno avvertiti. I turchi cercano di bloccare l’avanzata dei curdi verso la Siria, ci bombardano e nessuno dice niente».
Come si fa ad entrare nel battaglione antifascista?
«Prima c’è una sorta di addestramento all’accademia, poi si fa domanda allo Ypg. Noi siamo una delle tante unità. C’è una gestione orizzontale del comando: ogni giorno ci riuniamo per decidere come muoverci. Tutti hanno diritto di parlare, facciamo molta autocritica e risolviamo così i conflitti personali ».
Com’era la sua giornata?
«Sveglia alle sei di mattina, facciamo sport, poi si marcia insieme. Ci dividiamo i compiti: qualcuno cucina, qualcun altro pulisce. Si fanno i training, anche medici, si discute di politica. Ci sono i turni di guardia, dormivo quattro ore a notte».
Non ha mai pensato: che diavolo ci sto facendo qui?
«No, però spesso riflettevo sul fatto che appena un anno fa ero un lavoratore precario senza un futuro».
Lo Ypg dà ai suoi soldati delle bombe a mano, da usare contro il nemico ma anche per farsi saltare in aria nell’eventualità di essere catturati. Lei l’avrebbe fatto?
«Sì. È una questione di orgoglio».
Ci tornerà?
«Sinceramente non lo so. Credo che sosterrò la lotta in altri modi».
Repubblica 15.5.17
Ai Weiwei
Vi racconto come funziona la censura nella mia Cina
“Non posso parlare in alcun consesso pubblico. Il mio nome è cancellato dai media” “Una resistenza razionale può fondarsi soltanto su piccole azioni di singole persone” L’artista spiega perché vive un’esistenza “virtuale” nel suo Paese Dove collaborazione esplicita e silenzi volontari impediscono la libertà di espressione Le opere d’arte salgono o scendono sulla base di criteri corrotti Qualsiasi autore che possieda una reale vitalità deve fingere di non capire la realtà intorno a lui
Nel giro di un mese, nel 2014, in due mostre distinte che includevano opere mie, a Pechino e a Shanghai, il mio nome è stato cancellato, in un caso da funzionari pubblici e nell’altro caso dagli stessi organizzatori della mostra. Alcune persone forse prenderebbero una cosa del genere con calma, non la vedrebbero come una ragione per inquietarsi. Ma io sono un artista e considero le etichette
sulle mie opere come una misura del valore che ho prodotto, come i marcatori del livello dell’acqua sulla riva di un fiume. Altre persone forse alzerebbero le spalle e non se ne curerebbero, ma io non ci riesco. Non mi illudo però che il fatto che io non sia disposto a passarci sopra possa influenzare la disponibilità di altri a passarci sopra. La vita in Cina è satura di finzione. La gente finge ignoranza e parla in modo ambiguo. Tutti sanno che esiste un sistema di censura, ma non si parla quasi mai del perché esiste. Censurare elimina la libertà di scegliere che cosa osservare ed esprimere agli altri, e questo inevitabilmente produce depressione nella gente. Dove la paura predomina, la vera felicità svanisce e la forza di volontà dei singoli si prosciuga. I giudizi divengono distorti e la razionalità stessa comincia a venir meno. Il comportamento di gruppo può diventare incontrollato, anormale e violento.
Per le persone che accettano questa posizione passiva nei confronti dell’autorità, “sbarcare il lunario” diventa il valore supremo. Sorridono, si inchinano e fanno di sì con la testa, e questo comportamento di regola consente loro di vivere comodamente, senza problemi e perfino piacevolmente. È un atteggiamento essenzialmente difensivo da parte loro. È ovvio che in qualsiasi disputa, se una parte viene ridotta al silenzio, le parole dell’altra parte non saranno messe in discussione. È la situazione che abbiamo oggi in Cina: la maggioranza che sceglie di essere silenziosa, sicofanti di un regime potente, astiosi verso le persone che fanno sentire la loro voce come me, è doppiamente amareggiata perché sa di essersi umiliata con le proprie mani. Il sistema della censura necessita della collaborazione e del tacito consenso dei censurati: per questo non concordo con l’idea comune che i censurati siano semplicemente vittime. L’autocensura volontaria procura benefici a una persona e il sistema non funzionerebbe se non ci fosse l’aspetto volontario. Chi è disposto a censurarsi da solo è vulnerabile a sfide morali di vario genere. Non è mai stato una vittima né mai lo sarà. Ogni volta che dà prova del suo servilismo riscalda il cuore degli autocrati e danneggia le persone che protestano. Il suo atteggiamento vile, quando si diffonde, diventa la ragione più profonda del collasso morale della nostra società. In questo tipo di sistema, dove le opere d’arte salgono o scendono sulla base di criteri corrotti, qualsiasi creatore artistico che possieda una reale vitalità deve fingere di non capire.
Com’è noto, non posso parlare in alcun consesso pubblico. Il mio nome viene cancellato da qualsiasi mezzo di informazione. Non sono autorizzato a spostarmi all’interno della Cina e sono messo al bando dai media pubblici, dove vengo regolarmente criticato. I commentatori nei media pubblici si fingono imparziali, ma è impossibile considerando la loro posizione, al riparo della cortina protettiva dello Stato. Non affrontano argomenti come il diritto alla libertà di parola o la qualità di vita per la stragrande maggioranza dei cinesi. Quello in cui sono più esperti è attaccare senza scrupoli voci che sono state già represse.
La mia esistenza virtuale, se così si può dire, esiste solo fra le persone che scelgono di accorgersi di me, e quelle persone ricadono chiaramente in due categorie: quelle che pensano che il mio comportamento dia maggior senso alle loro vite e quelle che pensano che io ostacoli la loro marcia verso il benessere, e non me lo perdonano. Solo quando la Cina offrirà piattaforme eque e imparziali per l’espressione delle pubbliche opinioni avremo modi per far incontrare le menti attraverso le nostre parole. Io sostengo la creazione di queste piattaforme. Dovrebbe essere il principio primo per rendere possibile la giustizia sociale. Ma in un posto dove tutto è finto, fino alla punta dei capelli, chiunque alzi la voce per sottilizzare sulla verità appare ingenuo, se non addirittura infantile. In definitiva, la strada dell’”ingenuità” mi sembra la sola che mi resta aperta.
Un artista è una persona importante, che prende parte alla vita politica. Specialmente in tempi di cambiamenti storici, i valori estetici avranno sempre un vantaggio. Una società che perseguita le persone che rimangono ostinatamente fedeli a valori individuali è una società incivile, che non ha futuro. Quando i valori di una persona vengono esposti pubblicamente, gli standard e l’etica di quella persona e della società nel suo insieme possono venire messi in discussione. La libera espressione di un individuo può stimolare un tipo di scambio più specifico, e condurre, a sua volta, a modi più specifici di scambiare opinioni. Questo principio è parte integrante della mia filosofia artistica.
La censura in Cina impone limiti al sapere e ai valori, e questo è fondamentale per imporre una schiavitù ideologica. Io faccio quel che posso per evidenziare le crudeltà, le cose sottili e meno sottili. Per come stanno le cose oggi, una resistenza razionale può fondarsi solo sulle piccole azioni di singole persone. Se fallisco, la responsabilità è soltanto mia, ma i diritti che cerco di difendere sono diritti che possono essere condivisi. Anche gli schiavi ideologici possono rivoltarsi. Alla fine, si rivoltano sempre.
© 2017 The New York Times Syndicate (Traduzione di Fabio Galimberti)
Corriere 15.5.17
Il linguaggio (cifrato) dei missili di Kim
di Guido Olimpio e Guido Santevecchi
Sabato pomeriggio, aeroporto di Pechino: un’inviata nordcoreana reduce da colloqui informali a Oslo con emissari americani dice che «con le giuste condizioni» Kim Jong-un sarebbe pronto a discutere con Donald Trump. Domenica mattina, dal poligono di Kusong, vicino al confine cinese, gli artiglieri di Kim lanciano un missile che compie una traiettoria di 700 chilometri e piomba 30 minuti dopo in mare a circa 400 chilometri dalla costa del Giappone. Gesto che si inserisce in una strategia più ampia dove la Corea del Nord persegue il programma di riarmo, cerca il riconoscimento internazionale e la trattativa ma secondo i suoi parametri.
Il messaggio militare
I test sono definiti dagli avversari delle provocazioni. E lo sono. Ma c’è molto di più: le prove seguono un piano ambizioso per dotare il Paese di un vettore in grado di raggiungere la costa occidentale Usa. Passo dopo passo, con qualche flop, i tecnici di Kim lavorano sodo. E il lancio dell’ultimo missile — il decimo nel 2017 — ne è la conferma.
Per l’esperto David Wright si tratta di un ordigno nuovo, in grado di coprire un raggio di circa 4.500 chilometri, quanto basta per centrare le basi americane sull’isola di Guam. Dunque superiore ai 3 mila coperti dal Musudan. Sempre l’analista aggiunge che potrebbe essere il vettore, a due stadi, mostrato alla parata del 15 aprile. L’obiettivo è di avere un arsenale su sistemi mobili in grado di essere nascosti, riposizionati.
Fonti militari occidentali a Pechino spiegano al Corriere che con ogni probabilità hanno spedito il missile a 2 mila chilometri d’altezza per provare la forza propulsiva del carburante solido. È di fatto una lunga marcia.
Se si osservano gli esperimenti condotti negli ultimi dodici mesi si vedrà come abbiano lanciato i Pukkuksong 2 (impiego intermedio), vecchi Scud con traiettoria allungata e una successiva variante. È il segnale chiaro della loro volontà.
Infatti gli osservatori più attenti sottolineano che anche gli episodi dove l’ordigno è esploso in anticipo non debbano essere classificati come insuccessi. Anzi, la cadenza ravvicinata — aggiungono — può essere determinata dai progressi conseguiti. E poi è sempre possibile che gli scienziati, in qualche caso, li abbiano fatti detonare una volta raggiunta una distanza prestabilita.
Ciò che conta è verificare la tecnologia a disposizione. Sotto la guida di Kim, poi, è cresciuto il numero di siti per gli esperimenti. In nome della diversificazione e specializzazione: Sinpo, Kusong, Sohae, Sunchon, Hwangju, Nampo, Wonsan Nord, Wonsan, Kattaeryong. Suo nonno usava solo Musudan-ri, il padre si è concentrato su Wonsan (13 prove) e Tonghaea I segnali
Kim, che non usa dichiarazioni o interviste, si rivolge all’esterno con il linguaggio dei missili.
Mostrando il suo ultimo «giocattolo» letale manda un messaggio a diversi destinatari. 1) Il neopresidente sudcoreano Moon Jae-in, favorevole al negoziato: la controparte ribadisce che la trattativa non implica la rinuncia allo scudo bellico. 2) La Cina, partner fondamentale che riceve uno schiaffo mentre ospita il vertice di Pechino. 3) Donald Trump, che si è detto pronto ad incontrare a certe condizioni — non queste — il dittatore asiatico. Che ribadisce: vogliamo arrivarci da una posizione di forza. 4) La Russia, la più morbida nei confronti di Pyongyang. Infatti la Casa Bianca, nel suo comunicato, è sembrata voler scaricare parte del peso su Mosca sostenendo che il lancio deve averla preoccupata non poco. I rottami sono caduti vicino alla coste russe .
Il futuro
Nikki Haley, ambasciatrice americana all’Onu, dice che il test è la conferma della «paranoia di Kim» e Washington invoca sanzioni più severe.
Ma questo missile potrebbe essere una mossa di Kim per accelerare l’apertura di un dialogo. Trump lo ha definito «un ragazzo sveglio», fa circolare la voce secondo cui gli Usa non puntano a un crollo del regime, il temuto «regime change» che è costato il potere e la vita a raìs come l’iracheno Saddam e il libico Gheddafi, eventi che hanno «marcato» il leader della monarchia rossa.
Al momento però il Rispettato Maresciallo non è disposto a rinunciare a missili e atomiche, la sua polizza sulla vita.
La Stampa 15.5.17
I Sei Giorni che sconvolsero il Medio Oriente
A 50 anni dalla travolgente controffensiva di Israele davanti al fronte arabo che ne voleva l’estinzione Un blitz spettacolare che però non gli ha garantito la sicurezza e ha lasciato molti nodi irrisolti
di Lea Luzzati
Tutto cominciò la mattina del 5 giugno 1967 alle 7,45. «Volavamo bassi e veloci su un deserto azzurro su nessun riferimento su cui basarci per l’orientamento. Ero molto teso e attendevo il momento nel quale avremmo svoltato verso Sud. Lo facemmo prendendo una rotta che ci avrebbe portato in direzione del delta del Nilo. Sorvolammo alcuni pescherecci ma i pescatori nemmeno alzarono la testa. Poi davanti a noi scorsi la striscia dorata di sabbia davanti al lago Bardawill nel Sinai… Pochi secondi dopo ci apparve il Canale di Suez. Il panorama sotto di noi cambiò. Ora era verde e coltivato mentre ci avvicinavamo al delta del Nilo e alla base aerea di Cairo West».
La colonna portante dell’Israel Air Force era costituita da diversi tipi di aerei di progettazione francese, tra i quali non pochi Mirage IIICJ, dove l’ultima lettera della sigla stava per juif. Gli aerei volavano fuori della portata dei radar, talmente bassi sul mare da lasciare scie bianche sulla superficie. Poi si levarono, e neanche due ore dopo al capo di stato maggiore dell’esercito d’Israele, il maggior generale Itzhak Rabin, giunse la comunicazione: «L’aviazione egiziana ha cessato di esistere». Dei 420 aerei da combattimento dell’arsenale di Nasser restava poco o niente.
Vittoria schiacciante
L’operazione Moked («Focus») segna l’inizio della Guerra dei Sei Giorni, cinquant’anni fa: forse il più spettacolare Blitzkrieg della storia, nel corso del quale un Paese minacciato d’estinzione da un fronte più o meno compatto composto da Egitto, Giordania, Siria e Iraq si ritrova per le mani una vittoria schiacciante e un territorio quattro volte più grande - benché fatto in larga maggioranza di sabbia e sassi del deserto del Sinai. Tanto rapida e sorprendente ai limiti dell’incredibile fu la guerra e furono soprattutto i trionfi che l’esercito israeliano inanellò in vertiginosa sequenza su tutti i trionfi - dal Sinai al Golan alla Cisgiordania - quanto estenuanti e drammatici i prodromi del conflitto, pesanti e imprevedibili quelle conseguenze che ancora oggi sono pane quotidiano dei tavoli politici, dei mezzi di comunicazione.
Nel 1963 la dichiarazione del presidente iracheno Abdul Salam Ariq, «lo scopo degli Arabi è la distruzione di Israele», fu sottoscritta dal presidente egiziano Nasser. Due anni dopo - e non all’indomani della guerra dei Sei Giorni, per rivendicare i Territori Occupati - nasce l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Contemporaneamente proseguono le operazioni siriane per deviare il Giordano e negare a Israele buona parte della sua acqua potabile. Del resto, come rileva puntualmente Simon Dunstan nel suo La Guerra dei Sei Giorni. 1967: Sinai, Giordania e Siria (in uscita per Leg edizioni nella traduzione di Vincenzo Valentini, pp. 305, € 24), l’acqua fu cruciale anche per gli esiti della guerra. Per le campagne di terra, infatti, gli israeliani avevano valutato che nel deserto i soldati avevano bisogno di mezzo litro di acqua all’ora per essere operativi al massimo, e tanta era stata fornita. L’esercito egiziano, per contro, subì una terribile ritirata che costò la vita a migliaia di soldati, morti in larga maggioranza di sete e stenti.
Nel maggio del 1967 Nasser aveva ricevuto falsi rapporti dall’Unione Sovietica secondo cui Israele - che aveva negli ultimi mesi subito non pochi attacchi a civili sui confini con l’Egitto e la Siria - stava ammassando truppe al confine settentrionale; il presidente egiziano, anima del panarabismo, espulse le forze di interposizione internazionali da Gaza, dal Sinai e da Sharm el-Sheikh. Il 22 maggio chiuse alle navi israeliani lo stretto di Tira, che sin dal 1957 Israele aveva dichiarato che sarebbe stato considerato alla stregua di un atto di guerra.
Se per l’attacco aereo l’aviazione israeliana si stava preparando da mesi - sulla base delle informazioni ricevute dai servizi segreti si erano costruite nel Neghev delle simulazioni «geografiche» sulle quali i piloti si erano esercitati - il resto della guerra, come ben racconta Simon Dunstan, era assolutamente imprevedibile. Più che mai lo fu la conquista di Gerusalemme Est e della sua Città Vecchia. Il 5 giugno alle 10 del mattino i cannoni giordani cominciarono a bombardare Gerusalemme Ovest e Tel Aviv; l’indomani Gerusalemme era accerchiata dagli israeliani; il 7 giugno, dopo molte esitazioni da parte del generale Dayan, appena nominato ministro della Difesa, i soldati ebbero il via libera per entrare nella Città Vecchia e il momento in cui giunsero al Muro Occidentale (cioè il Muro del Pianto) fu indubbiamente il più intenso di tutto il conflitto. Dopo 1900 anni il popolo ebraico tornava sovrano sui propri luoghi santi.
Conflitto infinito
Dayan peraltro proibì ai suoi soldati di issare la bandiera d’Israele sul Monte del Tempio, cioè la Spianata delle Moschee. Il mitico generale con la benda sull’occhio sapeva bene che la schiacciante vittoria del suo Paese siglata il 10 giugno con un «cessate il fuoco» disastroso per quegli eserciti arabi e il loro refrain «Non entreremo in Palestina calpestando la sabbia, entreremo calpestando il suo suolo imbevuto di sangue» significava anche una situazione terribilmente complessa.
Con la guerra dei Sei Giorni Israele divenne qualcosa di diverso da ciò che era prima. Era un Paese minuscolo con un’esistenza continuamente minacciata dietro quei muri di odio che erano i confini con tutti i Paesi arabi circostanti. Divenne un Paese molto più grande e forte ma non più sicuro, dentro e fuori da quei confini, come racconta Ahron Bregman in La vittoria maledetta. Storia d’Israele e dei Territori occupati (in uscita domani da Einaudi, pp. XXXVIII-346, € 33), ideale prosecuzione del racconto di Dunstan. Da allora ha restituito la gran maggioranza dello spazio occupato in quei sei fatidici giorni - il Sinai e la Striscia di Gaza - ma il nodo dei Territori Occupati e lo status di Gerusalemme sono all’ordine del giorno in un conflitto che è ancora al tempo presente benché la maggioranza dei due giovani popoli, israeliani e palestinesi, non fosse ancora nata, in quei giorni di cinquant’anni fa.
Corriere 15.5.17
Così Dayan cambiò rotta
In Cisgiordania fu prima accomodante poi divenne più duro verso i palestinesi
di Paolo Mieli
Al momento della guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967) Ahron Bregman aveva nove anni e ha ancora viva nella memoria l’impressione positiva che gli fece la prima visita, con i suoi familiari, a Gerusalemme Est. Così come ricorda quando, dieci anni dopo, cambiò idea sull’occupazione israeliana dei territori palestinesi e quando — trascorsi altri dieci anni — decise di scrivere una lettera al quotidiano «Haaretz» in cui accusava i suoi connazionali di «commettere contro i palestinesi le stesse brutalità criminali che un tempo tanti altri popoli del mondo avevano inflitto agli ebrei». Lettera che, pur senza proporre il consueto paragone con i nazisti, sollevò vivaci polemiche. Poi Bregman si trasferì in Inghilterra e adesso torna sui fatti di cinquant’anni fa per proporre un libro di storia che offre spunti interessanti anche a lettori che non condividono il suo cambiamento di giudizio: s’intitola La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati ; esce domani, pubblicato da Einaudi.
Il libro di Ahron Bregman non è una storia di quel brevissimo conflitto al termine del quale lo Stato ebraico (al suo diciannovesimo anno di vita) sconfisse gli arabi e occupò la Striscia di Gaza, il Sinai, le Alture del Golan, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. È piuttosto una storia dei cinquant’anni successivi nel corso dei quali, scrive Bregman, «la simpatia del mondo cominciò a lasciare gli israeliani per spostarsi verso i nuovi derelitti».
La resistenza dei palestinesi non fu immediata. Anzi ci fu un periodo iniziale in cui — a dispetto del regime di occupazione — sembrava che i due popoli potessero convivere. Le cose cambiarono per gradi. Basti pensare al fatto che, all’epoca della guerra del Kippur (1973) — quando già da tempo erano venute allo scoperto l’organizzazione che faceva capo a Yasser Arafat e quelle più radicali impegnate quasi esclusivamente in un’attività terroristica — nonostante Israele fosse stata presa alla sprovvista, non ci fu nessuna rivolta nei territori occupati. Poi la lotta si fece più intensa. La media annuale dei palestinesi uccisi tra il giugno 1967 e il dicembre 1987 (oltre vent’anni), fu di 32. Tra il dicembre 1987 e il settembre del 2000 (meno di tredici anni) salì a 106. Nei sei anni successivi arrivò a 674.
Quale fu il momento preciso in cui le cose cominciarono a cambiare? Moshe Dayan, il generale con la benda sull’occhio che divenne il personaggio simbolo della guerra dei Sei Giorni, aveva idee molto particolari su come dovesse essere un regime di occupazione militare. Dopo la guerra del 1956, Dayan fu responsabile di Gaza che già allora Israele aveva sottratto all’Egitto e di cui tenne il controllo per un anno. Qui, fa notare Bregman, il generale si segnalò per la «riluttanza a intervenire nella vita quotidiana degli abitanti».
Nel 1966, poi, Dayan andò a studiare il comportamento dell’esercito americano in Vietnam e ne trasse un libro, Vietnam Diary , nel quale, ricorda lo storico, si mostrò «estremamente critico nei confronti della condotta degli Stati Uniti e di quello che considerava il loro tentativo di imporre ai vietnamiti la cultura, i valori e i modi di vivere americani». Non riusciva a capire, scrisse, «perché fosse importante per gli americani che i bambini vietnamiti giocassero a baseball». Invece di occuparsi della vita vietnamita, osservava Dayan, le forze Usa «avrebbero avuto molto più successo se avessero semplicemente lasciato che gli abitanti locali facessero a modo loro».
E nel giugno del 1967, da ministro della Difesa fu coerente a queste premesse. Impartì al governatore militare di Gerusalemme, Chaim Herzog, l’ordine di «astenersi dall’intervenire nella vita quotidiana dei palestinesi». «Non cerchi di governare gli arabi — consigliò al generale — lasci che si governino da sé… Voglio una politica che permetta a un arabo di nascere, vivere e morire senza mai vedere un ufficiale israeliano». Quando incontrò i comandanti dell’esercito, cinque giorni dopo la fine della guerra, diede ordini dello stesso tenore: «Non prevaricate la popolazione araba. Lasciateli in pace. Non cercate di educarli e di istruirli. Per quanto riguarda la sicurezza, procedete con mano ferma. Ma poi lasciateli stare». Si lamentò che alcuni soldati fossero rimasti a Nablus: «Uscite dalla città, schieratevi fuori dalla città, non dovete essere visti; la città non deve avere né dare l’impressione di essere stata occupata. Date loro la sensazione che la guerra sia finita e che niente sia cambiato». Dispose anche la rimozione delle bandiere israeliane dal quartier generale e dalle basi dell’esercito in Cisgiordania perché, disse, erano «un simbolo odiato dagli arabi, e non vogliamo peggiorare le cose con una provocazione non necessaria».
Molti, scrive Bregman, hanno sostenuto che le politiche di Dayan durante i primi giorni dell’occupazione fossero dovute a «magnanimità». Ma l’autore, invece, ritiene che «la sua politica non fosse magnanima, bensì machiavellica». Quella a cui pensava Dayan doveva essere un’«occupazione invisibile» durante la quale le truppe israeliane non avrebbero dovuto essere in vista né dovevano comparire simboli evidenti di occupazione come le bandiere con la stella di David; bisognava «favorire il diffondersi tra i palestinesi di una certa apatia, smorzando il loro desiderio di cambiamento, permettendo così a Israele di mantenere in via permanente la presa sulle terre occupate».
Dayan consentì poi a che continuasse a circolare il denaro giordano. Re Hussein continuava a pagare gli stipendi ai lavoratori statali — insegnanti, personale sanitario, giudici, funzionari della burocrazia — che non erano fuggiti dai territori occupati. E Israele fu d’accordo. Hussein voleva fare in modo che «i cisgiordani sotto occupazione se la passassero bene dal punto di vista finanziario, il che li avrebbe incentivati a rimanere in Cisgiordania, a non attraversare il Giordano per emigrare nella Giordania vera e propria, già sovrappopolata di rifugiati palestinesi». Contro i quali, nel settembre del 1970, Hussein si sarebbe sentito in dovere di aprire il fuoco ad impedire che facessero vacillare il suo regno.
Nel corso della guerra dei Sei Giorni, Dayan aveva fatto saltare un buon numero di ponti sul Giordano. A conflitto concluso, volle che questi ponti venissero (almeno in parte) ricostruiti e riaperti. La politica dei «ponti aperti» la si deve al colonnello Yisrael Eytan, governatore militare della Samaria (la Cisgiordania del Nord) che, alle prese con un’eccedenza di produzione agricola, consentì a un possidente di Nablus, Abu Hashem, di andare a vendere i propri prodotti in Giordania (con l’autorizzazione, ovviamente, a poter poi tornare indietro). La concessione fu poi estesa ad altri agricoltori palestinesi, che con i loro camion attraversarono il Giordano in alcuni punti dove l’acqua era poco profonda. Quando le acque del fiume ripresero a scorrere copiose, Dayan inviò il sindaco di Nablus, Hamdi Canaan, ad Amman da re Hussein per sondare la sua disponibilità alla ricostruzione dei ponti fatti saltare nel corso della guerra. Hussein disse di sì e i ponti, a poco a poco, furono ricostruiti.
Politica questa che, osserva Bregman, «è spesso celebrata come liberale». In realtà, sostiene lo storico, rappresentava un altro aspetto della già citata «occupazione invisibile»; Dayan pensava, e con buone ragioni, che permettere ai palestinesi di attraversare liberamente il confine con la Giordania e ritornare poi alle proprie case nei territori occupati potesse far sì che non avvertissero la presenza delle truppe israeliane come un ostacolo alla loro vita quotidiana. E che la situazione, per quanto li riguardava, non apparisse loro molto diversa da com’era prima della guerra, cosicché non sarebbero stati indotti a giudicare necessario opporre resistenza a Israele.
Benché laico, «Dayan considerava comunque la Cisgiordania — Giudea e Samaria — come la culla della storia e desiderava che Israele la conservasse, ma sapeva anche che una forma di occupazione più visibile avrebbe soltanto fomentato la resistenza». E nel caso che i palestinesi più giovani avessero comunque prodotto qualche forma di resistenza, voleva che fossero i loro genitori a «gestirla», non i «suoi soldati». In questo fu addirittura esplicito. Quando alcuni ragazzi, in maggioranza donne, iniziarono a fare dimostrazioni contro l’esercito occupante, riunì un gruppo di leader palestinesi e disse loro: «Non ci scontreremo con queste ragazze; queste ragazze hanno una casa e dei genitori… Esistono molte differenze tra noi, ma una cosa abbiamo in comune… voi avete figlie e io ho una figlia». Fate con loro quello che io farei con la mia, fu il suo messaggio.
Ma se queste furono le premesse, che cosa accadde poi che modificò la situazione? Il clima cambiò con la cosiddetta «battaglia dei libri». Lo Stato ebraico istituì uno speciale comitato governativo che avrebbe dovuto rivedere i corsi di studio nei territori occupati e censurare i libri di testo che contenevano «animosità nei confronti di Israele e degli ebrei». Nel mese di agosto di quello stesso 1967, il comitato stabilì che su centoventi di questi libri adottati da anni e anni, una cinquantina fossero banditi del tutto e che altri dieci avrebbero dovuto essere emendati. Duecento insegnanti palestinesi di Jenin firmarono allora una petizione di protesta, i negozianti di Gerusalemme Est proclamarono uno sciopero, a Tulkarm, Qalqilya e Nablus furono diffusi volantini che invitavano gli studenti a disertare le aule e il 1° settembre, alla riapertura delle scuole, il responsabile del Dipartimento istruzione dell’area di Nablus, Rashid Maree, comunicò all’autorità israeliana che gli istituti sarebbero rimasti serrati causa l’eccesso di libri messi al bando. I militari arrestarono all’istante Maree e lo tennero in prigione per tre mesi. Senza processo. Nablus a quel punto entrò in sciopero e, dopo una ventina di giorni, l’esercito israeliano passò alle maniere forti, mettendosi in urto anche con quel sindaco Canaan che avevamo incontrato come protagonista dell’operazione «ponti aperti». Questi chiese udienza a Dayan che gliela concesse l’11 ottobre quando ormai Nablus era allo stremo. «Il pugno di ferro cancella qualunque buona volontà la gente potesse nutrire nei confronti delle forze occupanti», furono le parole di Canaan. «La scelta che avete», fu la brutale risposta di Dayan, «è tra vivere ordinatamente o ribellarvi; ma sappiate che, se scegliete la ribellione, non avremo altra opzione che spezzarvi». Di fronte a quella minaccia Nablus si piegò.
Qualche tempo dopo questo «nuovo Dayan» incontrò la poetessa palestinese Fadwa Tuqan e, a proposito dei rapporti tra israeliani e palestinesi, le fece una previsione: «È come nella relazione tra un uomo e una donna da lui rapita, la quale non lo ama e non vuole sposarlo. Quando nascono i figli, questi vedono lui come padre e lei come madre. Il rapimento non ha più alcun significato per loro. Anche voi come popolo oggi non ci volete, ma ci stiamo imponendo su di voi». Il 12 aprile 1968 circa cinquanta ebrei osservanti decisero di celebrare la pasqua a Hebron e l’indomani comunicarono che sarebbero rimasti a vivere lì. Stavolta Dayan era contrario ma il presidente del Consiglio israeliano Yigal Allon (anche per rivalità con Dayan) acconsentì. Anni dopo il ministro della Difesa avrebbe riconosciuto l’errore: «Non ho compiuto il mio dovere quando non ho impedito questo insediamento pirata a Hebron; ne conoscevo il significato, sapevo che sarebbe stata una catastrofe e avrei dovuto minacciare le dimissioni». Ma non lo fece.
La Stampa 15.5.17
La scienza non ci racconta la creazione ma le origini
di Piero Bianucci
Ci vuole coraggio per scrivere una storia scientifica della creazione. Jim Baggott l’ha avuto. Questo è il sottotitolo del suo ultimo libro di alta ed elegante scrittura divulgativa, appena comparso in Italia (Adelphi. pp. 438, € 39). Meno ambizioso, minimalista, è il titolo: Origini.
Scienza e creazione rimandano a visioni filosofiche non miscelabili, un po’ come l’acqua e l’olio. Eppure anche nei laboratori c’è una tendenza a sdoganare la parola creazione. Science la accettò nel lavoro con cui nel 2010 Craig Venter presentò la prima cellula con un genoma sintetico, impresa da lui stesso superata un anno fa «creando» un microorganismo con il corredo di geni minimo (473) ancora in grado di assicurare sopravvivenza e riproduzione. Con questa storia scientifica della creazione Jim Baggott, chimico-fisico, dottorato a Oxford e a Stanford, autore di un saggio sul bosone di Higgs sfornato all’indomani della scoperta della «particella di Dio» (riecco la teologia), si inserisce dunque in un solco di metafore ardite ed emotive, usate più che altro per attirare l’attenzione del pubblico ma poi (per fortuna) disattese nella sostanza. Perché in realtà Baggott non ci racconta affatto la creazione ma, appunto, le origini. Al plurale, un plurale che toglie alle sue pagine ogni traccia di solennità e retorica.
La scienza non può dire nulla sulla creazione, non ne sa nulla e nulla vuole saperne. Però, laicamente, si avvicina sempre più alle origini, che sono tante: le origini dell’universo nel Big Bang, delle galassie, degli elementi chimici nelle reazioni nucleari delle stelle, e poi - miliardo dopo miliardo di anni - le origini del Sole e della Terra, la comparsa della vita così come la conosciamo nella sua (per ora) unicità, fino a Homo sapiens e all’emergere dell’autocoscienza. Qui, sulla soglia dell’etica e dei valori, ma anche dell’ignoranza e dell’umiltà, Baggott si ferma e lancia un allarme. «Cultura, religione e razza costituiscono una miscela altamente esplosiva. Aggiungiamoci un po’ di avidità, di brama di potere e di deliri di grandezza: il resto, come si dice, è storia». Dalla creazione alla distruzione?
Il Fatto 15.5.17
La cara vecchia dieta mediterranea ci può salvare dal clima “pazzerello”
Il segreto è a tavola: cibo di qualità, ricco di vitamine e minerali. Sono da preferire papaya, zenzero e kiwi
di Leda Galiuto
Cara prof.ssa Galiuto, in questa strana stagione stiamo passando da caldo al freddo nell’arco non solo della stessa giornata, ma anche della stessa ora. Credo che sia questo il motivo per il quale nella mia famiglia siamo sempre raffreddati. Una corretta alimentazione può aiutarci? Il suo quesito ha in qualche modo ispirato anche importanti ricerche presentate durante l’Expo di Milano dedico al cibo. I cambiamenti climatici sono infatti correlati alla dieta globale. Si calcola che nel 2050 la sola produzione di cibo raggiungerà, se non supererà, gli obiettivi globali di emissioni di gas serra. Si ritiene, di conseguenza, che un cambiamento del sistema alimentare mondiale possa essere cruciale per rallentare il cambiamento climatico e per assicurare le riserve di cibo in generale. Incriminati sono i campi, perché l’agricoltura sembra essere la maggior responsabile della perdita di biodiversità e inquinamento. Poi sono ritenuti “a rischio” i pascoli, perché gli animali si nutrono di vegetali: dunque più carne mangiamo, più terre coltivabili vengono utilizzate per gli animali che forniscono carne per gli umani. Con questo non intendo demonizzare la carne, ma sicuramente proporne, come faccio sempre, un consumo consapevole. Il modello alimentare più sano, sia che il clima sia stabile che pazzerello, è sempre e comunque quello della dieta mediterranea, dove i cereali la fanno da padrone, frutta e verdura devono essere di stagione (eccoci di nuovo col problema della stagione che non è rispettata) e prodotti nel territorio dove si abita in modo sano e senza troppa chimica per proteggerli. La carne meglio se da pollame o da animali di piccola taglia, quella rossa concessa ma due volte a settimana al massimo. Con queste semplici regole e con l’attenzione non solo alla qualità, ma anche alla quantità del cibo, sicuramente si mantiene l’organismo in salute e si contribuisce a salvare il pianeta. Per entrare ancora un po’ di più nel vivo della sua domanda, quando il clima subisce cambiamenti repentini nel corso della giornata l’oganismo è sottoposto a stress maggiore per autoregolare la temperatura corporea. E allora, a maggior ragione, il cibo-carburante deve essere di qualità, ricco di vitamine, minerali e sostanze che stimolano il sistema immunitario contro virus e batteri (la papaya e lo zenzero sono immunostimolanti, mentre i kiwi sono ricchi di vitamina C). Il consiglio è anche quello di ridurre le quantità di cibo per ogni pasto, proprio per non affaticare il sistema digerente che, impegnandosi troppo e troppo a lungo nel processo digestivo, distoglie energie dalla termoregolazione e dalla protezione immunitaria. (scrivete a salute@ilfattoquotidiano.it)